Sottoponiamo ai lettori alcune proposte sul sistema dell’Università e della ricerca. Le presentiamo con l’intento di favorire una discussione approfondita, al termine della quale procedere alla redazione di un documento definitivo da proporre ai decisori. Ringraziamo in anticipo tutti coloro che vorranno collaborare alla discussione con spirito costruttivo.
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ROARS è nato per sostituire fatti alle tante leggende che circolano sull’Università italiana. Ed i fatti (Dati OCSE Education at a Glance 2012) sono:
- che l’Italia ha solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni;
- che l’Italia è solo trentunesima su 36 nazioni per quanto riguarda la spesa per educazione terziaria rapportata al PIL;
- che durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la spesa complessiva in formazione cresceva in rapporto al PIL, in Italia la spesa non solo è diminuita ma ha subito il calo più pesante di tutte le nazioni considerate ad eccezione dell’Estonia;
- che la spesa cumulativa per studente universitario è inferiore alla media OCSE e ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate;
- che le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi Bassi e Portogallo.
Malgrado questo, la produttività scientifica italiana dei ricercatori italiani è superiore a quella di Germania, Francia e Giappone (International Comparative Performance of the UK Research Base, pp. 65-66, analisi basata su dati Scopus e OCSE).
Le leggende che da qualche anno impediscono all’opinione pubblica del Paese di apprezzare questi fatti sono state invocate per giustificare la Riforma Gelmini come strumento indispensabile per modernizzare l’accademia italiana. In realtà, l’infinito processo riformatore la sta paralizzando e soffocando. Inoltre, l’inserimento all’interno delle procedure di valutazione e reclutamento di strumenti di valutazione e controllo mal congegnati sta aprendo la strada al contenzioso giudiziario con il risultato di consegnare ai giudici amministrativi le decisioni ultime sul governo della ricerca nel nostro Paese.
Siamo convinti che sia ora di correggere la rotta, tenendo conto delle esperienze internazionali.
Per questo motivo, desideriamo sottoporvi queste riflessioni: si tratta solo di primi spunti per favorire un’ampia discussione anche in vista delle prossime elezioni politiche.
A partire di qui, vorremmo giungere alla definizione di proposte da sottoporre ai policy makers, come tappa conclusiva di un percorso di elaborazione condivisa con gli attori del sistema, e fra questi in primis con chi ha scelto di dedicare la propria vita alla ricerca.
Vale la pena di ricordare che i dipartimenti, le aule e i laboratori delle Università e dei centri di ricerca funzionano grazie alla dedizione di decine di migliaia di persone che hanno fatto una scelta ispirata in primo luogo dalla passione per la conoscenza. Persone che nella maggior parte dei casi lavorano con dedizione, e che sarebbero ben felici di fare di più, ma chiedono rispetto.
Da ultimo, va ricordato che senza un netto cambio di marcia rispetto alle politiche di tagli indiscriminati al finanziamento del sistema, non sarà possibile ottenere alcun risultato significativo.
L’Università italiana ha subito negli ultimi anni un lungo e travagliato processo riformatore. Non è ragionevole ipotizzare subito nuove radicali riforme. Per questo proponiamo misure di breve termine, più leggere e di più facile attuazione e misure di più lungo termine, che andranno comunque considerate dopo un attento monitoraggio del funzionamento del sistema dell’Università e della ricerca.
1. Reclutamento
Coordinare reclutamento e progressioni per garantire il ricambio in tutti i ruoli
Le abilitazioni nazionali sono di fatto fallite. Se anche dovessero sopravvivere all’ampio contenzioso che si è creato, è ormai chiaro che esse non sono affatto uno strumento per la promozione del merito nel reclutamento accademico, secondo quanto a suo tempo affermato dai sostenitori della l. 240/2010. Inoltre, se non verrà arrestata la progressiva riduzione dell’organico della docenza, il sistema delle abilitazioni rischia di chiudere definitivamente le porte del reclutamento a larga parte dei giovani non strutturati, a prescindere dai loro meriti scientifici.
Che l’abilitazione ora in corso giunga o meno a conclusione, occorre comunque prevedere interventi minimi correttivi per impedire il collasso del sistema. Prevediamo il ricorso a concorsi con commissioni prevalentemente sorteggiate per il reclutamento. Sia per accedere al reclutamento che per le progressioni di carriera interne all’ateneo riteniamo opportuno il ricorso a abilitazioni nazionali bandite con cadenza annuale a numero programmato.
Nel breve termine è auspicabile che:
A) Le prossime tornate di abilitazioni, successive a quella ora in corso, si svolgano a numero programmato. Per ogni settore scientifico il numero di abilitati deve essere sufficiente alle necessità di reclutamento e ricambio generazionale nelle fasce consentendo una ragionevole libertà di scelta agli atenei, senza eccedere in modo sregolato la capacità di assorbimento.
B) Occorre definire criteri minimi di qualificazione scientifica per l’accesso alle abilitazioni, evitando parametri di natura statistica (per es. mediane, medie e percentili) ma ricorrendo a parametri assoluti, facilmente accertabili dai candidati e dalle commissioni, definiti e periodicamente rivisti dal CUN (vedi sub 2).
C) Occorre distinguere tra reclutamento e progressione di carriera. Il reclutamento nelle diverse fasce deve avvenire mediante concorsi locali riservati ai possessori dell’abilitazione scientifica, con commissioni composte per i 4/5 da soggetti esterni all’ateneo, appartenenti al settore scientifico disciplinare o al macrosettore, scelti per sorteggio pubblico tra coloro che sono dotati dei requisiti minimi di produttività scientifica.
Per le progressioni di carriera, gli atenei possono deliberare la chiamata degli interni che abbiano conseguito l’abilitazione al ruolo superiore senza ulteriori adempimenti.
Nota: la possibilità di promozione alla I e II fascia degli interni abilitati tramite chiamata (senza ulteriore concorso) è limitata a chi abbia conseguito l’abilitazione a numero programmato. Ciò non vale per le abilitazioni a numero aperto attualmente in corso, che danno solo diritto di partecipare a concorsi locali nella rispettiva fascia.
