La riforma dell’Abilitazione Scientifica Nazionale prefigura un’università senza didattica? Il Ministro Giannini si rallegra per la maggiore responsabilizzazione degli atenei: «la qualità delle loro assunzioni – si legge nel comunicato MIUR – peserà sulla quota premiale del Fondo di finanziamento che ricevono ogni anno». E come sarà misurata questa qualità? Prioritariamente in base alla «qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei». Chi pensava che i professori venissero selezionati e assunti per insegnare, dunque, era completamente fuori strada. Non solo la qualità del loro lavoro con gli studenti è del tutto irrilevante prima. Resta tale anche dopo. Un ulteriore schiaffo in faccia a coloro che si ostinano a credere che la trasmissione del sapere sia per la mission delle università importante quanto la sua produzione.
Il Ministro Stefania Giannini, in un comunicato che si può leggere sul sito del Miur, esprime tutto il suo compiacimento per il lavoro congiunto fra il Governo e il Parlamento che ha portato all’approvazione in Commissione Affari Costituzionali alla Camera dei deputati dell’emendamento con il quale si riforma l’Abilitazione Scientifica Nazionale dei docenti universitari. Ci sono molte ragioni per condividere questa soddisfazione. La proposta che porta come prima firma quella dell’onorevole Manuela Ghizzoni interviene su molti punti critici della normativa che ha prodotto molta confusione e molti ricorsi e lo fa con una misura di saggezza inusuale nel nostro legislatore. Non condivido tutte le scelte che sono state fatte, ma si tratta comunque di un deciso passo avanti.
Rimane purtroppo un problema di fondo, che in tanti modi e sempre invano è stato portato all’attenzione del decisore politico. A partire dalla Legge Gelmini, in un crescendo di decreti, circolari e provvedimenti di allocazione delle risorse a livello nazionale e locale, si è consolidato un modello nel quale tutti gli incentivi alle strutture (o sarebbe meglio dire le possibilità di ottenere semplicemente un trattamento meno punitivo rispetto al taglio comunque certo dei finanziamenti) sono stati concentrati sui “prodotti” della ricerca. E allo stesso criterio ci si è ispirati per definire le valutazioni dalle quali far dipendere la carriera accademica dei singoli. La didattica è diventata, nella migliore delle ipotesi, oggetto di un lip service di circostanza. Alcuni fra gli opinionisti più influenti, frequentatori abituali dei salotti televisivi più ambiti e delle colonne dei giornali più letti (evidentemente – va da sé – per la migliore qualità delle loro idee e dei loro argomenti), teorizzano apertamente la necessità di non far perdere tempo alle intelligenze più brillanti che ancora sopravvivono nei nostri atenei costringendole alla fatica di ore di lezione o, peggio ancora, esami, ricevimento, assistenza a tesi, con il corollario di tutte le incombenze che possono (devono) essere lasciate senz’altro ai meno capaci. La formula raffinata di questa convinzione è l’auspicata differenziazione fra research e teaching universities, che ha certamente i suoi pregi (oltre ad alcuni difetti), ma viene spesso confusa con l’idea che nelle prime i professori non insegnino e dunque – semplicemente – cessino di essere tali.
I risultati di questa lungimirante politica sono sotto gli occhi di tutti: fra quanti devono ancora “fare carriera” cresce continuamente – e non poteva essere altrimenti – il numero di coloro che non vogliono più fare lezione e mettersi a disposizione degli studenti, perché nessuno considererà la qualità del loro lavoro e del loro impegno. Si tratta a tutti gli effetti di tempo perso, con l’aggravante della beffa incombente di trovarsi scavalcati, nel momento in cui miracolosamente dovesse concretizzarsi la possibilità di un posto, da qualcuno che, “lavorando” magari per la stessa università, raramente si è visto in un’aula e nei corridoi del dipartimento… La situazione, ovviamente, non migliora per chi la carriera l’ha già fatta e sa che per aiutare la comunità della quale fa parte deve pensare esclusivamente a scrivere articoli e inseguire l’impact factor. Anche nel suo caso, quella di dedicarsi agli studenti appare una scelta del tutto irrazionale. E si potrebbe aggiungere che in questo sistema perfino il doveroso impegno a stanare e punire gli assenteisti rischia di diventare una forma di autolesionismo per i responsabili degli atenei: se contribuiscono adeguatamente alla VQR, è meglio continuare a far finta di nulla, per evitare che il Ministero li punisca. Gli atenei e i loro Rettori, ovviamente, non gli assenteisti…
Il Governo e il Parlamento hanno fatto un passo ulteriore in questa direzione. Il Ministro Giannini si rallegra anche per la maggiore responsabilizzazione degli atenei che sarà resa possibile grazie all’emendamento Ghizzoni: «la qualità delle loro assunzioni – si legge nel comunicato – peserà sulla quota premiale del Fondo di finanziamento che ricevono ogni anno». E come sarà misurata questa qualità? Ce lo spiega il nuovo comma 3-quinquies dell’articolo che è stato modificato: «la qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei all’esito dell’abilitazione scientifica nazionale è considerata prioritaria nell’ambito della valutazione delle politiche di reclutamento». Chi pensava che i professori venissero selezionati e assunti per insegnare, dunque, era completamente fuori strada. Non solo la qualità del loro lavoro con gli studenti è del tutto irrilevante prima. Resta tale anche dopo, per quanto si debba riconoscere all’onorevole Ghizzoni e ai suoi colleghi di avere almeno lasciato aperto un varco di ambiguità nella normativa. Il fatto che la produzione scientifica debba essere considerata prioritaria sembra consentire, naturalmente in via subordinata, la valutazione di altri elementi. Sarebbe però interessante capire se ciò va inteso semplicemente nel senso dell’articolo 9 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 49, opportunamente richiamato nell’emendamento insieme alla Legge 240. In quell’articolo la didattica non è neppure citata.
