Venti milioni di visite in sei anni e mezzo: cogliamo l’occasione per provare a fare un bilancio di questa nostra iniziativa: 3.400 articoli pubblicati, più di uno al giorno, che hanno stimolato molti dibattiti tra i lettori, testimoniati da più di 45.000 commenti e da un gruppo Facebook che conta più di 17.000 aderenti. La parte più interessante della storia, però, ha a che fare con le riforme universitarie di cui siamo stati cronisti e anche analisti. L’idea è che il paese ha bisogno di più pizzaioli e tornitori e di meno laureati. Il declassamento a università di serie B della maggioranza degli atenei è un altro mantra che accomuna governi tecnici e non. A chi toccano le chiusure o la retrocessione in serie B? Al Sud, innanzi tutto. Che si tratti di una giusta punizione, anzi di un suicidio, ce lo ha spiegato Daniele Checchi, componente del direttivo Anvur. Abbiamo anche dovuto lavorare parecchio per documentare la fiera di castronerie prodotte dall’ANVUR, spesso ripubblicate senza colpo ferire da giornalisti avidi di veline governative. Roars ha ormai una visibilità riconosciuta a livello internazionale (i redattori di Roars scrivono o sono intervistati su Science, Euroscience, Times Higher Education, LSE blog) e anche nei media mainstream italiani, cartacei e radiotelevisivi. Ma nell’accademia italiana, quella che conta, non sta bene scrivere o anche solo parlare di Roars. L’origine della “damnatio academica” che grava sul nostro blog può essere fatta risalire niente meno che alla stessa Agenzia di valutazione, in un suo documento del 2012. Lungo questa direzione si sono mossi anche i “salvatori dell’università”, che in un recente volume parlano di blog “specializzati nel mettere alla berlina tutto e tutti” (chissà a chi si riferiscono) e non trovano spazio per citare neanche uno delle migliaia di post di ROARS. In questi sei anni, la tradizionale stratificazione dell’accademia italiana si è riplasmata sulla base della vicinanza ai governi e all’Agenzia di Valutazione. Resta qualche magra consolazione. Dopo i proclami a reti unificate degli inizi, quasi nessuno ha più il coraggio di cantare le sorti magnifiche e progressive del nuovo regime post-gelminiano. Ma le incognite su cosa viene dopo restano tutte. Dopo 20 milioni di visite, Roars è ancora vivo (per ora). Peccato che l’università italiana appaia sempre più morta.

1. Venti milioni di visite!

Venti milioni di visite in sei anni e mezzo: il nostro blog Roars ha da poco raggiunto questo traguardo. Cogliamo l’occasione per provare a fare un bilancio di questa nostra iniziativa.

Cominciamo con la parte più facile. I numeri: 3.400 articoli pubblicati, più di uno al giorno, che hanno stimolato molti dibattiti tra i lettori, testimoniati da più di 45.000 commenti. Sono più di 300 gli articoli che hanno superato le 10.000 visite. Ospitiamo commenti e discussioni anche nel nostro gruppo Facebook che conta più di 17.000 aderenti. Siamo anche su Twitter, dove @Redazione_ROARS ha 3.700 followers.

Forse Roars ha ottenuto questo numero di visite perché non c’era (e non c’è!) concorrenza. Certo ci sono un paio di blog (lavoce.info e noiseFromAmeriKa) che, dal punto di vista del tema specifico, sarebbero quasi irrilevanti, se non fosse che nel primo è stata elaborata gran parte della politica dell’università, della ricerca (e della scuola e non solo!) adottata dai governi di ogni colore nell’ultimo decennio. Va anche detto che (a parte sparute e lodevoli eccezioni) su università e ricerca gli organi di informazione esibiscono un buco nero informativo. Forse i milioni di visite a Roars si spiegano perché soddisfano il bisogno di una informazione puntuale e indipendente, attenta alla correttezza dei dati e alla trasparenza dell’analisi informata. Forse Roars con i suoi lettori ha contribuito al formarsi di ciò che Michael Warner ha definito un contropubblico portatore di una moderna coscienza identitaria definitasi nella sfera pubblica, che in qualche modo riesce ad accomunare i membri di una comunità litigiosa e tendenzialmente composta da prime donne come quella universitaria. Forse, grazie a Roars, qualche granello di maggiore consapevolezza ha potuto diffondersi fra molti colleghi presenti, passati e magari (magari) futuri; specialmente la coscienza e l’orgoglio di sapere che il professore svolge un lavoro di formazione fondamentale, con ricadute sociali e politiche, e non può e non deve rinunciare ad esercitare la sua critica intellettuale nella società in cui svolge il suo lavoro. Ed è per questo che la sua autonomia e la sua libertà sono valori da proteggere. 

