Diamo la parola ai dati
Alberto Bisin e Alessandro De Nicola hanno pubblicato su Repubblica un catalogo di possibili e auspicabili tagli alla spesa pubblica. In tale contesto, menzionano anche l’università italiana, lamentandone scarsa efficienza ed auspicando maggiore competizione come panacea per migliorare la qualità e risparmiare denaro.
Una terapia efficace presuppone una diagnosi corretta. Pertanto, proviamo a sottoporre alla verifica dei fatti alcune affermazioni di Bisin e De Nicola per capire se le loro raccomandazioni si basano su una diagnosi riscontrata dai fatti.
È vero che l’università italiana produce poca ricerca?
Bisin e De Nicola scrivono:
“L’università continua a produrre … , anche se con alcuni distinguo, poca ricerca (Roberto Perotti docet)“
Nel periodo 1996-2010, l’Italia è ottava al mondo come numero di pubblicazioni scientifiche e settima come numero di citazioni ricevute, si veda per esempio la seguente classifica di SCImago basata sul database Scopus.
Se si considera che nella classifica del PIL 2010 l’Italia occupa la decima posizione, non si può dire che l’Italia produca poca ricerca. Se si restringe la finestra di osservazione agli anni recenti (per esempio il 2010), la posizione dell’Italia non cambia, a parte il sorpasso da parte della Cina per quanto riguarda le citazioni. Il buon livello degli atenei italiani in termini di citazioni è confermato anche dalla comparazione internazionale dei loro “impatti normalizzati” effettuata da SCImago (The research impact of National Higher education Systems), sulla base dei dati Scopus riportati nel World Report SIR 2010. Infatti, come già discusso in un precedente articolo, tutti gli atenei italiani tranne uno mostrano un impatto normalizzato superiore alla media mondiale.
Forse Bisin e De Nicola intendono dire che l’università produce poca ricerca in rapporto alle risorse impegnate. Tuttavia, anche in questo caso vengono smentiti dai fatti, come mostrato dai seguenti grafici tratti da un rapporto commissionato dal governo britannico (International Comparative Performance of the UK Research Base 2011, Fig. 6.2, pag. 65, Fig. 6.4, pag. 66).
L’efficienza viene calcolata dividendo l’output scientifico (articoli o citazioni) per la spesa in ricerca e sviluppo nel settore accademico (Higher education Expenditure on R&D – HERD). I grafici mostrano in modo chiaro che la ricerca universitaria italiana è più efficiente di quella francese, tedesca e giapponese sia come articoli prodotti che come citazioni ricevute.
Bisin e De Nicola richiamano come fonte Roberto Perotti (L’università truccata, Einaudi 2008), il quale nel confronto tra paesi (Capitolo 3.2.b, pp. 31-32) dichiara che “l’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale“. Mettendo da parte tutti gli altri indicatori bibliometrici (numero di articoli e di citazioni, h-index nazionale, quota di articoli ad alto impatto), unanimi nel porre l’Italia al settimo-ottavo posto mondiale, Perotti si basa su un solo indicatore, il cosiddetto fattore di impatto standardizzato, che è una misura normalizzata del numero di citazioni medie per articolo. Classificare le nazioni in base al numero medio di citazioni per articolo appare una scelta capziosa per diverse ragioni. In particolare, questo indicatore, non consente comparazioni sensate tra nazioni di diverse dimensioni ed è, pertanto, inadatto alla compilazione di classifiche. Per esempio, una veloce interrogazione di SCImago in data 13/04/12 mostra che la classifica 1996-2010 metterebbe al primo posto il Territorio Britannico dell’Oceano Indiano (costituito da sei atolli dell’arcipelago Chagos) seguito dalle Bermuda.
Ciò nonostante, proviamo a stare al gioco di Perotti e, per evitare di dover competere con le Isole Fær Øer, la Guinea-Bissau e gli atolli di Tokelau, esaminiamo i dati forniti da SCImago restringendo l’attenzione alle prime 20 nazioni per numero citazioni nell’anno 2010.
