Col suo titolo foucaultiano, il recente volume di Valeria Pinto (Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli 2012),  vuole innanzi tutto puntare il dito su una circostanza che ha caratterizzato il dibattito italiano sulla valutazione del sistema universitario e che lo ha di sicuro differenziato da quelli analoghi che sono stati effettuati altrove: l’essere esso venuto a seguito di una intensa e largamente condivisa campagna di stampa e di opinione in cui l’università è stata raffigurata come un covo di malaffare, dedito al nepotismo e alle raccomandazioni, nonché popolato da nullafacenti che lucrano prebende e compensi del tutto ingiustificate rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro effettuato. Questa campagna – alla quale hanno contribuito opinionisti disinformati, ma anche informati docenti universitari che hanno artatamente o inconsapevolmente alterato i dati – ha predisposto un’opinione pubblica che ha inteso la riforma dell’università non come una necessaria misura per renderla più adeguata a quella società della conoscenza da tutti evocata ma che pochi riescono a immaginare nei suoi reali contorni, bensì innanzi tutto come una misura di ‘polizia’ che “tagliasse le unghie ai baroni” (s’é persino detto questo nella demagogia riformista), quale operazione di ‘bonifica’ di una palude, di dimagrimento che “affamasse la bestia” e la inducesse a più miti consigli e a più morigerati costumi. Insomma un’occasione affinché un gruppo giacobino di autoproclamatisi riformatori – incorruttibili ed ‘eccellenti’ – avviasse una “rivoluzione dall’alto” che rivoltasse come un guanto l’università, punendo i colpevoli delle malversazioni e – nel frattempo – anche spostasse gli equilibri all’interno dei vari ambiti disciplinari a favore della “parte sana” dell’accademia, emarginando e “riducendo a zombie” la rimanente.

Questo il quadro nel quale è stata avviata la “grande opera di valutazione”, il cui strumento e braccio armato è diventato l’Anvur. Delle sue imprese, delle sue insufficienze e delle sue incomprensibili modalità operative abbiamo dato su Roars ampia documentazione, per cui non è qui il caso di insistere su di esse. E ciò anche perché non è questo lo scopo del volume della Pinto, che ben le conosce e a cui si richiama nel corso del testo; il quale invece si concentra più in generale sulla filosofia che ci sta dietro il processo di valutazione, inteso come una evenienza che sempre più caratterizza le società contemporanee e che certo non è propria solo dell’università italiana, anche se in questo caso esso ha avuto quelle caratteristiche peculiari che abbiamo prima richiamato. La valutazione, il ‘rating’, i processi di ‘audit’ e così via sono sempre più diffusi e investono vari aspetti della vita associata; ultimamente anche la produzione scientifica e quindi il rendimento delle università, cioè la cultura, che di solito, almeno in passato, veniva intesa come qualcosa così qualitativamente caratterizzata da sfuggire alla presa di quella quantificazione numerica ben adatta a misurare unità di prodotti materiali, come avviene nelle industrie di beni di consumo. Ciò contrasta con un modo di intendere la ricerca sino a qualche decennio fa tenuto per pacifico, ovvero con quell’organizzazione liberale della scienza per la quale «la scienza va lasciata autorganizzarsi sul presupposto della sua naturale fecondità per il progresso economico-sociale […] Con l’entrata in scena dei ‘legittimi portatori di interesse’ e della parola d’ordine value for money (sono soldi pubblici, bisogna renderne conto pubblicamente), si indicano alla ricerca le vie da battere, i rami secchi da tagliare, le relazioni da stringere, i partner da privilegiare, i modelli da assumere» (pp. 33-4).