2. Da chi è pagato Roars? 

Quanto è costato tutto ciò? Se parliamo di soldi, sono poche migliaia di euro utilizzati per pagare le spese del sito e per organizzare i tre convegni Roars nel 2012, 2014 e 2015. All’inizio, i redattori si sono autotassati, poi sono arrivate le donazioni dei lettori più affezionati a cui va il nostro ringraziamento. Se parliamo di tempo e di impegno, invece, Roars è stato reso possibile dal lavoro quotidiano della redazione (attualmente siamo in dieci) e dai contributi dei nostri più di 300 collaboratori, che meritano senz’altro un ringraziamento speciale. Senza di loro Roars non sarebbe mai stato in grado di coprire uno spettro così vasto di argomenti e notizie.

I numeri, però, raccontano solo una parte della storia. L’altra parte, quella più interessante, ha a che fare con le riforme universitarie di cui siamo stati cronisti e anche analisti.

3. La lunga ombra di Mariastella Gelmini

Molto probabilmente, se nel 2010 i “ricercatori sui tetti” fossero riusciti a sventare l’approvazione della riforma Gelmini, i fondatori di Roars non avrebbero avvertito la necessità di fondare un blog collettivo. L’approvazione della legge 240/2010 era stata resa possibile da un dibattito sulla ricerca scientifica e sull’istruzione universitaria in cui abbondava l’ideologia – la stessa che, poi abbiamo constatato, ha abbracciato tutto l’arco parlamentare – e scarseggiavano i fatti. Dopo aver visto le politiche universitarie adeguarsi a visioni caricaturali, nutrite di fatti e numeri addomesticati, era giunto il momento di

ricominciare a parlare alla politica e alla società, demistificando le tante falsità che sono state sparse senza mai rinunciare a farci promotori di esigenze di cambiamento e di miglioramento del sistema.

da: Cosa vogliamo

Di lì a poco, sarebbe entrato in carica il Governo Monti. Al Miur arrivava un tecnico, l’ex-Rettore Francesco Profumo, che dichiaravaLa riforma Gelmini non si cambia, bisogna solo oliare il sistema”. Un sistema che ha continuato ad essere oliato anche dai governi successivi. Che si trattasse di Letta, Renzi o Gentiloni, con i relativi ministri Carrozza, Giannini e Fedeli, le politiche universitarie non hanno manifestato significative deviazioni di rotta rispetto alla riforma del 2010. Il piano delineato da Tremonti per sforbiciare il 20% del sistema universitario è stato scrupolosamente portato a compimento.

L’idea, propagandata sotto varie forme da opinionisti e mezzi di informazione, è che il paese ha bisogno di più pizzaioli e tornitori e di meno laureati. Non per niente, mentre la riforma Gelmini era dibattuta nelle aule parlamentari, il Corriere della Sera scriveva «Meno studi e più trovi lavoro?” Il mercato conferma».

Il disinvestimento è accompagnato dalla colpevolizzazione. Il clima in cui matura la “valutazione all’italiana” è riassunto alla perfezione da un titolo de il Sole24 Ore: «Pubblicazioni “insufficienti” per un professore ogni due». In realtà, che la metà dei professori stia sotto la mediana, più che una notizia degna di un titolo a tre colonne, è una tautologia dato che la mediana, per definizione, divide in due la popolazione a cui si riferisce.

L’Anvur, l’Agenzia di valutazione entra in funzione nel 2011. Un anno dopo è un componente del direttivo a spiegare che le sue valutazioni più che premiare serviranno a decidere chi potrà sopravvivere:

Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta

Il declassamento a università di serie B della maggioranza degli atenei è un mantra che accomuna governi tecnici e non. «Ci sono università di serie A e di serie B, ridicolo negarlo» dice Matteo Renzi nel 2015. Nel 2013, immaginava di concentrare le risorse in soli «cinque hub della ricerca» e nel 2011, intervistato da Max, aveva criticato la Gelmini perché «avrebbe dovuto avere il coraggio di chiudere la metà delle università italiane: servono più a mantenere i baroni che a soddisfare le esigenze degli studenti».