Se consideriamo il numero di citazioni per articolo, in testa troviamo Svizzera, Danimarca, Olanda, Svezia, Belgio e Austria, nazioni relativamente piccole, ma che investono con convinzione in formazione e ricerca, seguite da Regno Unito, Germania, Stati Uniti e Canada. A non grande distanza, vengono Italia e Australia, che precedono la Francia e le restanti nazioni. Se consideriamo gli (scarsi) investimenti italiani in formazione e ricerca (come testimoniato dalle statistiche OCSE riportate nel seguito) si tratta di un risultato sorprendentemente buono.
A conferma della capziosità delle scelte di Perotti, che senso avrebbe lamentarsi che l’Italia stia al 12° posto in una classifica che assegna il primato mondiale a Danimarca e Svizzera relegando gli Stati Uniti al nono posto? Il lettore di Perotti non arriva a farsi questa domanda, perché l’autore evita di mostrare sia i numeri che le classifiche complete, limitandosi a fornire la posizione in classifica dell’Italia e una selezione di alcuni paesi che la seguono [1]. In particolare, Perotti omette di dire che secondo D. King (“The scientific impact of nations”, Nature 2004, Tabella 2), l’Italia è alla pari con la Francia, una nazione di dimensioni simili. È anche interessante notare che, tra i paesi che stanno dietro l’Italia, vengono menzionate solo le seguenti nazioni europee: Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Polonia. Perotti dimentica di informare il suoi lettori che nella Tabella 2 di King, dietro l’Italia finiscono anche Australia, Israele e Giappone e che il distacco dell’Italia da Canada e Finlandia è tutt’altro che abissale (1.12 contro 1.18).
Infine, Perotti ignora del tutto anche un altro indicatore, sicuramente più significativo del fattore di impatto standardizzato, ovvero come si ripartiscono tra le nazioni le pubblicazioni ad alto impatto scientifico, identificate come l’1% della produzione mondiale che riceve più citazioni. Sempre secondo King, nel periodo 1997-2001 l’Italia si colloca al settimo posto con il 4.31%.
Conclusione: affermare che l’università italiana produce poca ricerca è falso in termini di produzione assoluta ed ancor di più in rapporto alle (poche) risorse di cui dispone.
[1] “… lo stesso articolo di Nature mostrava l’Italia al tredicesimo posto; in Europa era davanti solo a Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Polonia” scrive Perotti a pag. 51 del suo libro. In realtà, nella Tabella 2 dell’articolo citato, l’Italia ha lo stesso punteggio della Francia che la precede in ordine alfabetico e pertanto la sua posizione sarebbe dodicesima-tredicesima a pari merito.
Università sprecona oppure sottofinanziata?
Bisin e De Nicola scrivono:
E per i settori come la scuola, l’università e la sanità a quando l’iniezione di sostanziose dosi di concorrenza e merito? Perché pagare allo stesso modo il professore (o il medico) bravo e volenteroso e quello incapace e pigro? … La competizione salva denaro.
Bisin e De Nicola sono convinti che ci siano margini per risparmiare denaro nel settore dell’università. Una convinzione del tutto logica se l’università italiana fosse sovrafinanziata e sprecona come sostenuto da Roberto Perotti:
la spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16 027 dollari PPP, la più alta del mondo dopo USA, Svizzera e Svezia
R. Perotti, L’università truccata, Einaudi 2008, pag. 38
Per capire cosa c’è di vero, controlliamo cosa dicono le statistiche OCSE esaminando due grafici tratti dall’edizione 2011 del rapporto “OCSE Education at a Glance”.
Il primo grafico (Chart B2.2, pag. 227) riporta la spesa per l’università, espressa come percentuale del PIL. Si vede che gli USA sono la nazione che spende di più mentre l’Italia si trova ad essere 31-esima su 34 nazioni considerate con una spesa pari al 65% della media OCSE. Peggio di noi solo Repubblica Slovacca, Ungheria e Brasile. Per 28 nazioni del grafico, la spesa è disaggregata in tre componenti: istruzione in senso stretto, interventi di sostegno agli studenti (trasporti, vitto, alloggi) e ricerca e sviluppo. Se si considerano le spese di istruzione in senso stretto, l’Italia è 26-esima su 28 nazioni (Table B6.1, pag. 276).