E qui entriamo nel cuore del problema, che è a monte del concetto stesso di valutazione e del modo in cui è cambiato il modello di ricerca negli ultimi decenni. Non si tratta per la Pinto di scrutinare e diagnosticare i difetti tecnici che ogni sistema di valutazione possiede, di valutarne gli impatti negativi sulla ricerca stessa e sulla produzione della conoscenza, di far vedere come in molti casi tale valutazione finisca per essere autolesionistica e comporti una sorta di eterogenesi dei fini, immiserendo la ricerca e la qualità della produzione scientifica e quindi conseguendo il fine esattamente opposto a quello che vorrebbe conseguire: sono tutti questi argomenti ampiamente noti nella letteratura sulla valutazione e sulla scientometria (o la sua più specifica incarnazione, la bibliometria) che ogni ricercatore e studioso serio ben conosce (ma che sembrano ignorati dai talebani della valutazione annidati nell’Anvur). E sono difetti sulla cui soluzione v’è un ampio dibattito, che ha nella posizione ‘riformista’ di chi crede nella loro verosimile emendazione e nella possibilità di affinare sempre più tali strumenti il settore più politicamente spendibile. Ma la Pinto non si lascia sedurre dalle sirene della perfettibilità della scientometria e dei processi valutativi, in quanto il suo approccio ne contesta la base sociale, produttiva; mette in discussione il modello culturale che ne sta alla base: ovvero l’imporsi del mercato come criterio fondamentale di regolazione di ogni aspetto della vita umana: «Di qui l’importanza della valutazione: una pratica di verità funzionale all’instaurazione di regimi di ‘conoscenza amministrata’, cioè regimi di ‘quasi-mercato’, dove si tratta di creare vincoli di mercato pure in assenza di merci e di condizioni corrispondenti» (p. 55). Ed è la considerazione della conoscenza come bene economico a fare da sfondo a tale tentativo di sua amministrazione che – sembra un paradosso – in nome del mercato finisce per introdurre forme di sovietizzazione della ricerca sconosciute persino ai paesi del fu comunismo reale. E così il mercato inesistente – quello delle idee e dei prodotti della ricerca – deve essere artificialmente creato dallo Stato, mediante l’introduzione di regolamenti e criteri, indirizzi e norme, premi e punizioni: insomma, attraverso le procedure di una valutazione sistematica e centralmente amministrata.

Ancora più a monte v’è la diagnosticata stretta interrelazione tra ricerca, innovazione e sviluppo economico, nel cui nesso viene diagnosticato lo specifico della “società della conoscenza”, alla cui base vi sta un’economia che si alimenta dell’alto “valore aggiunto” assicurato dall’innovazione tecnologica. Soltanto nel contesto del nuovo scenario globale, del tramonto del modello di sviluppo imperniato sul welfare a seguito dell’affermazioni delle politiche neoliberali, nonché della progressiva emarginazione dello Stato-nazione – ci ricorda la Pinto – è possibile intendere la diversa funzione svolta dalle università: da luogo integrato di elaborazione delle professionalità, di formazione civile complessiva della nazione e di creazione delle competenze e delle conoscenze necessarie al suo sviluppo, la loro funzione si è progressivamente rattrappita al ruolo di produzione delle conoscenze fungibili alla crescita economica, intesa essenzialmente come capacità di competere nelle alte tecnologie. È questa la preoccupazione che nella sostanza alimenta la cosiddetta “strategia di Lisbona” lanciata dalla comunità europea nel 1999 e mirante ad un incremento dell’investimento in ricerca e sviluppo, essenzialmente motivato dalla necessità di alimentare lo sviluppo economico, ché il resto (integrazione sociale, piena occupazione, superamento delle diseguaglianze) sarebbe venuto da sé. È la stessa preoccupazione a stare nei pensieri dell’Ocse, che lancia l’idea di pratiche di benchmarking allo scopo di misurare e valutare i progressi e il cammino dei vari paesi verso una maggiore ‘competitività’. Ed è anche il benchmarking che viene posto alla base della comunità europea per valutare i suoi progressi verso la società della conoscenza e il grado di attuazione della strategia di Lisbona nei suoi singoli paesi, predisponendo una serie di misure, di indicatori e di statistiche idonee allo scopo. Nella concorrenza tra centri di ricerca, università, intelligenze viene individuato il meccanismo privilegiato per raggiungere quell’eccellenza, una volta saldo possesso dell’Europa e ora sempre più trasmigrante verso i nuovi protagonisti della ricerca e dell’innovazione mondiale, che insidiano ormai anche il primato degli Stati Uniti. Ecco allora la necessità di attuare una politica della conoscenza che elimini o riduca al minimo tutto quanto diverga, in termini di forze, energie e denaro, dall’obiettivo di trasformare la conoscenza in “vantaggio competitivo”: bisogna abolire i costi giudicati inutili e disfunzionali rispetto allo scopo fondamentale, ovvero la conversione della conoscenza in “economia della conoscenza”. Dalla conoscenza orientata alla verità e al progresso civile e morale della comunità civile (sarebbe questa la “terza missione” che persino la comunità europea riconosce all’università) si passa a una conoscenza orientata all’utilità, centrata su ciò che è operativamente implementabile in un sistema produttivo.