A chi toccano le chiusure o la retrocessione in serie B? Al Sud, innanzi tutto. Che non si tratti di una decisione politica, ma solo di una giusta punizione, anzi un suicidio, ce lo spiega Daniele Checchi, componente del direttivo Anvur:

il Sud, come ho scritto nel titolo, a mio parere, si è suicidato, non è stato ucciso […] visto che non può uccidere i docenti inattivi che sono presenti nelle università del Sud e rimpiazzarli con docenti nuovi freschi. […] quindi uno dice: “chiudo dei corsi, li chiudo d’autorità, sposto il personale da altre parti perché invece voglio promuovere degli altri corsi”.

Le chiusure dei corsi di laurea e dei corsi di dottorato si verificano davvero e si concentrano al Sud, dove pure si concentra il calo delle immatricolazioni. Sempre in tema di darwinismo accademico, per accelerare la stratificazione in serie A e B vengono varati i dipartimenti di eccellenza: 87% al Centro-Nord, 13% a Sud e Isole. Roars aveva previsto il risultato con otto mesi di anticipo.

La strategia di colpevolizzazione colpisce anche gli studenti. Ci sono pochi laureati? “E gli studenti italiani sono ancora bamboccionititola Repubblica meno di un mese fa. Ma già nel 2012 il Ministro Profumo, sfidando le statistiche internazionali, sosteneva che l’Italia “è l’unico Paese al mondo dove esistono i fuoricorso“.

A Roars è toccato il poco invidiabile compito di documentare questi passaggi e di evidenziarne la coerenza. Difficile dire se qualcosa sarebbe cambiato senza le nostre analisi e le nostre denunce. Grazie alla sostanziale continuità delle politiche universitarie degli ultimi cinque governi il processo di ridimensionamento e di stratificazione non ha subito arresti ad eccezione della Buona Università e delle Cattedre Natta, affondate anche grazie alla campagna di opinione stimolata dagli articoli di Roars. E non va dimenticato l’impegno, manifestato da Roars fino agli ultimi giorni utili, nel contrastare una riforma costituzionale che avrebbe assestato il colpo di grazia all’autonomia universitaria.

4. Radio Londra anzi Radio Roars

La Redazione di Roars non si è limitata a registrare l’avanzata delle “riforme”, ma si è trovata in prima linea nel contrasto delle fake news, ancor prima che l’uso del termine divenisse popolare. Quando si cristallizzano, le fake news si trasformano in miti e leggende utili a spianare la strada a riforme ad alto tasso ideologico e scarsa utilità sociale. Ci siamo dedicati alla caccia alle bufale e al loro debunking nella convinzione che ogni tentativo di imbastire un dibattito democratico sul futuro dell’istruzione e della ricerca è sostanzialmente vano quando i pozzi dell’informazione sono avvelenati.

Basta dare una scorsa alla nostra rubrica “la bufala del giorno” per comprendere quante energie sono state profuse in questa impresa, a dir poco titanica. Abbiamo mostrato a più riprese che non è possibile fidarsi dei maggiori organi di informazione nemmeno quando riportano numeri e classifiche internazionali. Vengono confusi e mescolati insieme iscritti e immatricolati, si annunciano crolli epocali della produzione scientifica mai avvenuti, si discute di balzi in classifiche internazionali usando l’ordine alfabetico al posto della classifica. Sono solo alcuni esempi qualcuno potrebbe essere tentato di derubricare a innocua fiera delle castronerie. In realtà, il numero o la classifica farlocca fanno spesso da supporto alla riproposizione di qualche mantra ideologico.