Difficile pensare che siano possibili grandi risparmi senza precipitare nel terzo mondo. Tuttavia, dato che la percentuale di laureati tra i giovani italiani (20% nella fascia 25-34 anni) è bassa rispetto alla media OCSE (pari al 37% nella stessa fascia di età, vedi Chart A1.1 pag. 40), qualcuno potrebbe obiettare che la bassa spesa non esclude possibili sprechi, tesi effettivamente sostenuta da Roberto Perotti nel suo libro L’università truccata, a costo di ignorare alcune statistiche OCSE e di “ritoccarne” altre. Esaminiamo direttamente la statistica OCSE a suo tempo ignorata da Roberto Perotti.
La figura (Chart B1.4, pag. 212) riporta la spesa cumulativa per studente lungo la durata media degli studi universitari (cumulative expenditure per student by educational institutions over the average duration of tertiary studies). L’Italia è 16-esima su 25 nazioni, con una spesa inferiore al 75% della media OCSE. Da notare che, come osservato dall’OCSE, la spesa cumulativa per studente lungo la durata media degli studi rimane la stessa a prescindere dalla velocità nella progressione degli studi ed ha quindi il pregio di non richiedere correzioni per il fenomeno degli studenti fuori corso e inattivi.
Roberto Perotti nel suo libro non riporta questa statistica OCSE e preferisce rivolgere le sue attenzioni alla spesa annuale per studente, un indicatore che è influenzato dalla durata degli studi ed il cui uso comparativo è esplicitamente sconsigliato [2] nell’edizione 2007 di OCSE Education at a Glance, utilizzata come fonte da Perotti. Il quale prosegue con un rocambolesco raddoppio della spesa italiana, giustificato in base ad una compensazione “fai-da-te” dei fuori corso effettuata solo per l’Italia. Possibile che a Perotti fossero sfuggite le spiegazioni, invero assai chiare, di Education at a Glance?
Conclusione: È difficile, se non impossibile, immaginare ulteriori risparmi, a parità di prestazioni, per l’università italiana che è una delle meno finanziate e con un costo per studente decisamente inferiore alla media OCSE. Da notare che questi dati si riferiscono al 2008 e non tengono conto dei tagli operati dal governo Berlusconi.
[2] “Both the typical duration and the intensity of tertiary education vary among OECD countries. Therefore, the differences among countries in annual expenditure on educational services per student (as shown in Chart B1.2) do not necessarily reflect the variation in the total cost of educating the typical tertiary student.” OCSE Education at a Glance 2007, pag. 178. Tale avvertimento continua ad essere presente anche nelle edizioni successive, si veda per esempio pag. 211 di Education at a Glance 2011.
Più fatti e meno propaganda
Le affermazioni di Bisin e De Nicola sull’università che abbiamo sottoposto a verifica non trovano riscontro nei fatti. Lasciamo ad altri verificare se il resto del loro articolo sia più aderente alla realtà.
Nota: Elaborare una valutazione statistica della consistenza numerica dei “concorsi farsa” (non è in dubbio la loro esistenza e deprecabilità, ma la diffusione del fenomeno) non è banale. Per le scienze “dure”, coperte dai database bibliometrici, si potrebbero esaminare gli indicatori bibliometrici dei vincitori. Non essendo possibile raccogliere dati completi in poche ore, lasciamo ad una prossima indagine la verifica di quanto risponda al vero l’affermazione di Bisin e De Nicola sulla “disarmante regolarità” dei concorsi farsa.
Tra le molte peculiarità strutturali dei sistemi Università-ricerca che rendono problematiche le comparazioni, ne segnalo una che è scarsamente menzionata dai nostri giornalanti: la carenza, nei Paesi anglosassoni, di Enti di ricerca distinti dalle Università (a parte pochi “laboratori nazionali”) che invece in altri Paesi eseguono significative porzioni di attività (es. CNRS, INSERM, CEA, … in Francia; Max Planck, Fraunhofer,… in Germania; CNR, INFN, … in Italia).
Pertanto nel computo dei “prodotti della ricerca” i sistemi universitari non anglosassoni non possono vedersi attribuiti quei prodotti (e i relativi dati bibliometrici) che sono invece ottenuti dagli Enti di ricerca prsenti nel proprio Paese – e che fanno figurare ben più dignitosamente i rispettivi “sistemi di ricerca nazionali”, come documentato qui sopra.