L’emendamento Ghizzoni è un ulteriore schiaffo in faccia a coloro che si ostinano a credere che la trasmissione del sapere sia per la mission delle università importante quanto la sua produzione. Ed è tanto più grave perché il comma 3-quinquies non era in nessun modo necessario nel contesto dell’intervento proposto. Si tratta dell’ennesima stroncatura del tentativo di difendere l’idea che un’università senza didattica o nella quale la didattica è considerata un’attività fastidiosa dalla quale “proteggere” i più meritevoli non serve al paese. Qualche settimana fa, la Commissione Cultura della Camera ha ascoltato il Presidente e il Direttore dell’ANVUR, che hanno spiegato come sia da attribuire all’Europa la responsabilità del delirio normativo che rende tanto faticosa l’organizzazione della didattica nelle nostre università. Non è vero. È vero invece che l’Europa ci chiede di mettere la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento in cima all’agenda del cambiamento. Così si esprime, senza possibilità di equivoci, il Rapporto presentato alla Commissione nel giugno del 2013 da un gruppo di esperti, promosso dalla Commissaria per l’educazione e la cultura Androulla Vassiliou: questa qualità è «assolutamente cruciale» per ottenere i laureati «capaci di pensiero critico, creativi e flessibili che daranno forma al nostro futuro». Il nostro Governo e il nostro Parlamento, evidentemente, non la pensano così.
Ogni riforma dovendo cambiare pesantemente le regole del gioco lascia dei privilegi (diritti acquisiti), toglie dei privilegi (chi pensava di essere arrivato ad essere un privilegiato), rende incerti questi privilegi e soprattutto li può potenzialmente negare ad alcuni (situazione meno augurabile di tutti!).
La legge 240 come la Fornero o la prossima legge della pa fino a quell fiscale (se mai arriverà) seguono questo solco.
Il preambolo è necessario per dire che la giustizia non esiste quando si fanno riforme di questo tipo, farle bene è una virtù ma le ingiustizie ci saranno sempre!
Su questo punto: la soluzione non è come misurare la ricerca o la didattica ma semplicemente prevedere due percorsi di carriera ben distinte, con pari dignità e adeguatamente remunerate. All’estero esistono i percorsi lecture e researcher, ma soprattutto esiste una valorizzazione del profilo del docente/ricercatore inquadrato rispetto ad aspirazioni/competenze/capacità.
Se ci fosse questo il clima dei dipartimento sarebbe più sereno e ognuno avrebbe il proprio percorso (o quasi!) mitigando la percezione di ingiustizia a seguito di una riforma.
La didattica è scomparsa dall’orizzonte. L’abilitazione è solo scientifica e nei concorsi locali non c’è più nemmeno la prova della lezione (volendo privilegiare l’oggettività dei titoli la lezione è stata tolta con la scusa che alcune commissioni approfittavano del margine di discrezionalità per favorire i candidati predestinati).
Non ci vuole molto a indovinare che il nuovo sistema di valutazione ex-post diventa la chiave di volta anche delle conferme in ruolo. Per cui, appena assunto, devi dare il 100% per evitare che il tuo ateneo sia penalizzato. Se negli obiettivi non c’è la didattica, è inevitabile che passi in secondo piano.
E se poi hai in mente il prossimo salto di carriera c’è un’altra ASN da superare, sempre solo di natura scientifica. Da notare che se i concorsi locali diventano una formalità (commissioni scelte dai dipartimenti e tutti pronti a chiudere un occhio che tanto c’è la valutazione ex-post) quella scientifica è l’unica vera tagliola.
A questa stregua era meglio il sistema entro cui sono stato reclutato io. Ero ricercatore CNR e nel concorso da associato mi hanno fatto fare una lezione. Chi partecipava al concorso da associato nei mesi prima si ristudiava le materie di base per essere sicuro di non rimediare una figuraccia nella prova didattica.
Da associato mi sono preso carico di una supplenza di Controlli Automatici per i Diplomi Universitari (che non era la mia materia preferita) per senso del dovere, ma anche pensando che il mio CV didattico sarebbe risultato meno monotematico e che in un concorso di prima fascia non avrebbe guastato (pur essendo molto più importante il profilo di ricerca a livello internazionale).
C’era poi una questione reputazionale: al di là dei numeri, sia in facoltà che nel settore disciplinare era bene dimostrare un più che adeguato “committment” nei confronti degli studenti. La valutazione (a numero chiuso) era fatta da uomini che soppesavano un po’ tutto e non avevi l’impressione di essere totalmente fesso quando spendevi delle ore per la didattica.
Adesso, in nome di cosa un collega dovrebbe scrivere un articolo in meno per coprire una supplenza o per seguire delle attività di laboratorio didattico?
Se metti tutta l’enfasi sulla misurablità, ciò che non è misurabile sparisce dall’orizzonte. Nel clima di sfiducia collettiva stiamo perdendo di vista gli studenti.
Chi fa il nostro lavoro deve condividere un’etica in cui i doveri didattici non sono secondari. Ma come può farlo se gli ripetiamo all’infinito che verrà giudicato solo sulla ricerca? L’enfasi agonistica su traguardi quantitativi può creare mostri.
Anche all’estero sta esplodendo questo problema. Negli USA la fuga dei luminari dalla didattica è associata alla adjuntification (l’esplodere dello sfruttamento dei professori a contratto): http://www.salon.com/2012/04/04/the_disposable_professor_crisis/
Io non so che traccia rimarrà dei miei contributi scientifici, nonostante centinaia o migliaia di citazioni. Sospetto che il mio contributo maggiore alla società sarà dovuto alle migliaia di studenti che hanno seguito i miei corsi. Avere un background da ricercatore mi aiuta ad essere un docente migliore, ma se insegnassi da cane e fossi poco disponibile con gli studenti, credo che sarebbe più utile qualcuno meno geniale, ma più attento ai suoi doveri.