Nel medio periodo:
D) Sono necessarie misure per favorire la mobilità dei docenti fra le sedi. Tra queste, occorre considerare un incremento della quota riservata nel reclutamento locale a soggetti esterni che nell’ultimo triennio non hanno prestato servizio, o non sono stati titolari di assegni di ricerca ovvero iscritti a corsi universitari nell’Università stessa (L. 240/2012, art. 18 comma 4), applicando tale quota separatamente per ciascuna delle fasce e per le posizioni di ricercatore a tempo determinato di tipo B.
E) Misure per ripristinare il flusso di giovani studiosi verso le Università italiane. Al momento è previsto che i giovani ricercatori, dopo il dottorato possano concorrere per assegni di ricerca, posti da ricercatore a tempo determinato (RTD) di tipo A rinnovabili una volta, e posti da ricercatore a tempo determinato di tipo B non rinnovabili con una sorta di tenure track. Questi ultimi sono suscettibili di trasformarsi in posizioni da professore associato, previo superamento dell’abilitazione scientifica nazionale Si tratta però di un canale allo stato inattivo, poiché i posti RTD tipo B sono estremamente costosi in termini di punti organico (0.7) e perché vi è un secondo canale di accesso alla seconda fascia che riguarda i ricercatori ad esaurimento, molto più numerosi.
Per superare la contrapposizione tra le aspirazioni di carriera dei ricercatori e quelle dei giovani studiosi non strutturati, occorre rendere accessibile il canale di reclutamento di tipo B direttamente ai dottori di ricerca (senza richiedere un precedente triennio di RTD di tipo A) e trasformarlo in una via di accesso al rinnovato ruolo di ricercatore a tempo indeterminato (RTI), che tornerebbe pertanto ad essere il primo gradino della carriera accademica. Contestualmente occorre istituire un’abilitazione di III livello, il cui conseguimento è necessario per l’immissione, al termine del triennio, degli RTD di tipo B nel ruolo degli RTI. In tale quadro occorre prevedere finanziamenti ad hoc riservati a bandi per RTD di tipo B. I regolamenti riguardanti il reclutamento di ricercatori a tempo determinato di tipo B debbono essere uniformati prevedendo il sorteggio pubblico di 4/5 della commissione giudicatrice e il rispetto della quota riservata a soggetti esterni che nell’ultimo triennio non hanno prestato servizio, o non sono stati titolari di assegni di ricerca ovvero iscritti a corsi universitari nell’Università stessa. Il possesso preventivo dell’abilitazione di terzo livello è titolo preferenziale nei bandi per RTD di tipo B. Il rinnovato ruolo degli RTI è unicamente a tempo pieno e orientato prevalentemente all’attività di ricerca.
2. Riforma del CUN e Autonomia universitaria
Occorre partecipazione e condivisione delle regole.
Nel breve termine:
Il CUN deve essere riformato in modo da divenire la sede di rappresentanza istituzionale della comunità scientifica (non del sistema universitario nelle sue componenti). L’organo deve essere dunque snellito eliminando le componenti estranee alla comunità scientifica. Occorre attribuire al CUN compiti di raccordo fra le comunità scientifiche e l’Agenzia di valutazione.
Essendo organo rappresentativo delle comunità scientifiche, dev’essere il CUN a definire in modo partecipato e trasparente i criteri di massima per la valutazione.
Contestualmente occorre riassegnare al CUN la competenza disciplinare sul personale docente, se non altro come sede di seconda e ultima istanza di giudizio.
3. Sistema della valutazione
a) Restituire la valutazione della ricerca ai ricercatori.
Il sistema di valutazione è uno degli snodi chiave per lo sviluppo della attività di ricerca. Un sistema di valutazione ben disegnato è indispensabile per le decisioni relative al finanziamento della ricerca.
L’assetto istituzionale attuale è del tutto inadeguato poiché attribuisce ad una agenzia ministeriale (ANVUR) di nomina politica e vigilata dal ministro tutte le attività di valutazione della ricerca e di «assicurazione della qualità» nell’Università. In questo modo le decisioni sulle policies non sono chiaramente distinte dalle attività di valutazione. È necessaria pertanto una modifica radicale dell’assetto istituzionale del sistema della ricerca.
Nel breve termine:
E’ urgente che il CUN, come scritto al punto 2, assuma la funzione di rappresentanza istituzionale della comunità scientifica e non delle componenti del sistema universitario. Ad esso spetta di definire, in raccordo trasparente e formalizzato con le comunità scientifiche e con l’agenzia di valutazione, i criteri di massima che dovranno potranno essere utilizzati per la realizzazione delle attività di valutazione (ad esempio le classificazioni disciplinari, le denominazioni dei corsi di studio, la definizione dei criteri per la costruzione di liste di riviste scientifiche etc.). In tal modo è possibile iniziare a riequilibrare e stabilizzare il sistema della valutazione.
Nel medio periodo:
La creazione di una Agenzia autonoma, sul modello della francese AERES, dotata di due dipartimenti separati e indipendenti fra loro, rispettivamente dediti alla valutazione della ricerca e alla valutazione e accreditamento dei corsi di studio. Ciascun dipartimento dispone di un consiglio direttivo ampio costituito da ricercatori (Università ed enti pubblici di ricerca – EPR), esperti di valutazione nominati su proposta delle Università e degli EPR e anche da personalità qualificate provenienti dalla ricerca privata. I dipendenti di Università ed EPR chiamati a far parte dei consigli direttivi percepiscono solo indennità aggiuntive a copertura delle spese e non sono assimilati nelle retribuzioni ai dirigenti del ministero.
b) Strumenti ed articolazione della attività di valutazione della ricerca
Le esperienze in corso della VQR e delle abilitazioni stanno mostrando che gli strumenti di valutazione di cui si è dotata ANVUR sono del tutto inadeguati, perché realizzati senza il rispetto degli standard minimi adottati a livello internazionale. I risultati della VQR sono viziati da errori di impostazione tali da compromettere del tutto la credibilità dei risultati finali del costoso esercizio. Il modello VQR nella sua configurazione attuale va immediatamente abbandonato. Il database delle pubblicazioni realizzato per le abilitazioni solo difficilmente potrà essere utilizzato come anagrafe nazionale della ricerca. Per non parlare delle incredibili liste di «riviste scientifiche» relative alle aree non bibliometriche.