Conoscenza, dunque, come innovazione; innovazione come sviluppo; sviluppo come crescita della disponibilità di beni materiali. Come si concilia tutto ciò – possiamo en passant rilevare – con la insistita lamentazione, esibita dai medesimi neoliberali che sostengono tale modo di concepire la conoscenza e che tuttavia si fanno anche cantori e custodi dei valori, circa la crescente discrasia tra un esponenziale progresso tecnico-scientifico e una parimenti rattrappita evoluzione morale e ‘spirituale’ delle persone? Tra progresso economico e tecnologico e regresso civile e sociale? Tra disponibilità sempre maggiore di beni materiali e crescente povertà interiore o ‘spirituale’? Ma donde dovrebbero assumere le persone i valori, il tessuto etico che forma la personalità, il saldo senso civico e civile che lega una popolazione facendone qualcosa di più che un aggregato di atomi-consumatori, se non dal ricco e stratificato complesso di riflessioni sull’uomo, la storia, il senso della vita e il modo di vivere delle comunità messo a disposizione delle scienze storiche e umaniste? E tuttavia sono proprio queste le scienze più sacrificate sull’altare del “vantaggio competitivo” e del “valore aggiunto” fornito dell’innovazione tecnologica. Forse i valori si apprendono studiando i circuiti di un microchip? Oppure devono esser appaltate – come da qualche parte si suggerisce – alle agenzie istituzionalizzate di dispensazione di supplementi ‘spirituali’ e morali, come le chiese e le varie sette che si contendono, anche esse, il “mercato delle anime”?

Ma a prescindere da simili valutazioni generali e complessive – che magari faranno sollevare un sopracciglio di diffidenza e sufficienza ai pensosi operatori sul destino dell’università italiana – v’è la tesi di fondo che corre lungo tutto il libro della Pinto: la diagnosi della valutazione come momento fondamentale e connaturato a un nuovo modello di società, caratterizzato dalla globalizzazione e dalla rivoluzione neoliberale. Tuttavia a noi sembra che – pur potendo in gran parte condividerne la diagnosi generale – si debba distinguere la valutazione in quanto tale – che è un momento fondamentale e inevitabile di qualunque assetto sociale, in qualsiasi società, in ogni epoca storica – dalla forma specifica che ha assunto la valutazione negli ultimi anni e che – ancor più – ha caratterizzato quella implementata in Italia grazie all’Anvur: e sembra che, ancora una volta, qui da noi valga l’adagio per cui la tragedia (culturale, sociale ed economica che caratterizza l’attuale congiuntura mondiale) si trasforma in farsa. Non si tratta in sostanza di delegittimare la valutazione in quanto tale, ma quella sua forma accentrata, amministrata, giacobina, tecnicamente incompetente, spesso in malafede, che essa ha assunto in Italia. È a questa valutazione che noi di Roars non abbiamo fatto mancare le nostre critiche; ed è per un modo diverso di intenderla e di implementarla che noi riteniamo vi sia spazio, senza con ciò essere succubi di quella ideologia del mercato e del “valore competitivo” che mette la sordina al bisogno di conoscenza e di verità, di progresso civile e morale, il cui soddisfacimento riteniamo debba costituire una funzione imprescindibile dell’università e della cultura.

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9 Commenti

  1. Il libro e’ bellissimo. Il migliore prodotto (scusate la terminologia anvuriana) disponibile sul tema, in lingua italiana, per capire criticamente i processi in atto, basati sul feticismo della valutazione.

  2. Cari amici, con sentenza n. 1709/13, resa nel ricorso n. 8143/12 proposto dai Colleghi Franco Sabatini e Augusto Sinagra nell’interesse di Nuova Rivista Storica diretta dal Collega Prof. Eugenio Di Rienzo ricadente nelle Aree CUN 11 e 14, il TAR del Lazio ha annullato tutte le valutazioni effettuate dall’ANVUR relative alle Riviste ritenute di classe A. Credo che debba rivolgersi il nostro più vivo ringraziamento al Prof. Avv. Augusto Sinagra che,pur operando in silenzio, contribuisce molto a smascherare le cosiddette valutazioni dell’ANVUR. Qualcuno dovrà pur riflettere all’ANVUR che non è possibile che a dimettersi sia solo il Sommo Pontefice “per motivi di salute”. Per incapacità si ha il dovere di dimettersi.