Un punto di vista ortogonale all’ andazzo attuale ma che trovo estremamente importante, lucido e stimolante, e’ quello espresso da Walter Noll, matematico, professore emerito della Carnegie Mellon University, nel suo breve saggio del 1997 (The Role of the Professor, http://www.math.cmu.edu/~wn0g/RP.pdf ) in cui rivendica un punto di vista altrnativo rispetto alla dicotomia ricerca/insegnamento (research/teaching) tanto di moda oggi. Vogliamo chiamarlo “terza missione” ? Non credo che il problema siano i nomi, ma la chiarezza su quella che dovrebbe essere probabilmente la missione centrale dell’ Universita’ (per non farne un duplicato degli Enti di Ricerca o per non ridurla ad un esamificio).
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Ma Noll e’ uomo di un’ altra generazione. Forse percio’ da “rottamare”? Di sicuro, con idee cosi’ avrebbe la vita difficile nell’ Italia dei Tempi dell’ anvur.
Condivido appieno quanto scritto da Giuseppe: “Avere un background da ricercatore mi aiuta ad essere un docente migliore, ma se insegnassi da cane e fossi poco disponibile con gli studenti, credo che sarebbe più utile qualcuno meno geniale, ma più attento ai suoi doveri.”
Tutta la passione che ho, tutta la mia vita agli studenti.
Tuttavia, bisogna ammettere che è frustrante vedere colleghi che ti considerano un coglione se ti spendi per degli studenti lamentosi. Ed è ancora più fustrante sapere che gli studenti ti “giudicano” male perchè sanno dagli studenti degli anni precedenti che sei un bastardo che boccia e che quando boccia si arrabbia.
Ma se uno si arrabbia perchè costretto a bocciarti non è forse uno che ti vuole bene?
Gli studenti imparano ad aprrezzare i professori quando non hanno più a che fare con chi gli ha voluto veramente bene. Quando finito gli studi e si entra nel mondo del lavoro. Durante gli anni di studio, gli studenti tendono ad amare chi non li fa sgobbare.
Bello il concetto di “learning university”, riportato da qualcuno (Lilla?) più su. Lo adotterò. E quello che dovrebbe essere l’università. un posto dove si imparano tante cose e dove imparano anche i professori (quelli meno arroganti).
Buona vita a tutti,
Paolo l’amico di lilli
Due anni fa, insieme a tre colleghi, presentai il testo di una vera e propria proposta di legge, che tentava di dare una forma organica a idee che circolavano a vario titolo fra gli addetti ai lavori e nell’opinione pubblica: Per la valorizzazione della responsabilità educativa e sociale, della capacità e del merito nell’università e nella ricerca. Il primo articolo era dedicato alle università come «come comunità di insegnamento e di ricerca» ed era così formulato:
«La missione delle università è quella di promuovere allo stesso tempo la qualità della didattica e della ricerca, garantendo a tutti i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, l’accesso ai più alti gradi del sapere. L’efficienza e l’efficacia dell’attività didattica come strumento insostituibile di trasmissione del sapere e la qualità e la continuità della ricerca scientifica sono, considerati nella loro unità inscindibile, i criteri per la valutazione dei docenti in esse impegnati. Il confronto tra le università e l’internazionalizzazione degli atenei, in linea con le indicazioni della strategia Europa 2020, di cui alla comunicazione della Commissione europea COM (2010) 2020 del 3 marzo 2010, sono finalizzati ad elevare il livello e la qualità delle competenze di tutti gli studenti e a prepararli in modo adeguato alle richieste di un mercato del lavoro sempre più globale».
A chi rifiuta l’unità inscindibile di didattica e ricerca non ho purtroppo molto da dire. Con tutti gli altri vorrei provare semplicemente a condividere l’idea che ciò che oggi serve alle nostre università – oltre a maggiori risorse – è appunto la capacità di fare bene tutte e due le cose. Verificando che i ricercatori di valore non si ritengano per questo esonerati dal dedicare una parte del loro tempo agli studenti e che il numero delle ore di lezione non venga utilizzato per compensare una prolungata assenza di risultati nell’attività di ricerca. All’università italiana fanno certamente male i professori che negli ultimi dieci o quindici anni non hanno pubblicato nulla. Ma non servono neppure campioni dell’impact factor che non si fanno mai vedere in aula perché non hanno tempo da perdere con i giovani. Il loro stipendio è certamente meritato, così come tutti i premi di produttività che si possono immaginare. Ma il loro posto è in un centro di ricerche e non all’università, che potrà sempre invitarli per qualche conferenza o un breve ciclo di lezioni. Artemisio è probabilmente superiore ad Adelindo, per citare uno degli esempi proposti nei commenti, ma appunto perché le sue lezioni le fa. Non è detto, ovviamente, che debba fare le stesse lezioni del collega e rivolgersi agli stessi studenti.
Il messaggio che sta passando in questi anni è letale per la doppia missione dell’università (senza tener conto del fatto che giustamente cresce l’attenzione anche per la “terza missione”). Con il pretesto che la qualità della didattica è difficile da misurare (l’esercizio della VQR ha dimostrato peraltro quanto sia difficile misurare anche quella della ricerca), si è consentito che anche il semplice rispetto dei doveri fondamentali nei confronti degli studenti continuasse ad essere lasciato al “buon cuore” dei professori. Un cuore che dovrebbe diventare sempre più generoso, perché tutto quello che si fa per la didattica è semplicemente irrilevante. E in molti casi neppure controllato.