Per realizzare una efficace e credibile attività di valutazione della ricerca che possa essere applicata a vari livelli di aggregazione sono immediatamente necessari due strumenti di base:
1) l’anagrafe nazionale dei prodotti della ricerca (ANPREPS), già prevista da una norma del 2009 ma mai attuata, deve essere realizzata e manutenuta dal MIUR (non dalla Agenzia di valutazione) secondo standard internazionali. I prodotti inseriti nell’anagrafe devono essere classificati per tipologie. Le tipologie (ad es. articolo/libro scientifico, articolo/libro divulgativo) sono definite dalla comunità scientifica (tramite il CUN) secondo standard classificatori internazionali;
2) una lista di riviste scientifiche, realizzate anch’essa secondo le convenzioni internazionali sul modello di analoghe liste realizzate altrove (Finlandia, Norvegia, Francia, Australia). I criteri per la realizzazione della lista sono costruiti attraverso una ampia consultazione delle comunità scientifiche. La lista è realizzata e manutenuta dal MIUR. La lista è aggiornata annualmente. Una rivista, una volta ritenuta scientifica resta tale per tutti i settori e per tutte le aree.
L’Agenzia di valutazione della ricerca o il dipartimento a ciò preposto realizza:
- indagini bibliometriche a cadenza annuale/biennale relative alla produttività del sistema della ricerca e impatto della produzione scientifica italiana.
- un esercizio di valutazione della qualità della ricerca quadriennale, sulla base del modello REF britannico (peer review su un numero limitato di prodotti);
- verifica ex post i risultati dei progetti di ricerca finanziati dal MIUR (vedi punto successivo).
4. Finanziamento della ricerca.
Ridurre la frammentazione per aumentare l’efficacia, evitare concentrazioni improprie e salvaguardare il pluralismo della ricerca.
Il finanziamento delle Università e degli Enti Pubblici di Ricerca [EPR] avviene attraverso due canali: il fondo di finanziamento ordinario, che ormai permette solo di pagare le spese fisse, ma non di finanziare l’attività di ricerca; ed i finanziamenti per progetto.
Per quanto riguarda il primo canale, per le Università una parte del fondo di finanziamento ordinario (in prospettiva il 25%) dovrebbe essere distribuita in funzione dei risultati conseguiti nella ricerca e nella didattica tenendo conto dell’efficienza nell’uso delle risorse.
Il sistema attuale di finanziamento a progetto non è coordinato centralmente, non garantisce trasparenza delle decisioni e soprattutto concentra le risorse (su gruppi e discipline) in modo del tutto inefficiente. Il recente bando PRIN per esempio, concentra le risorse in modo eccessivo in ambiti disciplinari in cui tale concentrazione non è nei fatti necessaria né auspicabile, perché non sono necessari finanziamenti di entità particolarmente ingente per condurre la ricerca. Ne segue che molti gruppi di ricerca nell’Università e gli EPR non sono messi in condizione di operare in maniera ordinaria.
Premessa necessaria al ridisegno del sistema è che tutti i finanziamenti straordinari rispetto all’ordinario funzionamento di enti di ricerca e Università, inclusi i progetti bandiera, devono essere assegnati tramite bandi pubblici. L’obiettivo è la costruzione di un meccanismo (bandi, progetti, revisione da parte di panels indipendenti) che distribuisca fondi per la ricerca tenendo conto di capacità e risultati.
Nel breve termine:
Occorre differenziare i bandi per progetti di diversa dimensione (grande, media e piccola), ognuno con una periodicità diversa (più frequenti per i progetti di piccola dimensione). I progetti più piccoli (ricerca individuale e per piccoli gruppi) sono di importanza fondamentale perché permettono di finanziare la ricerca di base curiosity driven e salvaguardare per questa via il pluralismo della ricerca in un contesto in cui le attività di valutazione per loro natura tendono a premiare la ricerca mainstream.
Le procedure di valutazione devono essere svolte nel modo più rigoroso e trasparente secondo le guidelines europee per la peer review. I nomi dei valutatori vanno resi pubblici a bando concluso e i loro CV devono essere resi pubblici.
L’agenzia di valutazione della ricerca deve svolgere sistematicamente attività di verifica ex post dei risultati dei progetti finanziati.
Nel medio periodo:
Si può prevedere la creazione di un organismo nazionale di coordinamento del finanziamento alla ricerca, per evitare sprechi di risorse ed allocazioni errate. A questo proposito sono possibili due scelte alternative.
La prima, consiste nella creazione di un’agenzia ad hoc, che accentri e coordini le fonti di finanziamento della ricerca, attualmente disperse e pertanto difficilmente programmabili. Una tale struttura può tuttavia generare un potenziale incremento dei costi e compromettere l’autonomia degli enti finanziatori.
In alternativa, è possibile pensare a una struttura leggera che si incarichi di:
- manutenere un archivio pubblico dei bandi per finanziamento alla ricerca
- manutenere l’elenco nazionale dei valutatori dei progetti di ricerca
- fornire guidelines e supporto per la redazione di bandi effettivamente competitivi, che siano all’altezza dei migliori standard.
- fornire guidelines e supporto per la valutazione dei progetti presentati e per la verifica dello svolgimento delle attività di ricerca in itinere.
- assicurare un monitoraggio continuo ed un’attività di analisi del sistema del finanziamento alla ricerca.
5. Valutazione della didattica ed accreditamento
Recuperare il ritardo senza morire di burocrazia.