In effetti, le comparazioni fini richiedono una certa attenzione. Per fare un esempio, in Francia la spesa R&D “accademica” (HERD: Higher education Expenditure in R&D) include anche il CNRS, mentre in Italia la spesa R&D del CNR ricade sotto il cosiddetto GOVERD (Governmend Expenditure in R&D).
OCSE Main Science and Technology Indicators 2010, pag. 20
http://www.oecd.org/dataoecd/52/43/43143328.pdf
Come conseguenza, è possibile che sia stata sottostimata la produttività dell’università francese mostrata nei due grafici dell’International Comparative Performance of the UK Research Base 2011 (dato che l’HERD al denominatore comprende anche la quota per il CNRS, bisognerebbe verificare se il numero di pubblicazioni al numeratore include anche quelle del CNRS). In ogni caso, questi aggiustamenti non modificherebbero il punto principale: a dispetto dei luoghi comuni, la produttività scientifica dell’università italiana è più che ragionevole quando viene sottoposta ad un raffronto internazionale.
caro Giuseppe,
permettimi una piccola considerazione di strategia comunicativa in merito al tuo articolo, che ho trovato eccellente come di consueto. Temo che Bisin e De Nicola (o Alesina e Giavazzi il giorno prima sul Corriere della Sera) si propongano di essere persuasivi presso il largo pubblico; e non veridici. Grafici e contrografici o argomenti di inoppugnabile esattezza tecnica e “dati” cui dare la parola finiscono per trovarsi ammutoliti nella contesa politica, specie se rozza e demagogica.
Si vuole estendere l’articolo 18 alla pubblica amministrazione. Poiché però l’università, al pari della magistratura, risulterebbe protetta da eventuali abolizioni dell’attuale norma sui licenziamenti, si pensa di procedere con solerzia alla trasformazione dell’ANVUR in un’agenzia di valutazione individuale. Cosa che a mio parere neppure è da riprovare: purché siano adeguati e sensibili gli indicatori bibliometrici etc. etc.
ps. un breve corsivo sull’avvio di una campagna stampa che si preannuncia formidabile @ http://micheledantini.micheledantini.com/2012/04/12/lanvur-e-il-merito-2-verso-una-valutazione-individuale/
Grazie del commmento. Bisin e De Nicola a sostegno delle loro affermazioni citano (esplicitamente o meno) le “analisi” di Perotti. È indispensabile chiarire se queste “analisi” siano affidabili. Perotti ha usato grafici e classifiche e va discusso, prima di tutto, su quel piano. In una contesa rozza e demagogica avremmo comunque la peggio. Le analisi di Roars vogliono essere trasparenti (cerchiamo di utilizzare fonti consultabili da tutti come SCImago) e a disposizione di tutti, soprattutto di chi vorrà contribuire al dibattito pubblico presso il largo pubblico basandosi su evidenze scientifiche. Insomma, cerchiamo di rendere un servizio che possa essere un punto di partenza più che di arrivo.
… servizo prezioso, ci mancherebbe; e argomentato con buone ragioni. ma dall’altra parte stanno non solo “idee”, dati o convinzioni, ma quella passione opaca e commista che si chiama “ideologia”…
Gentile De Nicolao, nonostante il tono non sia piacevole (soprattutto alcuni scadimenti in rosso), la ringrazio per aver portato tutto sommato alzato il livello della discussione generale – sui dati si puo’ discutere. Naturalmente per farlo ho bisogno di un po’ di tempo, non sono un esperto sull’universita’ italiana. Mi lasci dire una cosa, senza troppa vena polemica: lei e’ d’accordo che l’universita’ italiana perde talenti e non ne attrae dal”estero (in maniera paragonabile a quella dei paesi anglosassoni ma anche di Francia e Spagna o dei paesi del Nord come la Svezia)? Credo che i dati su questo siano abbastanza incontrovertibili. Lei e’ d’accordo che l’universita’ italiana e’ (piu’ di altre) incrostata da baronie e da un sistema di reclutamento corrotto da decenni? Anche su questo… Allora, se l’universita’ italiana non attrae nessuno, ha un sistema di reclutamento corrotto, ed e’ sottofinanziata – ma ciononostante produce ottima ricerca in qualita;’ e quantita’, abbiamo un problema (a meno di argomentare che siamo esseri superiori, o almeno quelli che sono rimasti). Con questo non voglio certo argomentare che misure indirette, come quelle che suggerisco possano soppiantare quelle dirette che lei discute nel suo articolo, assolutamente. L’analisi e’ bene sia fatta il piu’ possibile sulle misure dirette. Ma lei davvero non ha dubbi? L’universita’ italiana funziona a meraviglia? Comunque, come dicevo, mi studiero’ i dati per bene e le rispondero’, se avra’ la cortesia di accettare il dibattito.