Ecco perché il comma 3-quinquies dell’emendamento Ghizzoni è un segnale grave. Con esso – anche se i proponenti replicheranno certamente che nulla è più lontano dalle loro intenzioni – si dà ulteriore forza di legge all’idea che è solo la VQR a fare il “buon” professore. Che insegni o meno, che tenga o no “personalmente le sue lezioni”, come mi è capitato di leggere in un questionario di valutazione dei corsi qualche tempo fa, è in fondo una questione trascurabile. Io ritengo che questo non sia accettabile, anche perché allarga gli spazi nei quali si nascondono e continuano a prosperare coloro che dimenticano sistematicamente la didattica (per usare un eufemismo) e hanno rinunciato da tempo alla ricerca. Nella proposta di legge che ho ricordato all’inizio chiedevamo che nelle procedure di selezione dei nuovi professori fosse obbligatoriamente prevista una lezione pubblica, aperta alla presenza dei docenti e degli studenti del Dipartimento interessato. E avevamo ipotizzato un minimo di 100 ore di didattica frontale per tutti i professori a tempo pieno. La reazione fu violentissima. A distanza di due anni non ho cambiato idea, fermo restando che questa è solo una parte del nostro impegno con e per gli studenti. Sono disposto a discutere del numero delle ore, che va ovviamente calibrato sul livello del corso, sugli impegni istituzionali e anche su quelli legati all’attività di ricerca. Non sono disposto ad accettare che tutto questo non conti e che ognuno sia libero di fare quello che vuole, senza controlli efficaci e sanzioni certe. Non sono disposto a tacere di fronte alla vergogna dello sfruttamento sistematico delle speranze di tanti colleghi e di tanti giovani, che coprono voragini di organico e sono caricati di oneri didattici mostruosi, mentre altri lavorano tranquillamente alla loro VQR. Il lavoro di Adelindo deve essere riconosciuto e pagato come si deve, perché è un lavoro non meno importante di quello di Artemisio. Non tutti sono d’accordo. Lo si dica chiaramente e sarà più facile confrontare i modelli di università che sono oggi in campo.
Artemisio & Adelindo. L’esempio che avevo riportato mette in luce la necessità che la valutazione dell’attività didattica sia fatta seriamente. Far dipendere tutto dalle valutazioni degli studenti non ha senso.
Nel mio dipartimento c’è l’obbligo delle 120 ore frontali, molti ne fanno di più. Gran parte degli esami sono basati su prove sia scritte che orali e gli studenti hanno un’interazione continua con i docenti. Una percentuale significativa degli studenti continua con l’attività di ricerca a cui, non di rado, sono avviati anche prima durante della tesi.
Nell’insieme l’attività didattica è senz’altro ottima e questo è riconosciuto dagli studenti.
Se però consideriamo il caso delle lezioni “di servizio” per altri corsi di studio, allora ci si accorge, come ovvio, che i giudizi degli studenti sono fortemente correlati con il loro livello di preparazione pregresso e con il loro interesse. Spesso le loro valutazioni sono ben lungi dall’essere obiettive.
Il punto quindi è capire in che modo l’attività didattica possa essere valutata, qualcuno ce lo spieghi. Il meccanismo attuale incoraggia, in certi casi, un considerevole abbassamento della qualità dei programmi svolti.
Non sarebbe invece corretto includere le abilità effettivamente acquisite dagli studenti e la loro successiva carriera?
” i giudizi degli studenti sono fortemente correlati con il loro livello di preparazione pregresso e con il loro interesse. Spesso le loro valutazioni sono ben lungi dall’essere obiettive.”
Sono d’accordo. Bisogna infatti confrontarsi con questo aspetto. Non decidere a priori che i questionari di valutazione sono da cestinare. Qui stiamo accettando le peggiori cabale pensate da un gruppo di analfabeti di valutazione della ricerca, dicendo che fa comunque bene al corpaccione dell’accademia italiana, dopo di che scappiamo come conigli davanti alle valutazioni degli studenti. Suvvia, ci sarà sempre modo di normalizzarle (ironizzo, ovviamente).
Credo che ci sia il rischio di confondere “valutare” con “valutare quantitativamente”. Se devo giudicare la didattica di un docente o aspirante tale, posso chiedergli di svolgere un seminario oppure una vera e propria lezione di prova (come si faceva nei vecchi concorsi). Posso esaminare gli esiti dei questionari degli studenti, se possibile tenendo conto dell’eventuale correlazione tra voto e giudizio (nel caso il primo influenzasse il secondo). Posso vedere se il docente ha scritto libri di testo o dispense e sfogliarli, come pure potrei dare un occhio alle slides, se usa le slides. Magari ha un sito dove tiene il materiale didattico e utilizza qualche piattaforma informatica per interagire con gli studenti. Forse organizza dei laboratori didattici oppure assegna degli elaborati e dei progetti. Posso anche esaminare il carico didattico (CFU erogati e simili), ma questa è una misura quantitativa che non mi dice la qualità. Insomma, ci sono molti aspetti che si potrebbero esaminare. Il difetto è che non sono facilmente standardizzabili come invece lo sono le citazioni e l’h-index.
Se la valutazione diventa sinonimo di valutazione quantitativa, leviamo dall’orizzonte una serie di aspetti solo perchè non sono riconducibili a numeri facilmente reperibili e immagazzinabili. Molti aspetti della didattica sono difficili da soppesare in una valutazione nazionale (ma qualcosa si potrebbe fare, volendolo), mentre ci sarebbe più spazio in una valutazione locale. Se fosse possibile compilare una short list di candidati, qualche indagine sulle loro capacità ed impegno didattici si riesce a fare. Ma se l’idea è quella di alleggerire il concorso locale per demandare il giudizio alla valutazione ex-post, centralizzata e standardizzata, diventa tutto più difficile.
Confesso che tra didattica e ricerca la mia tendenza è di pesare di più la seconda, ma l’estremizzazione che si profila mi appare eccessiva. Se fossi un giovane, recepirei chiaro il messaggio che gli studenti sono (anzi, devono essere) l’ultima delle preoccupazioni. A poco varrebbero le raccomandazioni e l’esempio dei colleghi seniores: dedicandoti agli studenti prendi un “bravo sulla spalla” ma se non superi le mediane rischi un calcio nel posteriore.