L’Università italiana è in enorme ritardo in relazione alle attività di assicurazione della qualità dei corsi di studio ed accreditamento come definiti nel processo di Bologna. ANVUR sta preparando AVA (Autovalutazione, Valutazione, Accreditamento) il cui disegno appare ispirato ad un controllo burocratico e centralizzato delle attività di educazione terziaria. AVA prevede la raccolta di una gran mole di dati – incluso dati di dubbia utilità per la rilevanza della qualità -, ma mette in secondo piano il giudizio esperto sulla conduzione delle attività ordinarie.
Nel breve termine:
I Nuclei di Valutazione costituiti presso le singole Università svolgono in coordinamento con l’Agenzia nazionale le attività di valutazione ex ante in itinere ed ex post, verificando le rispondenza delle attività degli organismi locali di “assicurazione della qualità” agli standard nazionali.
Il CUN definisce i criteri e controlla denominazione, disegno e contenuti dei corsi di studio.
Come già rilevato, ANVUR è agenzia di nomina ministeriale e sottoposta alla vigilanza del Ministro. Non sembra presentare le caratteristiche di indipendenza dal ministero richieste alle agenzie di valutazione da ENQA (European Association for Quality Assurance in Higher Education), e che dovranno essere vagliate da EQAR (European Quality Assurance Register for Higher Education).
Nel medio periodo:
È quindi opportuno prevedere la sua trasformazione (vedi sub 3), in modo che l’attività di valutazione ed accreditamento dei corsi di studio si svolga secondo le linee previste dagli Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area.
6. Enti di Ricerca
Più autonomia per una migliore realizzazione della propria missione.
È necessario invertire il processo di marginalizzazione della comunità scientifica interna e del personale negli organi di autogoverno, la riduzione dell’autonomia e l’ingerenza politico-ministeriale nella gestione degli Enti Pubblici di Ricerca (EPR). Gli EPR devono avere la capacità di organizzare la propria struttura con l’obiettivo di perseguire la mission definita in sede politica dai ministeri di riferimento. Deve essere garantita sia l’autonomia della ricerca che l’indipendenza del potere politico degli organi decisionali degli enti.
Gli EPR saranno quindi disciplinati esclusivamente dai loro statuti, redatti in coerenza con i principi contenuti nella Carta europea dei ricercatori garantendo spazi autentici di autogoverno e partecipazione diretta del personale.
La comunità interna deve esprimere oltre al consiglio scientifico almeno un rappresentante nel consiglio di amministrazione comunque composto da personalità che vantano esperienze di alto livello nei settori di competenza dell’ente. I consiglieri di amministrazione esterni all’ente dovranno essere scelti con un bando pubblico e selezionati successivamente dal consiglio scientifico. Il ruolo del consiglio scientifico dovrà essere non solo di carattere propositivo rispetto all’implementazione della mission dell’ente ma anche rispetto all’organizzazione del lavoro a garanzia dell’autogoverno e dell’autonomia dei ricercatori nell’ambito della missione dell’ente stesso.
I Presidenti degli EPR e gli eventuali componenti di nomina governativa nei Consigli di Amministrazione devono essere scelti nell’ambito di distinte rose di candidature proposte da appositi comitati di selezione nominati, di volta in volta, per ciascun ente.
Gli EPR devono poter operare sulla base di un piano quinquennale di attività, che deve definire gli obiettivi, i programmi di ricerca, i risultati socio-economici attesi, nonché le risorse, che dovranno essere previste in coerenza con il programma nazionale per la ricerca che dovrà diventare anche esso quinquennale.
7. Diritto allo studio
Il diritto allo studio universitario occupa da sempre un ruolo marginale nel panorama delle politiche sociali, con la conseguenza di essere collocato al fondo dell’agenda politica dei governi che si sono succeduti, e di avere assegnate risorse irrisorie anche nel periodo pre-crisi. Negli ultimi due anni (2010 e 2011) il Fondo statale che finanzia le borse di studio – l’intervento principale a sostegno dei capaci e meritevoli privi di mezzi – è stato pari a meno di 100 milioni di euro. In primo luogo, dunque, occorrerebbe un’inversione di tendenza culturale che riconosca all’insieme di interventi a favore degli studenti dignità di politica.
Nel breve termine:
Un primo passo in tal senso potrebbe essere, non solo quello dell’incremento del finanziamento statale, pure indispensabile, ma quello di creare all’interno del MIUR, una Direzione specifica per lo studente ed il diritto allo studio universitario, attualmente invece accorpata a quella per l’Università. Questa dovrebbe avere il compito di monitorare sistematicamente gli interventi redigendo una relazione annuale.
Il sistema di finanziamento dovrebbe essere modificato in modo tale che gli studenti aventi diritto alla borsa abbiano la garanzia di riceverla su tutto il territorio nazionale, con condizioni di accesso uniformi, e che tutti abbiano un contributo monetario integrativo della borsa se partecipano a programmi di mobilità internazionale.
Oggi le tre fonti di finanziamento delle borse sono lo Stato, le Regioni e gli studenti attraverso la tassa regionale per il diritto allo studio universitario (DSU). Tuttavia sia lo Stato che le Regioni stanziano le risorse in base a quanto messo a bilancio e non in base al fabbisogno. Non esiste alcuna forma di corresponsabilità finanziaria, che è ciò che consentirebbe di far scomparire la figura dello studente idoneo non beneficiario, presente solo in Italia. In Germania, ad esempio lo Stato contribuisce per il 65% e i Länder per il restante 35%.
Quindi, sarebbe necessario un coordinamento nazionale degli enti regionali per il DSU, il che sarebbe utile sia ai fini gestionali degli enti stessi, che potrebbero comparare costi e procedure, sia per rendere più uniformi i criteri di accesso ai diversi interventi e le relative tariffe.
In luogo di 50 bandi di borse di studio, e altrettanti bandi per l’alloggio e altrettanti regolamenti di ristorazione, sarebbe opportuno che ve ne fosse uno a livello nazionale, almeno per la borsa di studio, come accade negli altri paesi europei.