Ma ROARS in questi anni ha dovuto lavorare parecchio per documentare la fiera di castronerie prodotte dall’ANVUR, spesso ripubblicate senza colpo ferire da giornalisti avidi di veline governative.Tutti ricorderanno la vicenda della lista delle riviste scientifiche valide per le procedure di abilitazione che divenne oggetto di ilarità nazionale, meritandosi la prima pagina del Corriere della Sera, ed internazionale, con un lungo articolo di Times Higher Education. Negli elenchi Anvur c’era di tutto, dal Sole 24 Ore fino all’annuario del Liceo di Rovereto, ma anche riviste per catechisti, periodici patinati come Yacht Capital e periodici per operatori agricoli e allevatori di maiali, come Suinicoltura.

Due membri del consiglio direttivo di ANVUR, Luisa Ribolzi e Massimo Castagnaro, difesero la scientificità (nell’area di Scienze economiche e statistiche!) di quella che freudianamente ribattezzarono “Rivista di suinicultura” (sic). La rivista “punto di riferimento imprescindibile per gli allevatori di suini, per i tecnici e per le imprese impegnate nell’indotto della filiera suinicola nazionale”,  fu così accostata al Caffè di Pietro Verri:

Il Caffé dovrebbe forse essere escluso dal novero delle riviste che hanno fatto la cultura italiana perché ha un nome che lascia piuttosto pensare alla cucina?.

Sul Sole 24 Ore, intervenne anche l’allora presidente dell’ANVUR Stefano Fantoni rivendicando il credito internazionale di cui godeva l’agenzia, uno dei cui primi atti “è stato quello di diventare membro dell’Enqa (European Association for Quality Assurance in Higher Education) e di avviare la collaborazione con alcune delle maggiori sorelle europee, come ad esempio l’Aeres francese“.

Passano tre mesi e in Francia viene annunciata la chiusura dell’Aeres. Passa un anno e si scopre che l’Anvur non era membro dell Enqa, ma solo «membro candidato». E’ del 19 marzo scroso la notizia che ANVUR ha inziato le procedure per dieventare membro ENQA.



Il Paese possiede una fotografia dettagliatissima e, soprattutto, certificata della qualità della ricerca italiana” dichiara il presidente Fantoni in occasione della pubblicazione dei risultati della prima VQR. Esulta Messina che precede di sei posizioni il Politecnico di Milano nella classifica Anvur per Ingegneria Industriale e dell’Informazione.

Se qualcuno non lo ricorda, a suo tempo documentammo che le classifiche Anvur 2013 fornite alla stampa erano diverse da quelle del rapporto ufficiale Anvur. L’agenzia riscrisse le classifiche degli esperti di area, cambiando le demarcazioni che suddividono università e dipartimenti in piccoli, medi e grandi. Si suole dire che il lupo perda il pelo ma non il vizio: anche nella seconda VQR, le demarcazioni dimensionali non sono neutrali. Grazie a sapienti aggiustamenti, nelle scienze matematiche e informatiche ad aggiudicarsi l’oro tra le grandi è Pisa (università del coordinatore del GEV, il comitato dei valutatori), mentre il bronzo va a Roma La Sapienza (università del coordinatore di un sub-GEV).

A cucù non furono solo le classifiche VQR, ma anche le mediane della prima abilitazione: nell’agosto 2012, nonostante l’assenza di dati certificati sulla produzione dei singoli professori, l’Anvur pubblica le mediane, ma se le rimangia il 27 dello stesso mese.  L’Anvur si giustificò con un documento scritto in un italiano stentato e chiamò sul banco degli imputati una presunta ambiguità del concetto di mediana! (guadagnandosi un posto d’onore nel Bestiario matematico di Giorgio Israel) Nonostante le prescrizioni del D.M. 76/2012, l’Anvur non pubblicherà mai i dati di dettaglio utili per una controverifica.

Per venire a tempi più recenti, ANVUR ha prodotto la classifica dei dipartimenti di eccellenza, usando una metodologia tecnicamente errata e producendo una improbabile lista di eccellenti ex-aequo. A fronte della richiesta da parte di Roars di avere accesso ai dati per riprodurre i calcoli, ANVUR ha risposto dicendo che i dati sono coperti da privacy, con il risultato che il MIUR sta distribuendo € 1,35 miliardi sulla base di classifiche che nessuno sa se sono corrette.