A proposito del dilemma tra quantità e qualità, in una bancarella di libri usati ho trovato un libro, usato più di cento anni fa dai fanciulli della quarta elementare del Regno d’Italia. Il titolo è L’aritmetica pei fanciulli. La prima edizione di questo libro fu pubblicata nel 1891. Quella tra le mie mani è una edizione successiva, interamente rifatta secondo i programmi governativi del 29 gennaio 1905. Autore, Salvatore Raccuglia.
Qui trovate una riproduzione della copertina.
Mi ha colpito quello che l’autore scrive, a beneficio dei fanciulli delle scuole elementari del Regno d’Italia, a pagina 4 del suo libro.
Come mai ciò che era chiaro ai fanciulli delle scuole elementari del Regno d’Italia cento anni fa è diventato incomprensibile al senso comune odierno?
All’inizio della mia carriera accademica ebbi la possibilita’ di lavorare due anni a Londra al UCL nel lab di microscopia elettronica del Dip. Di Anatomia. Il laboratorio era diretto da Alan Boyde, considerato allora uno dei piu’ grandi, forse, il più brillante microscopista elettronico a scansione dei tessuti mineralizzati dei primati, ed era anche il classico stereotipo dello scienziato: poco ordinato e molto casual ma con una eccezione: quando doveva far lezione agli studenti. Quei giorni Alan, che a lezione non si fece nel periodo in cui lavorai con lui mai sostituire, si portava la cravatta da casa e se la metteva prima di entrare in aula. Apriva il suo armadietto e si metteva un camice pulito: il rispetto ed il lavoro per i suoi studenti era al centro dei suoi interessi, esattamente come la ricerca che parimenti amava.
Ho letto il documento della Commissione indicato nel testo. Si conclude con 16 raccomandazioni che possono fondamentalmente essere riassunte in una: considerate con lo stesso valore la ricerca e la didattica, date ad ambedue queste imprescindibili missioni dell’università un medesimo valore premiale. Ma dice: non e’ possibile valutare la didattica e non e’ accettabile considerare l’opinione degli studenti. Personalmente ritengo veramente pregiudizievole ritenere inutile il parere degli studenti, anche un poco fuori dal mondo se mi permettete.
Nei vostri Atenei i professori fanno puntualmente in prima persona le lezioni loro affidate? Ricevono regolarmente gli studenti? Partecipano ai lavori dei Collegi Didattici? Seguono in prima persona le tesi? Anche su questi parametri i nostri studenti danno i loro giudizi.
Per curiosita’ e per quel che valgono i ranking, ho avuto modo di esaminare partendo dai loro siti web, la struttura organizzativa dei primi dieci Atenei secondo la classifica di Shangai. Tutti, dico tutti, hanno una struttura interna con le caratteristiche di un Center for Teaching and Learning. Una struttura per la promozione della formazione continua dei loro docenti su varie tematiche di interesse accademico, prima fra tutte la pedagogia. E noi siamo qui ad accettare che la qualità della didattica non vada considerata ed a non irritarci per questo? Ma chi la pensi in questo modo perche’ non ha cercato uno sbocco professionale ed una carriera in un ente di ricerca?
@De Nicolao: Esattamente. Nota anche che c’è una dipendenza dal tipo di corso di studi che si considera, nonché dal tipo di ricerca del docente. Riterrei preoccupante che un corso di scienza dell’alimentazione, che non dovrebbe richiedere particolari prerequisiti, non trovi il gradimento degli studenti di quel corso di studi. Diverso il discorso se gli ingegneri si lamentano del corso di analisi matematica del primo anno. Farei un’indagine, andrei a vedere la distribuzione dei voti ecc.
Avrei anche qualche dubbio sul fatto che “Il lavoro di Adelindo deve essere riconosciuto e pagato come si deve, perché è un lavoro non meno importante di quello di Artemisio”. Bisogna prestare attenzione, una frase del genere va inserita in un contesto adeguato. Non mi pare che dalle parti di Harvard, Princeton e Cambridge ci sia qualche Adelindo. Anche in Italia in certi campi, come quello di Adelindo (Teoria dei Numeri), Adelindo non avrebbe neppure una borsa di studio e credo sia giusto così. L’attività di ricerca deve essere prerequisito imprescindibile, questo non significa che la didattica non sia rilevante, tutt’altro.
Completamente d’accordo con Stefano Semplici. A ciò che hanno detto i molti eccellenti interventi aggiungo due sottolineature.
1. Università come luogo inscindibilmente di ricerca e insegnamento? Discutiamone, portiamo argomenti, confrontiamo e distinguiamo i diversi casi. Se qualche anno fa un libro serio (Kronman 2007) ha potuto sostenere che la decadenza ideale delle istituzioni universitarie è cominciata quando si è cominciato ad assegnare loro la funzione della ricerca oltre a quella dell’insegnamento, vuol dire dire il tema non è ovvio, che l’articolazione tra insegnamento e ricerca (che a mio parere è preziosissima e non va dimenticata neppure alla prima lezione di laurea triennale) deve essere pensata con cura e rigore, partendo dalle esperienze ma senza fermarsi all’aneddotica. Non è neppure ovvio che tutti nell’Università debbano fare contemporanemante e sempre le due cose. Ma parlare di tutto questo significa anche mettere sul tappeto chiaramente la questione della funzione dell’Università nella società. La mia impressione è che quando si parla di «difficoltà di valutazione della didattica», in realtà si vuole dire che non esiste sufficiente chiarezza sugli scopi di essa e dell’Università in generale. Quando non si hanno le idee chiare su uno scopo, ovviamente non si sa neppure bene come valutare.