Cordiali saluti
Caro Bisin, la possibilità di essere informati su quanto dice De Nicolao ci sono, a iosa: basta guardarsi un po’ intorno. Perotti è stato sbugiardato proprio sulle cose in cui “docet” da parecchie persone in numerosi articoli e scritti. Mi perdoni l’autocitazione, ma nel mio Maledetta università (Di Girolamo editore 2011 – http://web.me.com/coniglionefrancesco/Sito/Maledetta_Università.html) c’è tutto un paragrafo dedicato ai dati truccati di Perotti. Altre notizie e informazioni le può trovare nel mio sito L’Italia che affonda (http://web.me.com/coniglionefrancesco/Italia_che_affonda/Home.html), su queste cose hanno scritto numerosi articoli anche i collaboratori di ROARS ecc. Da chi scrive su un giornale così influente come la Repubblica ci si aspetterebbe che, prima di sposare incautamente le posizioni di chicchessia – specie se pretendono di abbattere “miti italiani sull’università” – ci si guardasse un po’ in giro per verificare e controllare, specie se il campo non è il proprio. Poi nessuno di noi di ROARS nega che l’università italiana abbia dei problemi enormi – e alcuni di questi li elenca anche lei – ma il fatto è che sulla base di una disinformazione di massa alla Perotti sulle reali difficoltà dell’università italiana si è imbastita una politica che ha generato una riforma che ne aggraverà i mali, senza risolverne alcuno, e si è cominciato a intervenire là dove ce n’era meno bisogno, cioè dalla valutazione della qualità della ricerca dove – con tutte le cautele dovute -i ranking internazionali ci maltrattano meno (veda anche quello dell’HEEACT o la comparazione degli otto ranking più importanti contenuto in una tabella sul sito ROARS – https://www.roars.it/?p=1613). Ma qui il discorso rischia di farsi lungo.
Gentile Bisin, prendo atto che ha fatto affermazioni perentorie sull’università in un articolo apparso sulla prima pagina di Repubblica non essendo “un esperto sull’università italiana” e che ha bisogno di un po’ di tempo per discutere sui dati. La produttività scientifica dell’università italiana è un tema caldo da anni ed è ormai notorio che alcune delle argomentazioni di Roberto Perotti sono quanto meno controverse. Io stesso ne avevo discusso per esteso sul blog noiseFromAmeriKa di cui lei è uno dei fondatori.
Per quanto mi riguarda, cerco di scrivere di cose che conosco portando, ove possibile, riscontri alle mie affermazioni. Non per niente, nel mio articolo ho rimandato la discussione sulla ““disarmante regolarità” dei “concorsi farsa” al momento in cui riusciremo a raccogliere qualche dato. Anzi, coglierei l’occasione per chiedere di tradurre numericamente il significato di “disarmante regolarità”: di quale percentuale stiamo parlando? Tutti i concorsi? Il 75%? Il 50% Oppure meno?
Che l’Italia stia perdendo talenti, che ci siano gruppi di potere ed anche concorsi truccati è una banale evidenza. Meno banale è analizzare le cause e proporre rimedi efficaci. Non sono così ingenuo (o presuntuoso) da dare risposte in poche righe. Se dovessi occuparmene a tempo pieno, comincerei a leggere la bibliografia, e cercare dati e a fare confronti internazionali. Se possibile, eviterei di fare affermazioni perentorie su quotidiani a larga diffusione nazionale senza essere in grado di difenderle in un dibattito.
Viceversa, i dati statistici di cui ho conoscenza diretta mi permettono di affermare che alcune tesi sulla produttività scientifica italiana e sul costo dell’università non reggono.