Anche il MIUR ci ha fatto lavorare. Non solo per le vicende legate alla nomina del Consiglio direttivo di ANVUR, che hanno avuto l’onore della prima pagina del Corriere della Sera e della prima serata televisiva con le Iene. Ma anche per le questioni relative ai finanziamenti PRIN 2015, dove abbiamo mostrato il 77% dei fondi PRIN nel settore economico (SH1) vengono assega nati a progetti in cui la Bocconi coordina (36%) o collabora (41%). Quei progetti sono stati valutati nel 48% da bocconiani o alumni della Bocconi, scelti da un selezionatore, anch’esso alumnus dello stesso ateneo privato.

Ma cosa c’entra Roars con Radio Londra si chiederà il lettore? Il paragone nasce in occasione della chiusura del conferimento dei prodotti VQR. Il Movimento per la dignità della docenza universitaria creato da Carlo Ferraro fa partire la protesta #STOPVQR: i docenti si rifiutano di partecipare alla VQR in nome della loro dignità calpestata e del loro stipendio. Quanti saranno a partecipare? Mentre Il Sole 24 Ore e Repubblica fungono da ufficio stampa di Anvur, dicendo che la protesta è fallita, per sapere cosa è successo davvero bisognava leggere l’articolo di Baccini e De Nicolao in bella vista sulla home page di Times Higher Education.

E al momento della pubblicazione dei risultati, le previsioni di ROARS sull’esito della protesta si rivelano esatte: la protesta pesa nei risultati finali della valutazione. Tanto che il MIUR ha dovuto inserire un parametro per distribuire la parte premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario in grado di correggere gli effetti di #stopVQR.

Ma Radio Londra ricorda anche altro. Indica che Roars ha una visibilità riconosciuta a livello internazionale (i redattori di Roars scrivono o sono intervistati su Science, Euroscience, Times Higher Education, LSE blog) e anche nei media mainstream italiani, cartacei e radiotelevisivi.

Ma nell’accademia italiana, quella che conta (o che contava, visto l’esito delle ultime elezioni politiche), non sta bene scrivere o anche solo parlare di Roars.

L’origine della damnatio che grava sul nostro blog può essere fatta risalire niente meno che alla stessa Agenzia di valutazione, che in un suo documento del 2012, riferendosi a Roars scriveva:

l’ANVUR ha dato ampia dimostrazione della volontà di confronto e condivisione della propria linea, pubblicando documenti in bozza preliminari alle decisioni finali, e continuerà a farlo ricercando la collaborazione di coloro che sono animati da spirito costruttivo. Avendo verificato che le critiche del sito in questione non soddisfano, nel merito e nel metodo, a tale condizione, si asterrà d’ora in poi da qualunque commento e risposta.

Lungo questa direzione, l’ex consigliere Anvur Andrea Bonaccorsi nel suo libro La valutazione possibile sceglie di non citare i blog e i siti dedicati (“da qualche parte dovevo tagliare”). Anche i “salvatori dell’università” Giliberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri, in un recente volume sempre pubblicato da Il Mulino, lamentano che “Le rappresentazioni che dell’università vengono offerte dai media, in volumi fortemente polemici, o in blog specializzati nel mettere alla berlina tutto e tutti, sono per lo più di un semplicismo sconcertante” (chissà a chi si riferiscono) e non trovano spazio per citare neanche uno delle migliaia di post di ROARS. Capita anche che nel corso di un intervento pubblico qualcuno faccia riferimento a Roars, precisando però subito dopo che “no, non pensate male, non sono un lettore abituale”. E tra i colleghi ci sono molti che leggono Roars, ma non lo dicono proprio. Radio Londra si ascolta di nascosto, col volume al minimo, senza dire che lo si fa.

Una damnatio academica che ci fa sorridere, soprattutto quando pensiamo ai 20 milioni di contatti e alla visibilità nazionale e internazionale che ci siamo guadagnati.

5. Roars è ancora vivo, l’università è sempre più morta

Dopo sei anni e venti milioni di accessi, la situazione dell’università italiana è sicuramente peggiorata. In alcune aree c’è stato un ricambio della élite al potere: vecchi baroni sono stati sostituiti da una tecnocrazia baronale di nuova generazione; in altre i vecchi baroni si sono gattopardescamente riciclati in campioni della meritocrazia oggettiva. I rettori, ormai liberati dal legame con la loro base elettiva, si sono autodichiarati datori di lavoro di quelli che una volta erano i loro pari. Di fatto la tradizionale stratificazione dell’accademia italiana si è riconfigurata sulla base della vicinanza ai governi e all’Agenzia di Valutazione. Le lotte di potere interne hanno continuato ad avere la precedenza sulla missione sociale, lasciando ai soli studenti il compito di difendere il diritto allo studio, il cui arretramento è testimoniato da un inedito calo delle immatricolazioni, da cui ci si sta solo gradualmente risollevando.