2. Quando si parla di valutazione della didattica si stiano fondendo insieme due cose, connesse ma distinte. La prima è la necessità che esista chiarezza (non necessariamente disgiunta da flessibilità) sugli obblighi di insegnamento e un reale controllo sul loro rispetto. La seconda è l’opportunità che chi si impegna per fare buone lezioni e per seguire attentamente gli studenti sia premiato rispetto a chi fa queste cose in maniera sciatta e svogliata (o magari ha proprio scarse capacità di farlo). Il problema oggi è che non esiste né la prima cosa né la seconda. Forse se ci fosse la prima cosa, la seconda apparirebbe importante sì, però meno urgente. Ma nella condizione attuale proposte frettolose come il 3-quinquies appaiono come un insulto agli studenti e a coloro che dedicano loro tempo e forze.
Condivido appieno l’analisi di tonymig. Secondo me i rankings hanno peso perchè aiutano a consolidare la reputazione globale di un Ateneo, ed in nessuno di loro – né quello di Shangai, né quello del THES, né altri – ci sono Università italiane fra le prime cento. E’ verissimo che in tutti i primi Atenei del mondo c’è una struttura interna di tale tipo – un Center for Teaching and Learning – e dico anche che le Università britanniche rilasciano una qualifica professionalizzante che attesta sia la capacità personale di fare ricerca che la capacità pedagodica (questa qualifica è accreditata dalla Higher Education Academy e gode di riconoscimento in molti altri Paesi). Diversamente dall’ ASN italica, questa qualifica è professionalizzante ed è valida a vita (come un titolo da medico, o da avvocato). Come ho scritto tante volte lì la ricerca conta molto, tramite il REF, ma conta molto anche la didattica: addirittura, in quasi tutte le Università, vi sono “teaching awards” dati agli accademici grazie ai riconoscimenti che essi ottengono dai loro studenti, ed anche questi “teaching awards” contano, eccome, nel guadagnarsi una promozione!! Ma quello è un sistema che remunera le Università per l’impatto positivo che hanno sul piano sociale ed economico, non che le considera, come chi scrive le leggi in Italia, centri di spartizione autoreferenziale del potere fra capiscuola nazionali. Guardando ciò che accade in Italia con occhiali anglosassoni, a me sembra che tutto quanto la Ghizzoni, la Giannini, Mancini, il CUN, l’ ANVUR e compagnia bella abbiano “partirito” con il sistema dell’ ASN (con o senza sportello) rispecchi una loro concezione per cui l’ Università italiana debba essere una specie di corporazione finalizzata a conservare il potere delle cupole nazionali dei vari SSD. Ovviamente penso che a questi personaggi importi poco o nulla delle classifiche mondiali degli Atenei. Non é che io voglia sponsorizzare un sistema estero solo perché vi lavoro, ma se vi noto un numero crescente di colleghi come di studenti in fuga dall’ Italia ed in arrivo qui, qualcosa vorrà pur dire..
“i rankings hanno peso perchè aiutano a consolidare la reputazione globale di un Ateneo, ed in nessuno di loro – né quello di Shangai, né quello del THES, né altri – ci sono Università italiane fra le prime cento”
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Usare le classifiche internazionali per dare giudizi sulle università italiane è una pratica diffusa, ma concettualmente molto debole.
Da un lato le fondamenta scientifiche di queste classifiche sono peggio che precarie, si veda per esempio:
https://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/international-university-rankings-science-or-quackery
Dall’altro, sono classifiche costruite per “premiare” istituzioni dai costi chiaramente non sostenibili (quanto meno nel panorama italiano): secondo un esperta di Higher Education come E. Hazelkorn
“Estimated yearly budget of Euro 1,5 billion to be ranked in the world’s top 100”.
Sarà bene ricordare che l’ammontare dell’intero FFO italiano è inferiore a 7 billion.

Avere un ateneo italiano nei primi 100 sarebbe solo un miracolo e, probabilmente, non sarebbe nemmeno auspicabile perchè vorrebbe dire infliggere un colpo mortale al resto del sistema senza che vi sia un chiaro beneficio a livello nazionale (sempre E. Hazelkorn: “policy needs to focus on the quality of the system-as-a-whole”).
Queste ed altre considerazioni sono già state oggetto di articoli su Roars:
https://www.roars.it/the-good-the-bad-and-the-ugly-rankings-bibliometry-and-higher-education-in-the-21st-century/
https://www.roars.it/giuseppe-de-nicolao-le-politiche-della-ricerca-al-tempo-dei-rankings/
«La pressione a pubblicare molto in breve tempo rende gli scritti accademici più fiacchi, meno coraggiosi e più tecnici, dal momento che i membri più giovani del corpo accademico preferiscono scrivere quel che sanno essere accettabile dalle riviste e dalla stampa accademiche. Nelle scienze e in alcune delle scienze sociali, la dipendenza della ricerca dai finanziamenti governativi distorce la direzione della ricerca della verità». E gli studenti sono costretti a prendere atto che «troppi membri del corpo accademico non si interessano a loro, se non come potenziali accademici, e che il curriculum è disegnato intorno agli interessi del corpo accademico più che a quelli degli studenti o delle loro famiglie». Queste parole non le hanno scritte Giovanni Salmeri o Stefano Semplici in un articolo di “Ora basta!”. Le ha scritte H.R. Lewis, Preside dello Harvard College dal 1995 al 2003, nel suo volume “Excellence without a Soul. Does Liberal Education have a future?”. L’università italiana ha scelto da tempo questa strada e non è vero che tutto ciò è accaduto per caso. Il comma 3-quinquies è l’ultima perla di una serie coerente e organica di provvedimenti, voluti dai governi e docilmente votati dal parlamento. Molti professori approvano. Pochi resistono. Sono contento che ci siano università come quella nella quale lavora Marco2013. Partiamo allora da qui. Il Ministro dica quali sono i provvedimenti attraverso i quali sarà garantito in modo inflessibile, in tutte le università italiane, il rispetto da parte di tutti i docenti di un orario di servizio agli studenti che comprenda didattica frontale, esami e ricevimento. Dica quali sono le sanzioni che colpiranno implacabilmente, in tutte le università italiane, gli assenteisti. Dica che tutti i Rettori distratti, che non vigileranno scrupolosamente sul rispetto delle norme chiare e precise che saranno stabilite, verranno immediatamente rimossi. Dica infine in che modo intende stroncare una volta per tutte, in tutte le università italiane, la pratica dello sfruttamento a titolo gratuito delle speranze dei più deboli E poi potremo parlare più serenamente delle difficoltà nella valutazione della qualità della didattica…
Penso che la valutazione ex-post, se si pone come obiettivo quello di punire/premiare comportamenti virtuosi del reclutamento su base locale, debba tener conto di come effettivamente avvenga questo processo, considerandolo appunto nella sua globalità.
