Matteo Renzi dice a Lilli Gruber: “le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centoottantatreesimo posto?”. Seguono bei propositi che – gratta, gratta – rivelano scarsa conoscenza del sistema universitario nazionale. Per chi si candida ad un ruolo politico di primo piano sulla scena nazionale è meglio scendere con i piedi per terra e parlare di cose concrete. Inutile indugiare: per Renzi abbiamo preparato un piccolo “kit del candidato”, il bagaglio minimo indispensabile per parlare di università a ragion veduta e tenersi alla larga dai luoghi comuni.

Il sindaco di Firenze, aspirante segretario del PD e candidato premier è apparso nella trasmissione Otto e Mezzo, condotta da Lilli Gruber.

http://www.la7.tv/richplayer/index.html?assetid=50363152  min. 26:30

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Renzi si è espresso su molti temi, richiamando più volte la concretezza della propria visione. Anche a proposito di università.

Renzi ha affermato:

“Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi c’ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l’amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su cui investiamo..le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centoottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali. Ecco, per fare queste cose qui non si deve parlare di Berlusconi”.

Qualche osservazione nel merito: i piazzamenti degli Atenei italiani nelle varie classifiche (QS, THE, ecc.) sono stati discussi in questa sede. Il modo in cui i ranking internazionali sono costruiti li rende inattendibili e del tutto inutili per avere un quadro della ricerca italiana. Prima di meravigliarci perché nessun ateneo italiano entra nei primi cento, diamo un’occhiata cosa spende ogni anno l’Università di Harvard che di norma occupa le prime posizioni di queste classifiche internazionali (i dati sono in migliaia di dollari).

Ora, vediamo invece cosa vale il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) stanziato per per i 66 atenei che compongono il sistema universitario statale.

I conti sono presto fatti: le spese di Harvard ammontano al 44% dell’intero Fondo di finanziamento ordinario italiano di cui beneficiano 66 atenei statali. In altre parole, il finanziamento pubblico dell’intero sistema universitario statale italiano basterebbe a coprire i costi annuali di poco più di due atenei simili ad Harvard. Per semplicità, non abbiamo conteggiato le tasse degli studenti italiani, ma la sproporzione tra le risorse impegnate dall’ateneo statunitense e quelle a disposizione dei singoli atenei italiani rimane comunque enorme.

Per qualche ragione, questa disparità di mezzi viene quasi sempre ignorata quando si caldeggiano riforme radicali al fine di gareggiare con gli atenei superstar. Sarebbe interessante mettere di fianco al Fondo di finanziamento ordinario italiano la somma dei costi dei primi 66 atenei di una qualsiasi classifica  internazionale: sarebbe il modo per spiegare quanto costa la formazione superiore nelle nazioni che vogliamo prendere a modello ed anche quanto siano campati per aria gli argomenti di chi crede di trovare in quelle classifiche le dimostrazione scientifica del fallimento del sistema universitario italiano.

I ranking sono essenzialmente strumenti di marketing, dei quali gli atenei cominciano a non poter fare più a meno, perché i piazzamenti influenzano il numero di immatricolazione e la visibilità delle sedi. Ma sono e restano strumenti di marketing senza alcuna valenza scientifica.

Immaginare federazioni di atenei o comunque poli di sedi che cooperino fra di loro potrebbe anche essere un’idea sensata. Se ne è discusso recentemente in Francia. Ma l’assetto del sistema dell’università e della ricerca deve mirare alla formazione, alla qualità della ricerca, alle ricadute sul territorio. Non ai piazzamenti nei rankings internazionali. Parliamo di cose concrete, lasciamo stare gli strumenti retorici.

Fra l’altro, è bene ricordare a Matteo Renzi che quello in cui viviamo non è il mondo della stantia retorica post-gelminiana, delle università “sotto casa”, “spezzettatine”, dei “baroni” che non fanno il loro mestiere. La realtà è molto più complessa. E amara.

La retorica che lamenta il proliferare di “università sotto casa” lascia intendere un’ipertrofia di offerta formativa associata ad un eccesso di laureati e di professori universitari. Una visione condivisa da buona parte della stampa, ma raramente confrontata con i fatti e le cifre.

Il mondo in cui viviamo è quello di una nazione la cui percentuale di laureati nella fascia 25-34 anni è la più bassa in Europa e la penultima dei paesi OCSE (l’unico che ha una percentule più bassa è la Turchia, mentre il Brasile è “non-OCSE”).

Il mondo in cui viviamo è quello di un’università che è rimasta competitiva nonostante tagli selvaggi da parte di una classe politica sorda al tema della ricerca e della formazione e priva di orizzonte strategico.

L’elaborazione SCImago su dati Scopus 1996-2012 continua a collocare il nostro Paese in una posizione – l’ottava – coerente con il  P.I.L., sia per quel che riguarda la produzione di pubblicazioni scientifiche che per il loro impatto misurato dalle citazioni.

Tutto questo, nonostante l’Italia abbia meno università per milione di abitante rispetto agli altri Paesi industrializzati.