Nel medio periodo:
Dovrebbe essere ripensato il Fondo per il merito, istituito dalla legge 240/2010, per trasformarlo in un Fondo di garanzia per l’erogazione di prestiti agli studenti attualmente esclusi dalla borsa di studio: gli studenti con una condizione economica lievemente migliore degli aventi diritto alla borsa, ovvero quelli che si potrebbero definire “quasi-borsisti”, e gli studenti iscritti a corsi post-laurea. Nel fondo dovrebbero confluire le residue risorse del progetto “Diritto al Futuro” – Fondo per il credito ai giovani, in capo al Dipartimento della Gioventù, consistente nell’erogazione di prestiti a studenti universitari meritevoli.
Il fenomeno è preoccupante e i fattori in gioco sono sicuramente molti (compreso il costo dell’università e il generale impoverimento delle famiglie). Ma il principale probabilmente è il mercato del lavoro, che come ci ricorda sempre l’Istat, in Italia chiede, nell’ordine, badanti, pizzaioli, manovali, ecc. Qualche giorno fa (ora non trovo il link) è uscita la notizia che la grande maggioranza delle aziende di elettronica(!) italiane non prevede di assumere laureati in futuro (neanche laureati all’estero, of course). La scarsa utilizzazione di persone qualificate nelle imprese italiane è fatto molto noto e non da poco.
Poi c’è anche della disinformazione: si parla molto, giustamente, della disoccupazione intellettuale, dimenticando che i laureati trovano comunque lavoro molto più dei diplomati. (Qualche volta i dati vengono “addomesticati”: se contiamo quanti giovani di 23 o 24 anni sono occupati, può anche venir fuori che sono di più i diplomati – che cercavano lavoro da 4-5 anni – dei laureati – che presumibilmente sono appena laureati). Il differenziale è particolarmente forte nel Sud e per le donne, e i due naturalmente si sommano: ma non è detto che le ragazze del Sud lo sappiano.
C’è anche un bel differenziale rispetto al voto, come è noto, e anche questo aiuta a capire perché l’università sia stata sempre sotto tiro negli ultimi anni.
(Intendevo il voto alle elezioni politiche, naturalmente, ma può sembrare che intendessi il voto di laurea).
Mi chiedo se una parte considerevole delle difficoltà che si incontrano nel governare l’Università non stia proprio nel fatto di non rimarcare con piu’ nettezza le differenze che attengono agli aspetti epistemologici e ai rapporti con il resto della societa’ (e al modo in cui possono essere finanziate) delle varie discipline.
Care colleghe e cari colleghi,
per vostra comodità trovate qua sotto un riassunto dei miei suggerimenti relativi alle proposte di ROARS.
1. Forma del documento
La forma attuale del documento mi sembra poco efficace e un po’ più vicina a una piattaforma rivendicativa che a un piano per università e ricerca. In particolare non si comprendono ancora bene i macro-obiettivi che si vorrebbero raggiungere. Tali macro-obiettivi dovrebbero essere resi espliciti. Per esempio, riprendendo alcuni degli ultimi interventi, ci si potrebbe porre l’obiettivo di rendere l’università uno strumento efficace di mobilità sociale. A questo proposito mi sono permesso di indicare come modello il piano del governo spagnolo, (solo per la forma del documento e non per i dettagli):
http://icono.fecyt.es/plan-estatal/Documents/PlanEstatal.pdf
2. Bilanciamento delle varie parti
Buona parte della discussione si è svolta sul reclutamento. Su questo tema il documento è piuttosto dettagliato. Altri argomenti di maggiore importanza (secondo me, naturalmente) sono trattati in minore dettaglio. Uno di questi temi è il finanziamento della ricerca. Anche qua mi sono permesso di segnalare principi generali (alcuni, in verità, sono già inclusi nel documento) per la valutazione delle proposte:
http://www.globalresearchcouncil.org/statement-principles-scientific-merit-review
e anche alcune modalità di valutazione delle proposte che permettano agli outsider di avere qualche possibilità di finanziamento allo scopo di mantenere una maggiore “biodiversità” nel panorama della ricerca italiana. Riporto qui di seguito la mia opinione al proposito: “l’unico schema europeo che mi convince veramente e’ quello FET Open, con una valutazione in due fasi. Nella prima fase si valuta un’idea presentata in forma anonima e solo successivamente chi presenta idee ritenute valide riceve l’invito a scrivere una proposta completa che viene ulteriormente valutata”. Inoltre concordo con chi ritiene sia utile introdurre strumenti di finanziamento individuale e non solo di reti e gruppi di ricerca.
3. Discussione
Buona parte della discussione avrebbe dovuto vertere (sempre a mio parere, si badi bene) non sui dettagli delle future abilitazioni nazionali e del reclutamento universitario, ma su una serie di macro-obiettivi dai quali far discendere azioni concrete e, naturalmente, su tali azioni concrete. Tali azioni includerebbero certo le modalità di reclutamento, ma non solo quelle. Per esempio, dato che abbiamo meno ricercatori di altri paesi, e che ciò comporta meno finanziamenti europei all’Italia, ci si potrebbe porre l’obiettivo di aumentare il numero dei ricercatori stessi. Quest’obiettivo avrebbe un impatto immediato sul reclutamento. Comunque se ci fosse consenso su ciò, il tempo per svolgere questa discussione non ci mancherebbe certo.
Colgo l’occasione per ringraziare ROARS per aver lanciato questa importante discussione.
Cordiali saluti
Enrico Scalas
Caro Enrico Scalas,
grazie molte del commento. Che trovo lucido e utilissimo per il prosieguo della discussione.
Concordo in particolare sulla seguente notazione “Buona parte della discussione avrebbe dovuto vertere non sui dettagli delle future abilitazioni nazionali e del reclutamento universitario”.