Colgo l’occasione per sottolineare l’importanza che il libro “L’università truccata” ha avuto nel dibattito pubblico. Infatti, ha contribuito in modo decisivo ad “avvelenare i pozzi” delle statistiche internazionali. Perotti ha ribaltato o, nella migliore delle ipotesi, reso controversi i dati OCSE e quelli bibliometrici presso politici, giornalisti e persino buona parte dell’accademia. In sintesi:
– i dati OCSE dicono che l’Italia spende poco …. ma (Perotti docet) non tengono conto dei fuori corso;
– Pubblicazioni e citazioni scientifiche dicono che l’Italia è settima-ottava … ma (Perotti docet) la qualità media degli articoli è bassa.
Nel mio articolo ho mostrato (ma non sono il primo a farlo, vedi l’ottimo commento di Francesco Coniglione) perché queste “correzioni di Perotti” non reggono. Tuttavia, aver seminato confusione rende difficilissimo ristabilire la verità presso l’opinione pubblica perché spunterà sempre chi dice “ma Perotti ha mostrato che …”. Insomma, questo avvelenamento dei pozzi non solo ha fornito munizioni pesanti a chi accusa l’università di essere scientificamanete inadeguata e costosa, ma ha anche reso più difficile appellarsi ad un esame imparziale delle statistiche internazionali. Tutto ciò ha avuto pesanti ripercussioni sugli investimenti in formazione e ricerca, sulle prospettive di carriera dei giovani e sul futuro dell’Italia, lanciata a grandi passi verso lo smantellamento di una buona fetta del suo sistema universitario.
Formulo una congettura: Perotti, novello apprendista stregone, non immaginava fino a dove sarebbero giunti gli effetti dell’avvelenamento dei pozzi. Se non pentito, è quanto meno consapevole che non è il caso di andare fiero di tutto quello che sta scritto nel Capitolo 3 del suo libro. Infatti, anche quando le “correzioni di Perotti” vengono messe pesantemente in discussione, non interviene più per difenderle, sperando che, prima o poi, si perda memoria dei suoi giochi di prestigio. Dopo tutto, ha una (ottima) reputazione scientifica da tutelare. Purtroppo per lui, di tanto in tanto, qualche collega economista cita Perotti a sostegno delle proprie tesi e si attira i fulmini di chi ha decifrato da tempo quei giochi di prestigio. Se la mia congettura è giusta, nei prossimi anni Perotti verrà citato sempre meno, proprio dai suoi colleghi, preferendosi l’oblio al rischio di un’imbarazzante ritrattazione. Che sia il caso di ringraziare Bisin e De Nicola per aver riportato all’ordine del giorno le oramai famose “correzioni di Perotti”?
Che abbiamo un problema è indiscutibile, e molti di noi lo sostengono da anni, anche prima che diventasse di moda farlo. Tuttavia, mi pare che la diagnosi non sia ancora del tutto chiara, e quindi sarebbe meglio una certa cautela nel prescrivere terapie che, in alcuni casi, potrebbero uccidere il malato invece di curarlo. Faccio un esempio che non è stato ancora sollevato. Si menziona sempre il dato relativo alla scarsa attrattiva delle università italiane per gli studiosi stranieri come se fosse un fatto bruto, e non un fenomeno sociale le cui cause andrebbero approfondite, magari con un po’ di sana ricerca empirica. Avendo fatto a mia volta l’esperienza di lavorare in un altro paese, e conoscendo diverse persone – italiane e non – che l’hanno fatta, mi viene in mente che a essere poco attraente potrebbe essere anche il paese, e non solo l’università. L’Italia non è accogliente per uno straniero che voglia vivere per un lungo periodo qui. Basti pensare al problema di dove mandare i figli a scuola. Le scuole che insegnano in inglese sono poche, credo presenti in pochissime città, e piuttosto costose. Ciò vuol dire che uno studioso che ha figli in età scolare probabilmente preferirà – a parità di altre condizioni – un paese che offra un insegnamento pubblico in inglese oppure in una lingua più appetibile dal punto di vista della formazione del bambino (francese e tedesco sono due esempi che mi vengono in mente). Aggiungo, a scanso equivoci, che non voglio suggerire il passaggio all’inglese come lingua di insegnamento per le scuole pubbliche italiane. Mi limito a suggerire che la relativa non appetibilità dell’Italia come paese di residenza per accademici può avere diverse spiegazioni, che non hanno nulla a che fare con la qualità della ricerca (che per altro non è affatto scarsa).