Nonostante il rapporto studenti/docenti sia pessimo:

Nonostante il bassissimo numero di ricercatori accademici:

 Nonostante il cronico sottofinanziamento del sistema:

Se in Italia ci sono troppo pochi laureati, troppo poche aziende che fanno innovazione e investono in ricerca, se tanti ottimi ricercatori formati con i danari della fiscalità generale emigrano, la causa più profonda non va cercata nelle baronie e nei campanilismi evocati da Renzi: dipende dal fatto che il Paese non investe in ricerca e formazione, candidandosi a diventare sempre di più un paese arretrato. Non è potando ulteriormente una pianta sofferente che la si fa rinverdire. Occorre investire. Vogliamo le federazioni di atenei, i poli della ricerca? Perché no. Ma nulla si può fare senza rifinanziare il sistema e senza tenere presente che formazione e ricerca non sono un lusso, sono una necessità se si vuole essere competitivi nel XXI secolo.

Insomma, ci sembra che Renzi abbia bisogno di studiare un po’ sul tema di università e ricerca.

Naturalmente la redazione di ROARS è disponibile ad organizzare seminari sul tema nella splendida Firenze se solo Renzi avesse voglia di ascoltarci e di abbandonare certi slogan troppo facili e ormai logori.

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72 Commenti

  1. Ho dato uno sguardo alla graduatoria del Times Higher Education Supplement. Mi sembra che non abbia alcun senso. Come è possibile che l’Università di Gerusalemme, arranchi ben dietro un bel po’ di università statali minori degli SU? Forse i miei criteri sono diversi, ma dubito che ci siano in queste università statali minori docenti che sulla base delle loro qualifiche scientifiche potrebbero essere considerati seriamente per un posto permanente alla Hebrew University of Jerusalem.

  2. Inoltre trovo difficile comparare le università americane con quelle italiane. Dal bilancio di Harward emerge che solo il 35% arriva da investimenti statali rilasciati dietro a specifiche ricerche e progetti. Significa 1 miliardo di euro, non 4. Il resto arriva da studenti (777 mln), sponsor(833 mln), donazioni (289 mln) e altro. Inoltre parliamo di un ente che negli anni ha investito bene le sue eccedenze e oggi dispone di un patrimonio di 50 miliardi di dollari (Net asset) che qualcosa frutterà pure…se investito decentemente. Infatti segue un’analisi del portfolio titoli che assomiglia di piu’ ad un fondo di investimento che a una scuola..insomma non mescoliamo pere e mele…

    • Ma non si stava paragonando la sorgente del finanziamento né la sua struttura quanto la sua entità. A prescindere da dove viene il finanziamento come si fa a mettere nella stessa tabellina Harvard, con un budget del genere e 10,000 studenti, e La Sapienza (ad esempio) che di studenti ne ha 180,000 e il cui badget è <1/3 di quello di Harvard. E così via. In quelle classifiche non c’è questa informazione e sono proprio queste tabelle che mescolano pere con mele.

    • pere e mele? se harvard funziona diversamente e da risultati migliori delle università non private allora mi sa che è arrivato il momento di ripensare al concetto di università pubblica. Il nostro non funziona più. Come fai a dire pere e mele se sono organizzazioni operanti con il medesimo obiettivo?

  3. Italia Oggi parla di Roars: “E infatti già domenica sera, il documentatissimo Roars.it, portale dell’orgoglio universitario, aveva già conciato il Rottamatore per le feste, mostrando con una serie di tabelle e grafici che la regina dei ranking internazionali, la bostoniana Harvard, potesse contare per risorse pari a circa tre miliardi di dollari, che corrispondono alla metà del finanziamento pubblico italiano ai 68 atenei pubblici del Belpaese e, poca cosa, agli atenei privati.”
    versione cartacea: http://www.stampa.cnr.it/RassegnaStampa/13-09/130926/260AS8.tif
    versione web: http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1844002&codiciTestate=1&sez=hgiornali&testo&titolo=Renzi+si+scotta+con+i+baroncini


    • Per quanto l’epiteto “gelminiano” non sia presente nel nostro articolo, è possibile che Italia Oggi avesse in mente un’intervista che Renzi aveva rilasciato alla rivista Max agli inizi del 2011:
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      “Il Ministro avrebbe dovuto avere il coraggio di chiudere la metà delle università italiane: servono più a mantenere i baroni che a soddisfare le esigenze degli studenti”. E’ un passaggio dell’intervista del sindaco di Firenze Matteo Renzi a Max, oggi in edicola, di cui è stata diffusa una sintesi. E su Bersani, salito sul tetto con i precari universitari, aggiunge: “Farlo gli ha fatto senz’altro bene da un punto di vista fisico, dopo tanto tempo in Parlamento. Credo però che il luogo di chi viene pagato per fare politica siano le aule del Parlamento, non i tetti”.
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      http://firenze.repubblica.it/cronaca/2011/02/03/news/renzi_mat_delle_universit_dovrebbero_essere_chiuse-12010731/

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