Magari al punto 7 sul diritto allo studio si dovrebbe aggiungere il diritto a iscriversi a un dottorato in base a un progetto di ricerca, come succede in gran parte degli stati europei e non, e non in base a quegli esami truccati in cui vincono quasi sempre gli allievi dei prof in commissione.Il dottorato deve essere un diritto, non un privilegio per pochi
Ho letto con grande interesse le proposte della redazione di Roars. Il dibattito, tra alti e bassi, è stato molto serrato. Alcuni elementi sono condivisibili, altri meno, ma non è questo che importa. Come è stato osservato, non si può che apprezzare l’iniziativa e lo sforzo intellettuale che c’è dietro. Quella di Roars appare come l’unica voce (vox clamantis…)che si leva nel deserto delle opinioni, della mancanza di regia culturale e politica che caratterizza questa fase particolarmente infelice per l’Università italiana, la fase attuativa della cosiddetta legge Gelmini. Un’iniziativa propositiva complessiva è la migliore risposta agli episodi di aperta illegalità, tante volte denunciati da Roars, al clima di arroganza e di intimidazione che sta spegnendo il sorriso anche dei più refrattari a prendere atto del fallimento totale del principio stesso della valutazione della ricerca su cui si basa la nostra vita e la nostra passione di studiosi. Grazie ad Anvur e ai comportamenti del Miur (e del suo Ministro), la nostra comunità scientifica, con le sue punte di eccellenza e con il lavoro oscuro e non per questo meno apprezzabile di tanti che impediscono che la nave affondi, è stata ignorata, umiliata, coperta di ridicolo per errori che certo non erano i suoi.
Ma da ieri, qualunque sia la nostra posizione politica, qualcosa è cambiato. Le elezioni si avvicinano e, comunque vada, il quadro di riferimento muterà profondamente. La scuola e l’università saranno certamente un terreno di discussione. Cerchiamo di impedire inutili rattoppi, vani aggiustamenti dell’esistente. Una proposta come quella di Roars deve servire a collegare, a confrontare posizioni ed esperienze diverse, ma non a dividerci, per favore.
Concordo con la sostanza di questo intervento.
So di avere una posizione “off-center” in questo consesso, ma mi sembra chiaro che sia necessario un minimo di condivisione da usare per dirigere chiaramente delle richieste a chi – presumibilmente – sarà alle redini; e sappiamo che sarà, molto probabilmente, il PD.
Detto questo credo ci siano tre cose da dire (ed una in subordine):
s
1 – I finanziamenti pubblici complessivi al sistema della Ricerca e dell’Università vanno aumentati e di molto; questa è una conditio-sine-qua-non.
2 – Vanno smantellate norme e strutture costruite con intenti punitivi, gerarchici e – diciamolo! – autoritari.
3 – Vanno semplificate od eliminate regole e strutture burocratiche (soprattutto quelle centrali e centralistiche)
Ritengo che queste siano le linee guida minimali su cui si pu`ø essere d’accordo.
La richiesta in subordine è che il Ministro MIUR ed i suoi vice non siano “cattolici”.
Ecco: dato che qua sopra ci sono persone che hanno “influenza” se non addirittura incarichi nel PD, gradirei impegni e risposte al proposito.
A presto
Marco Antoniotti
Cari Colleghi, apprezzo molto l’impegno e il tentativo di aggiustare la riforma universitaria con indicazioni concrete di medio termine. Ma personalmente penso che si debba avere il coraggio di fare cambiamenti più radicali, specie sulla questione del reclutamento, che non può continuare a muoversi sul modello dei sorteggi e della “dea bendata” che sarebbe in grado di garantire l’oggettività dei commissari. Il modello anglosassone proposto da Luca Cerioni potrebbe benissimo essere assunto per garantire il rapporto libertà e responsabilità dell’università. Però permettetemi un’osservazione, tanto per uscire dall’immaginario e dal mondo dei possibili più o meno compossibili: oggi noi parliamo dell’Università come luogo di ricerca, ma le assunzioni di ricercatori, associati e ordinari sono tutti determinati dalle esigenze della didattica e laddove le iscrizioni diminuiscono si chiudono i corsi e non si assume nessuno. In questo modo le esigenze della ricerca che vengono riconosciute sono solo quelle funzionali al sistema economico produttivo del momento. Emblematiche le facoltà umanistiche, che sono destinate ad una contrazione decisiva visto che non soddisfano alcuna esigenza del mercato del mondo del lavoro (il numero del fabbisogno degli insegnanti è decisamente basso). Ma questo non significa che non ci siano spazi di ricerca rilevanti nel campo di queste discipline. Il rapporto tra didattica/formazione e produzione scientifica vede oggi privilegiata la questione “ideale” della formazione per la professione, ma questo “mito” va poi a scontrarsi con il fatto che la nostra università è di massa e noi aspiriamo a far laureare il maggior numero di persone possibili: questo scopo, che condivido, non può ovviamente convivere con la promessa di dare a tutti un lavoro corrispondente alla preparazione ricevuta. Se non si risolve il nodo tra università/professione/mercato e università/formazione/ricerca non si può programmare nessuna riforma (o aggiustamento) della situazione attuale. Se non determiniamo meglio gli scopi non riusciamo ad aggiustare i mezzi. Forse è giunto il momento di pensare all’università tenendo conto in modo realistico delle differenti Facoltà e delle differenze epistemologiche che le caratterizzano, immaginando un modello organico ma non univoco.
” la nostra università è di massa e noi aspiriamo a far laureare il maggior numero di persone possibili: questo scopo, che condivido, non può ovviamente convivere con la promessa di dare a tutti un lavoro corrispondente alla preparazione ricevuta. Se non si risolve il nodo tra università/professione/mercato e università/formazione/ricerca non si può programmare nessuna riforma (o aggiustamento) della situazione attuale.”
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Il commento solleva una questione centrale. Il problema delle professionalità richieste dal mondo del lavoro è fondamentale. La sequente figura, tratta dalla sintesi del “XIV Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati” (https://www.roars.it/almalaurea-i-giovani-non-possono-piu-attendere-investire-in-istruzione-ricerca-innovazione-cultura/), mostra chiaramente che c’è un grosso problema strutturale nel mondo del lavoro italiano, che rispetto ad altre nazioni presenta una sottoqualificazione preoccupante. Una soluzione è tagliare università e ricerca per adeguarle ad una “visione” di paese in cui la sottoqualificazione diventa una scelta strategica (per un caso emblematico, si veda l’articolo “Ha un ottimo reddito e vive con la sua donna” https://www.roars.it/ha-un-ottimo-reddito-e-vive-con-la-sua-donna/). L’altra soluzione è prendere coscienza del ritardo del sistema produttivo e lavorativo e far leva su università e ricerca per colmare il gap.