Sul fatto di attirare studenti esteri o meno ho sempre pensato che un fattore fondamentale fosse il fatto che maggior parte dei corsi in Italia siano impartiti in Italiano e che tale lingua figuri tra le meno conosciute al mondo.
Basta dare un’occhiata a wikipedia ( http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_languages_by_total_number_of_speakers ) per vedere come l’Italiano non figuri tra le 10 lingue più parlate.
Visto che si parla Italiano quasi esclusivamente in Italia, con un totale di persone che parlano tale lingua che si aggira intorno a 62Mln, mi pare difficile poter confrontarci con paesi di lingua inglese ( 500 Mln circa ), spagnola ( oltre 300 Mln ), francese ( 270 Mln ), tedesca ( oltre 100Mln ).
Potrebbe essere interessante regredire il numero degli studenti attratti in patria sul numero di coloro che parlano una certa data lingua.
Volentieri acceteremo un suo contributo.
Non ho ancora letto l’articolo di Bisin e De Nicola e mi riservo di commentare dopo averlo letto. Mi sembra però che il problema di una “spending review” applicata alle università c’entri poco con il livello della ricerca scientifica italiana nei paragoni internazionali. L’eccellenza nella ricerca non giustifica gli sprechi. Per ora, comunque, solo un commento sulla possibilità di attrarre docenti dall’estero. Due sono i problemi principali che rendono difficile reclutare docenti dall’estero. Il primo è il livello molto basso degli stipendi iniziali (che si raddoppiano tuttavia per effetto della anzianità). Gli stipendi iniziali di prima fascia, non consentono ad una famiglia monoreddito in una città come Roma di manenere un tenore di vita “borghese”. Si fanno presto i conti, dei 2.500 euro mensili netti almeno 1.500 vanno per affito, riscaldamento e condominio. Con il resto si dovrebbero mantenere 4 persone ad un livello di vita borghese (automobile, vestiti dignitosi, vacanze modeste, ecc.). Non sembra facile. L’altro problema è l’ostilità della burocrazia italiana nei riguardi degli “stranieri”. E’ difficilissimo far riconoscere titoli di studio stranieri, molti impieghi e professioni sono riservati a cittadini italiani (obtorto collo a cittadini comunitari). Ad esempio una specializzazione medica conseguita negli SU non vale in Italia né, credo, può essere riconosciuta. Per riconoscere un titolo accademico bisogna che si trovi il titolo accademico italiano che gli corrisponda. Ad esempio, con il vecchio ordinamento, una persona che aveva un PhD in Economics non poteva ottenere il riconoscimento della laurea in Economia e Commercio, dal momento che gli mancavano gli esami di diritto e di ragioneria. Ma a questo punto gli veniva sbarrato l’accesso anche agli impieghi nei quali non era necessario conoscere né il diritto né la ragioneria (ad esempio l’impiego come ricercatore di Economia Politica). Normalmente chi è reclutato dall’estero ha un coniuge non italiano, che per molti anni non potrà lavorare, perché la cittadinanza viene elargita dopo almeno cinque anni e perché i suoi titoli accademci e professionli non vengono facilmente riconosciuti. Il caso di famiglie “monoreddito” è quindi quello più frequente. Ricordiamo anche che fino al 1999 il Ministero escludeva dai concorsi universitari i cittadini di stati nei quali ad insindacabile ed arbitrario giudizio del direttore generale Domenico Fazio non vigevano condizioni di reciprocità per gli italiani. L’Italia è l’unico paese occidentale che per l’ostilità dei burocrati e la pusillanimità dei “ministri tecnici” (Colombo e Salvini) non ha potuto usufruire dell’esodo degli scienziati dal blocco sovietico dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Per chi riusciva a superare gli ostacoli dell’assunzione potevano rimanere problemi con il “permesso di soggiorno” e quindi la copertura sanitaria. Ricordo il caso di un professore associato di cittadinanza austriaca (prima che l’Austria entrasse nella UE) che non riusciva ad ottenere il permesso di soggiorno perché non riusciva ad esibire un contratto del datore di lavoro… Non bastava un certificato di servizio dell’università in cui era docente. Il Ministero cercò persino di escludere questo docente da un concorso per professore ordinario per una immaginaria questione di mancata reciprocità, nonostante fosse già di ruolo come professore associato. Alla fine fu ammesso al concorso e riuscì vincitore. Aggiungiamo che per anni il ministero rifiutava di ammettere al riconoscimento in Italia i dottorati stranieri conseguiti da cittadini non italiani, nonostante la legge non facesse alcun riferimento alla cittadinanza. Non so se questa assurda prassi sia ancora in vigore. Cosa fare per rendere possibile il reclutamento dall’estero: Primo: raddrizzare la scala degli stipendi, in modo da rendere competitivo lo stipendio iniziale nelle diverse fasce. Secondo: aprire agli stranieri tutte le professioni e gli impieghi con un ragionevole e veloce sistema di riconoscimento di titoli e qualifiche professionali. Terzo: trovare il modo di conferire immediatamente la cittadinanza (se richiesta) al coniuge di un professore universitario italiano. Quarto: abrogare le disposizioni che inutilmente riservano a cittadini italiani (o comunitari) professioni ed impieghi che non toccano interessi nazionali (potrebbe essere ancora richiesta la cittadinanza per l’esercito, il corpo diplomatico e la magistratura).