L’art 24 della legge 240, sulla cosiddetta “chiamata diretta” parla di:
“La valutazione si svolge in conformità agli standard qualitativi riconosciuti a livello internazionale individuati con apposito regolamento di ateneo nell’ambito dei criteri fissati con decreto del Ministro”
quindi gli atenei devono emanare un regolamento basandosi sul decreto pensato dal MIUR per la chiamata in ruolo di rtd in possesso di abilitazione, e cioè il DM 4 agosto 2011 n. 344.
Nel detto DM, l’art3 è dedicato in modo specifico alla didattica:
Art. 3
(Valutazione dell’attività didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti)
1. Ai fini della valutazione dell’attività didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università, con i regolamenti di cui all’articolo 1, disciplinano la valutazione avendo riguardo ai seguenti aspetti:
a) numero dei moduli/corsi tenuti e continuità della tenuta degli stessi;
b) esiti della valutazione da parte degli studenti, con gli strumenti predisposti dall’ateneo, dei moduli/corsi tenuti;
c) partecipazione alle commissioni istituite per gli esami di profitto;
d) quantità e qualità dell’attività di tipo seminariale, di quella mirata alle esercitazioni e al tutoraggio degli studenti, ivi inclusa quella relativa alla predisposizione delle tesi di laurea, di laurea magistrale e delle tesi di dottorato.
Per i criteri sull’attività scientifica e per la congruità del profilo del candidato con le necessità dell’ateneo, rimando alla lettura dell’art 4 del DM, per non allungare eccessivamente il commento.
Insomma, il reclutamento locale tiene (deve tenere) conto della valutazione della didattica, mentre questa sparisce completamente nella valutazione a livello nazionale. Mostrando, comunque, che volendo la valutazione della didattica si può fare e anzi viene già fatta.
Nel mio ateneo, poi, si assegano punteggi a valle della valutazione didattica, scientifica e delle attività di ateneo, attribuendo mediamente e proporzionalmente dei pesi del 50%, del 40% e del 10% per chiamate di interni, e del 60% alla ricerca per chiamate di esterni.
Mi rendo conto che quei criteri non posso essere applicati direttamente per valutazione di didattica di atenei, ma questo in sé non significa che il reclutamento vada valutato soltanto per la bontà dell’attività scientifica, col rischio di incentivare una competizione solo sulla produttività e l’H-index (o i suoi cugini contemporanei, zii normalizzati ecc…) a scapito della didattica.
Anche nella letterina appare chiaro che non si valuta casomai la didattica, ma si guardano i risultati, anzi i Risultati. Ricordo che nella ripartizione della quota premiale 2013, i Risultati erano qunatificati in base a:
“Rapporto tra CFU effettivamente acquisiti nel 2012 e CFU previsti per gli studenti iscritti nell’a.a. 2011/12 per gruppi di corso. Per il calcolo dell’indicatore si rapporta il valore specifico con quello mediano del gruppo di riferimento.” Capite tutti cosa vuol dire, no?
Fra l’altro, vorrei anch’io prendere la matita col topolino in cima e scrivere due righe (almeno) su questo alla ministra, del tipo: “Cara Ministra, grazie di preoccuparti di darci i voti sulla ricerca ma potresti, per favore, darci anche i soldi per farla?”.
Mi torna in mente la lettera di Benigni e Troisi in “non ci resta che piangere”: Ministra, e che é? Oh?!
http://youtu.be/wXh7-hDLdkI
Credo che questo articolo si basi su una assunzione implicita non completamente corretta: “non valutare la didattica ai fini dell’avanzamento di carriera dei docenti=non valutare la didattica”.
Io trovo giusto dare un peso molto limitato, potenzialmente anche nullo, al proprio record di ricerca nel momento in cui si deve dare un giudizio per ASN (anche per non avvantaggiare indebitamente chi è già dentro il sistema nei confronti di chi è fuori). Penso che la valutazione della didattica si faccia meglio a livello di dato aggregato e non singolo, perchè credo che al Ministero non debba interessare se sia più bravo Adelindo di Artemisio con gli studenti.
Dovrebbero essere valutate bene quelle Università che sanno “spremere” il meglio da Adelindo e Artemisio: Adelindo, meno carico di impegni di ricerca, chiaro e disponibile a contatto con gli studenti che faticano di più, Artemisio, difficile ma stimolante, a contatto con quelli più dotati.
Io credo che non debbano essere le proprie qualità come docente a fare la carriera, ma che sia compito dei Dipartimenti mettere tutti i loro docenti in grado e nel dovere di dare alla docenza secondo “capacità e possibilità”. Purtroppo, nella mia carriera, ho visto Adelindi che tenevano solo un corso di dottorato (perchè amici del giaguaro) e Artemisi che falcidiavano generazioni di studenti del primo anno, facendosi venire un esaurimento perchè perdevano un congresso importante per correggere lo scritto di Analisi I.