Gent.mo Prof. Pessina,
La ringrazio – così come ringrazio tutti gli altri commentatori che hanno prestato attenzione ad alcune mie osservazioni – per aver preso in considerazione i miei spunti sul modello anglosassone, che in effetti intendevano portare una testimonianza, e proporre una riflessione, su un sistema di reclutamento che attira migliaia di ricercatori italiani in fuga.
Anche nel mondo anglosassone le esigenze della didattica determinano largamente i piani di assunzione delle singole Università, che sono condizionati, d’ altro lato, anche dal desiderio degli Atenei, in competizione fra loro, di migliorare la propria posizione ai fini del REF.
Come sempre va messa in prospettiva ogni considerazione sul “sistema UK” rispetto al “sistema anglosassone” (e “svizzero”, tanto per).
I RAE ed i REF sono una cosa UK, non “anglosassone” (come ben ci ricorda la NEREA americana). Dovremmo sempre essere attenti a vagliare le cose che ci arrivano dal paese che – dopotutto – congetturò i Vogons :)
A presto
Marco Antoniotti
Grande Ciro!
Magari non sarò d’accordo qua e là, ma certe tirate non si criticano, si applaudono e basta…
Ma ci hai lasciato nella suspence! Che rispondiamo, in definitiva, al nano e alla massaia?
Una breve risposta a Marco Antoniotti. Vero, i RAE ed i REF costituiscono modalità di valutazione prettamente britanniche, ma mi risulta che la logica sottostante – in ultima analisi, responsabilizzare le Università per le scelte che effettuano anche in termini di reclutamento degli accademici – sia comune anche ad altri Paesi anglosassoni (che non utilizzano il RAE-REF ma altre modalitàò di valutazione).
che sia un problema di mancanza logica ormai e’ chiaro.
Per quanto riguarda la RAE/REF consiglio la lettura del libro di Donald Gillies http://www.collegepublications.co.uk/other/?00009
Caro Francesco Sylos Labini, conoscevo già quel libro. Credo sia inevitabile constatare che qualunque sistema riguardante la vita delle Università – dal reclutamento, alla valutazione della ricerca, agli approcci didattici seguiti o incoraggiati – avrà sempre i suoi critici, in tutti i Paesi. Nella misura in cui aiuta a ripensare l’ esistente ed a far percepire l’ esigenza di migliorare, la critica svolge una funzione importante. Molti in UK criticano il REF, così come molti in Italia criticano i meccanismi di reclutamento introdotti dalla legge 240/2010..e naturalmente le critiche possono essere anche incrociate (vari commentatori italiani criticano il REF, mentre alcuni miei ex colleghi in Inghilterra, così come altri accademici che conosco in vari Paesi, ritengono completamente insensate l’ ASN e l’ intera impalcatura della legge Gelmini di cui hanno letto, etc..). Tutte le mie riflessioni partivano comunque da due dati: i continui allarmi lanciati in Italia, nel corso del tempo e fino alle ultime “esternazioni” di esponenti politici, circa la “fuga dei cervelli” (della quale sono stati effettuati anche tentativi di stimare i danni in termini economici), e la constatazione che l’ Italia é un Paese “donatore” di “cervelli”, la Gran Bretagna un Paese “ricevente”, come anche gli Stati Uniti e, negli ultimi anni, la Germania ed altri Paesi.
SUL RECLUTAMENTO
Non condivido le proposte nel breve.
L’idoneita’ a numero programmato e’ di fatto un concorso nazionale mascherato, ses si ritiene che questa deve essere la strada meglio prenderla direttamente. I vecchi concorsi nazionali avevano tanti difetti ma anche qualche pregio. Le scelte a meta’ sono le peggiori.
Prevedere che i criteri minimi di qualificazione scientifica siano fatti dal CUN e’ quasi un ossimoro.
Il CUN infatti non e’ un organo di scienza ma di politica, i suoi membri sono eletti e non selezionati per qualita’ scientifica, per cui finirebbero per essere l’espressione dei gruppi di potere dominanti.
I concorsi locali con commissioni sorteggiate di docenti non appartenenti all’ ateneo a cosa servono? Se non si vuole attribuire un potere decisionale alle sedi, tanto vale non farli per niente.
Costa meno fare i vecchi concorsi nazionali che fare due mezzi concorsi nazionali mascherati.
Spiegatemi poi come fa un dipartimento a fare un minimo di politica scientifica se non ha diritto di parola su chi recluta.
Separare poi le chiamate per progressioni di carriera dal reclutamento
significa svuotare il secondo, poiche’ con il tappo esistente di ricercatori in attesa di promozione, le universita’ non potrebbero fare altro. Quanto poi alla istituzione del III livello mi pare francamente una proposta non realistica.
Non mi pare sia questo il modo di risolvere la contraddizione tra la necessita’ di promuovere gli attuali ricercatori e dare avvio alle tenure tracks di tipo B.
Mi pare che sia invece necessario risolvere in modo definitivo il problema degli attuali ricercatori con un opportuno provvedimento di legge.
Mi domando poi se un numero elevato di professori di prima fascia (con una percentuale troppo alta di persone di bassa produttivita’ scientifico) sia ancora sopportabile dal nostro paese.
“L’idoneita’ a numero programmato e’ di fatto un concorso nazionale mascherato, ses si ritiene che questa deve essere la strada meglio prenderla direttamente. I vecchi concorsi nazionali avevano tanti difetti ma anche qualche pregio. Le scelte a meta’ sono le peggiori.”