I segnali di vita accademica indipendente sono pochi. Dopo la stagione dei ricercatori sui tetti, la successiva normalizzazione è stata lievemente incrinata dalla protesta #stopVQR e soprattutto dal successo dello sciopero sugli scatti.

Segnali di vita più interessanti arrivano dalle organizzazioni studentesche, che non solo hanno preso coscienza che alcune delle questioni che Roars ha indicato come centrali, lo sono anche per loro. Cominciano a circolare e pesare opinioni anche nella saggistica: ai libri pre-gelminiani di Perotti e Regini, sono subentrate le analisi dei gruppi di ricerca guidati da Gianfranco Viesti, raccolte nel volume Università in declino. Sono stati pubblicati altri testi critici, che non raccontano la solita storia mainstream: Valutare e punire di Valeria Pinto, Universitaly. La cultura in scatola di Federico Bertoni, I pesci e il pavone di Enrico Mauro, La laurea negata di Gianfranco Viesti, solo per citarne alcuni.

Roars ha tentato di introdurre nel dibattito alcuni temi di grande rilevanza nella comunità scientifica internazionale, ma del tutto ignorati nel nostro paese: open science ed open access, l’uso responsabile delle metriche, il dibattito sulla research integrity e sulle metodologie di valutazione. Nel complesso, il successo, se misurato dal numero di letture, è stato a dir poco limitato, segno dello scarso interesse su tematiche centrali nel resto del mondo. Ciononostante la redazione ha ritenuto importante documentare, a futura memoria, i punti cruciali – nazionali e internazionali – rispetto a questi temi.  Anche il lavoro svolto sui ranking universitari ha avuto vasta eco, ma scarso peso nella discussione interna e ancora minor peso sui comportamenti adottati dagli atenei italiani. Solo di recente è stato pubblicato qualche articolo sui giornali che sembra aver colto le criticità di queste classifiche internazionali

Ci rimane qualche magra consolazione. Oltre al fatto che quando ci guardiamo allo specchio la mattina non dobbiamo abbassare gli occhi [un lusso, di questi tempi], osserviamo con qualche soddisfazione che, dopo i proclami a reti unificate degli inizi, quasi nessuno ha più il coraggio di cantare le sorti magnifiche e progressive del nuovo regime post-gelminiano. Ed è pure degno di nota il crollo elettorale del partito che più di altri ha supportato queste riforme.

Ma le incognite su cosa viene dopo restano tutte. Dopo 20 milioni di visite, Roars è ancora vivo (per ora). Peccato che l’università italiana appaia sempre più morta.

 

 

 

 

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3 Commenti

  1. Proprio perché l’Università Italiana è violentata da leggi arbitrarie e ancor più da chi le mette in pratica con una politica che deprezza il merito e lo schernisce, scrivere è molto, ma non è abbastanza.
    Siamo noi, ognuno nella propria sede, a dover dar vita a movimenti che denuncino le storture e fermino un’umiliante susseguirsi di depauperamento (non solo economico, morale, degli organici, della ricerca, dell’insegnamento).
    Siamo noi che dobbiamo essere vivi e reattivi.

  2. Ho come l’impressione che, da quando è stata aggiornata la veste grafica di roars.it, siano diminuiti i commenti agli articoli.
    Non posso che affermare di visitare Roars.it quasi quotidianamente, tranne la Domenica. Un plauso alla redazione anche per la scelta delle immagini di copertina degli articoli: sono sempre azzeccatissime!

  3. Per me Roars è come il quotidiano e il caffè non si può iniziare bene la giornata senza! Un grazie per tutto il lavoro svolto. Se non si può dire che la comunità accademica nel suo insieme sia fatta di cuor di leone sono certo che segretamente vi segue numerosissima e tiene conto delle preziose informazioni.

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