  3. Grazie, come sempre, per le informazioni. Quanto alla ‘sovietizzazione’, mi trovo completamente d’accordo perché per certi versi ciò che è successo e sta succedendo all’università e intorno ad essa è come una brutta copia di un per me déjà vècu. Volevo soltanto aggiungere una cosa che forse sta nel libro. Non è per me corretto esaminare questo processo soltanto o soprattutto come qualcosa esterno al mondo della ricerca, didattica e conoscenza universitarie; il processo nasce anche dall’interno e con un sostegno proveniente dall’interno attraverso l’opera di implementatori, a seconda del caso zelanti, indifferenti, disinformati, prudenti.

  4. C’è una quota di zelanti applicatori che in genere occupa i posti chiave. Segue una massa notevole di conformisti che permette l’esecuzione dei piani, resta una minoranza (non esigua) di contrari a cui non viene permesso di esprimersi e che resta al margine.

  5. Noi non siamo contro la valutazione, e’ vero, ma contro gli scopi di questa valutazione, ed in questo senso condividiamo appieno lo spirito del libro recensito. Non solo l’ANVUR si presta al gioco di valutare per punire, ma esplicitamente intende premiare l’eccellenza (parola abusata) a spese della non eccellenza. Invece lo scopo della valutazione deve essere l’opposto: riconoscere le situazioni di sofferenza per intervenire su di esse. Il paese ha bisogno di tutte le sue Universita’ ed ha bisogno che la loro qualita’ sia almeno accettabile: e’ fondamentale tirar su quelli che stanno giu’, non premiare quelli che gia’ stanno in cima alla classifica.

  6. Ottimo libro, quello di Valeria Pinto. Mostra come l’apporto dei filosofi possa aggiungere una preziosa dimensione alla riflessione sulla valutazione. E’ stata per me una interessante lettura e l’ho consigliata a vari colleghi.
    Nel trattare con garbo ed arguzia il tema, l’autrice è caduta in una piccola trappola. A pag. 178 lamenta polemicamente che anche l’OCSE trascura e marginalizza il singolo studioso, tipicamente nel settore delle scienze umane. Non è così.
    La sua citazione ad un libro collettaneo (Trivellato, Zuliani) è la seguente ”non svolge ricerca e sviluppo (…) il singolo studioso che si isoli per anni in una biblioteca a elaborare nuove interpretazioni di classici del pensiero”. La citazione completa è la seguente: “Quindi, non svolge r&s, nel senso codificato dal Manuale di Frascati, il singolo studioso che si isoli per anni in una biblioteca a elaborare nuove interpretazioni di classici del pensiero, per carenza di formalizzazione di tale attività di ricerca; come non svolge r&s, per carenza di formalizzazione e di generale applicabilità del risultato, il tecnico-inventore che escogiti una geniale soluzione per risolvere un occasionale problema produttivo”. E’ ben noto che il Manuale di Frascati dell’OCSE è uno strumento per la raccolta di dati statistici e che quindi fornisce metodologie di misurazione che devono fare i conti con la possibilità di raccogliere dati affidabili e con i vincoli dell’operatività e dell’economicità. Ve lo immaginate il povero statistico che deve andare a scovare lo studioso nascosto da qualche parte? La soluzione adottata ormai da oltre 50 anni è quella dell’istituzionalizzazione dell’attività di ricerca, soluzione che risponde a criteri di efficienza e di efficacia del lavoro statistico, ma che non ha alcun intento di penalizzare il singolo studioso o inventore. Tant’è che nel citato libro vi è un ulteriore paragrafo in cui si legge che “Nonostante il Manuale di Frascati, da diversi anni, comprenda esplicitamente nell’ambito della r&s le attività di ricerca in campo umanistico e delle scienze sociali e il Manuale di Oslo … estenda le raccomandazioni per la rilevazione statistica dell’innovazione anche alle attività innovative non tecnologiche (marketing, attività organizzative ecc.), è indubbio che, trattando di r&s e innovazione, si è ancora influenzati dall’interpretazione che le mette in relazione stretta con le scienze fisiche e naturali e con le applicazioni tecniche dei loro risultati.” Quindi siamo di fronte ad un ben noto limite intrinseco dello strumento statistico, non di un attacco agli umanisti.

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