Carriera individuale=Ricerca
Valutazione di dipartimento=Didattica e Ricerca
A livello aggregato il MIUR misura aspetti della didattica che hanno a che fare con la velocità degli studenti ad acquisire CFU, non certo con la qualità della didattica. Per non dire del fatto che nella distribuzione del FFO la didattica pesa ormai meno della VQR. Se penalizzi gli atenei in base alla ricerca dei reclutati e nel frattempo aumenti il peso della ricerca nel FFO premiale, non c’è storia: la priorità che singoli danno all’impegno didattico è destinata a calare. Mi sembra che l’articolo prenda atto lucidamente dei fatti e non di auspici, magari bellissimi, ma lontani dalla realtà.
@DeNicolao A livello aggregato il MIUR non dice di voler pesare solo la velocità. Che poi faccia (forse) questo va messo in carico alle (giuste) critiche che portate qui a processi come AVA (ed esattamente per i motivi che dicevi tu sopra: equiparare valutazione con misura numerica).
Io, devo dirti la verità, da inner sento una bella pressione anche a far bene la didattica, proprio perchè sono in atto processi di valutazione (e ancora non sappiamo per quanto peseranno sul prossimo FFO). Detto ciò io vedo soprattutto il problema del cosa vuol dire “fare bene”; finchè ci daranno un feticcio numerico lavoreremo solo per ottimizzare il numero. Anche perchè per un Dipartimento, e anche per una Università, migliorare i numeri della propria didattica è più facile che migliorare quelli della propria ricerca, almeno così a me sembra.
Comunque, certo, ho contrapposto all’articolo un modello ideale – ma resta un passo non del tutto giustificato equiparare l’assenza di valutazione della didattica nella progressione in carriera alla assenza della valutazione della didattica tout-court (poi, per carità, da cattivo matematico mi cibo di controesempi..).
“A livello aggregato il MIUR non dice di voler pesare solo la velocità. Che poi faccia (forse) questo …”
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A me sembra che lo dica e lo faccia. Se si consulta il “Decreto Ministeriale 20 dicembre 2013, n. 1051 (Decreto criteri di ripartizione della quota premiale e dell’intervento perequativo del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle Università statali per l’anno 2013), nell’Allegato 1 sono riportati Criteri e indicatori per la ripartizione. Per quanto riguarda la didattica, la ripartizione avviene come segue:
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L’importo di 819 ML€, di cui all’articolo 1, viene ripartito per:
• il 34% (278,46 ML€) tra le Università statali di cui all’articolo 1, lettera a) del DM 700/2013 sulla base degli
indicatori A1 – A2;
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Indicatore A1: Studenti iscritti regolari nell’a.a. 2011/12 che abbiano conseguito almeno 12 crediti nel 2012 …
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Indicatore A2: Rapporto tra CFU effettivamente acquisiti nel 2012 e CFU previsti per gli studenti iscritti nell’a.a. 2011/12, distinti per gruppi di corso. Per il calcolo dell’indicatore si rapporta il valore specifico con quello mediano del gruppo di riferimento.
Già da diversi anni è’ in atto a livello internazionale un tentativo di “risposta” alle politiche (pubbliche o istituzionali) influenzate dall’eccessivo peso attributo alle attività di ricerca e ai prodotti della ricerca, rispetto al ruolo docente, nelle Università.
Perfino all’OCSE, che è comunque un limite estremo per l’influenza di certe ideologie e di certe prassi “economiciste”, lo riconoscono
http://www.oecd.org/edu/imhe/QT%20policies%20and%20practices.pdf
L’onorevole Milena Santerini ha presentato un emendamento per aggiungere alla qualità della produzione scientifica il riferimento alla qualità dell’attività didattica. I suoi colleghi parlamentari hanno adesso un’occasione per mostrare da che parte stanno. Non potranno dire che non si erano accorti del 3-quinquies e delle sue conseguenze. E non sarebbe male sapere se il governo condivide l’integrazione.
Perfettamente d’accordo. Resta comunque il fatto che, se l’indicatore per la qualità della ricerca è la VQR, e quello per la qualità della didattica i questionari degli studenti, quelle del 3-quinquies rimarranno purtroppo mere dichiarazioni di principio.
Il “problema” della didattica ha molti risvolti – condivido in pieno le varie osservazioni in questi commenti, in particolare sulla necessità di valutare cose non traducibili in numeri – tuttavia alcuni possono essere difficili da gestire per il meccanismo attuale di progressione/reclutamento
Senza pretendere di esser interprete del legislatore credo che un ulteriore elemento – piu di tipo amministrativo che non universitario – sia intervenuto a bloccare una valutazione delle didattica in fase abilitazione: i ricorsi
un abilitato “scientifico” e “didattico” che magari è ricercatore e svolge corsi … perché non dovrebbe agire per via giudiziari (tanto piu visti i tempi) per avere riconosciuto un qualche avanzamento (ruolo) ???
Credo che sia molto difficile trovare una regolamentazione “giusta” in un momento di scarse risorse, scarso interesse generale per la preparazione da parte degli studenti (e dei loro familiari), etc etc..
Non dimentichiamo però che l’ASN è una procedura che abilità, non dà diritto. Si potrebbe introdurre qualche mediana di riferimento anche per l’insegnamento (ad esempio aver tenuto almeno tot ore di corsi universitari), anche se questo renderebbe difficile l’abilitazione per chi non è rimasto all’interno dell’università. In ultima istanza però, dovrebbero essere gli atenei a scegliere, tra gli abilitati, chi sappia produrre didattica di qualità, anche sulla base del fatto che gli studenti dovrebbero premiare gli atenei con bravi professori (e qui torniamo al problema iniziale dello scarso interesse per la preparazione e dell’estremo interesse per il “pezzo di carta”).