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I vecchi concorsi nazionali dovevano selezionare N idonei per N sedi e pertanto già allora esisteva il problema dei candidati locali, che sono sempre stati una delle cause principali (se non la causa principale) di esiti poco conformi al merito (per accontentare le sedi si finisce per bocciare qualcuno che sarebbe più meritevole). Le abilitazioni a numero programmato (possibilmente in base a previsioni di pensionamento e turn-over) mettono la commissione nazionale nella condizione di poter lavorare riducendo al minimo le pressioni da parte delle sedi. Il compito è solo selezionare i migliori. La loro collocazione futura esula da questa fase e non inquina i criteri di giudizio. Sono i vecchi concorsi nazionali a costituire una scelta a metà: dovevano selezionare i migliori ma allo stesso tempo c’era il problema di non scontentare le sedi locali che, a torto o a ragione, desideravano promuovere qualche interno. Evitare le scelte a metà significa proprio separare l’attribuzione dell’idoneità (puro merito) dalla copertura dei posti (un candidato potrebbe essere interessato solo a certi atenei e non ad altri). Nella fase di copertura dei posti, gli abilitati concorrono solo nelle sedi di loro interesse.
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“Prevedere che i criteri minimi di qualificazione scientifica siano fatti dal CUN e’ quasi un ossimoro.
Il CUN infatti non e’ un organo di scienza ma di politica, i suoi membri sono eletti e non selezionati per qualita’ scientifica, per cui finirebbero per essere l’espressione dei gruppi di potere dominanti.”
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Il fallimento del “commissariamento” da parte dell’ANVUR è sotto gli occhi di tutti. Il ruolo delle società scientifiche, interpellate da ANVUR (in modo poco trasparente) è quanto di meno regolare ci possa essere. Infatti, la legge non assegn alle società scientifiche nessun compito istituzionale e l’adesione dei docenti è su base puramente volontaria. L’unico organo che garantisce una rappresentatività regolata in termini istituzionali è il CUN. Impossibile elaborare criteri sensati senza dialogo trasparente con chi appartiene ai settori scientifici e l’organo rappresentativo ufficiale è l’interfaccia più adeguata. È anche chiaro che proprio la trasparenza democratica è la miglior garanzia che siano evitati criteri che favoriscono gruppi dominanti (l’esempio più facile da capire sarebbe la scelta di riviste di fascia A tutte appartenenti ad un particolare orientamento scientifico o politico). Se poi si ragiona sui docuemnti già prodotti dai due organismi, non c’è dubbio i documenti CUN relativi ai criteri, pur perfettibili, denotano una maggior consapevolezza metodologica rispetto all’obbrobrio partorito da ANVUR.
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“I concorsi locali con commissioni sorteggiate di docenti non appartenenti all’ ateneo a cosa servono? Se non si vuole attribuire un potere decisionale alle sedi, tanto vale non farli per niente.”
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Sono anni che si denunciano i concorsi farsa in cui il vincitore sarebbe noto in anticipo. Fermo restando che esisterebbe un canale diretto senza concorso per le promozioni degli interni che conseguono l’abilitazione alla fascia superiore, la commissione fatta per 4/5 di esterni è quella che rende più difficile la costituzione di cordate. Una volta bandito un posto riservato ad esterni, l’interesse della sede è che vinca il migliore e questo interesse può essere ben garantito anche da una commissione esterna per 4/5. Dal mio punto di vista, si può lasciare alla sede il potere di non chiamare il vincitore per tutelare un minimo di autonomia.
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“Separare poi le chiamate per progressioni di carriera dal reclutamento significa svuotare il secondo, poiche’ con il tappo esistente di ricercatori in attesa di promozione, le universita’ non potrebbero fare altro.”
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Non è vero perché è prevista una quota garantita di concorsi riservati ad esterni. Questa quota esiste già nella L. 240/2010 e nella nostra proposta verrebbe anche incrementata. Non esiste pertanto pericolo che la spinta alle promozioni interne blocchi il reclutamento. Inoltre, l’abilitazione a numero programmato evita un’inflazione di interni abilitati in attesa di promozione.
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“Quanto poi alla istituzione del III livello mi pare francamente una proposta non realistica. Non mi pare sia questo il modo di risolvere la contraddizione tra la necessita’ di promuovere gli attuali ricercatori e dare avvio alle tenure tracks di tipo B.”
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In realtà è il modo migliore e forse l’unico per evitare una micidiale guerra tra precari e RTI per le seguenti ragioni:
1. gli RTI non sarebbero più ad esaurimento;
2. sparirebbe il fenomeno dello “scavalcamento” degli RTI da parte di chi viene reclutato come RTD di tipo B;
3. si separa il problema del reclutamento iniziale da quello delle aspirazioni di carriera degli RTI già in servizio: si può ripristinare un flusso ordinato di nuovi ingressi e di progressioni alle fasce superiori senza subire pressioni da una sacca ad esaurimento.
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“Mi pare che sia invece necessario risolvere in modo definitivo il problema degli attuali ricercatori con un opportuno provvedimento di legge. ”
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Non vedo come provvedimenti di legge (ope legis?) possano essere accettati a livello politico e nemmeno da parte dei precari.
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“Mi domando poi se un numero elevato di professori di prima fascia (con una percentuale troppo alta di persone di bassa produttivita’ scientifico) sia ancora sopportabile dal nostro paese.”
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La guerra intestina tra precari ed RTI e tra tutti questi e i PA va evitata. In un sistema sano, deve esserci un equilibrato ricambio generazionale che garantisce nuovi ingressi che compensano i pensionamenti e scorrimenti tali da garantire una corretta proporzione tra le fasce. Nella 382/80 le “dotazioni organiche” erano 18.000 per RTI, 15.000 per PA e 15.000 per PO (la struttura “a cilindro”). Attenzione che ridurre all’osso i PO, oltre che penalizzare i PA finisce per rendere sempre più verticistici gli atenei. Per quanto riguarda la produttività scientifica degli ordinari, in assenza di dati, l’assunzione di bassa produttività scientifica appare un’illazione in attesa di riscontro. Si tenga conto che le mediane ANVUR, calcolate su dati caricati su base volontaria, sono assai poco affidabili. In alcuni settori è risultato evidente che la mediana dell’età accademica dei PO era troppo bassa, sintomo del mancato caricamento delle pubblicazioni meno recenti.
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