Mi si perdoni l’intervento, però vorrei commentare qualche elemento riguardante il riconoscimento di titoli di studio e qualifiche professionali.
Per quanto riguarda le posizioni di Professore (PO/PA), non è mai stata necessaria neanche la laurea, in Italia, per accedere a quei concorsi, quindi il problema sta tutto nella classe accademica e nel suo desiderio più o meno sincero di “fare spazio” al merito, indipendentemente dalla nazionalità. Poiché mi pare che il problema si ponga anche per gli italiani (cioè per candidati “fuori dai giochi”) eviterei di chiamare in cause forze burocratiche esterne (all’Università stessa). Vero è che bisogna sapere l’italiano, per insegnare in Italia – ignoro se il Politecnico di Milano potrà reclutare per il futuro dei docenti che non sanno l’Italiano, se intende riservare a loro dei corsi in Inglese per le lauree magistrali, ma questo è un discorso a parte. Personalmente non mi entusiasmo per un possibile monolinguismo inglese nell’Università Italiana.
Per quanto riguarda post-doc e assegnisti, il problema sta – se mi si consente – sempre nello stesso “luogo”, e non nel riconoscimento dei titoli, che è affidato alle stesse università ai fini del concorso: ho convissuto per anni in un gruppo di ricerca (in una Università del Sud Italia) che ha avuto un continuo afflusso di post-doc/assegnisti Russi, Ucraini, Giapponesi. Non che mancassero dei problemi burocratici, ma non ostavano alla fattibilità, se realmente voluta.
Più in generale, se il Governo avesse preparato dei dati e delle informazioni sul riconoscimento di titoli e sulle procedure concorsuali nella P.A., anzichè improvvisare discussioni cavillose o ideologiche, e impiantare generici e sballati “sondaggi popolari”, avrebbe reso un servizio alla causa della risoluzione “tecnica” dei problemi e alla discussione politico-giornalistica.
In realtà il quadro giuridico-internazionale dei riconoscimenti è sufficientemente chiaro, e nella G.U. si trovano quasi ogni giorno badilate di decreti di riconscimento di titoli, per quei casi dove l’Autorità Responsabile è un qualche Ministero. Invito ad aprire qualche numero a caso
http://www.gazzettaufficiale.it/guridb/dispatcher?service=1&task=elenco60GuFree
Invito a dismettere la nozione di “equipollenza”, e ad usare quella di “riconoscimento”, che è quella più corretta. Invito anche alla consultazione del sito del CIMEA
http://www.cimea.it/
Credo di non essere stato abbastanza chiaro. Il problema del riconoscimento dei titoli non si è mai posto per gli stranieri reclutati come professore, quello della cittadinanza, o delle “condizioni di reciprocità”, non esiste più dal 1999. Restano invece ambedue i problemi per il coniuge del professore che viene reclutato. Per molti anni mi sono occupato di facilitare il rientro in Italia dei matematici (italiani) che avevano studiato per il PhD all’estero (in maggioranza negli SU) a seguito di un programma di borse di studio promosso dal comitato matematica del CNR e successivamente dall’istituto nazionale di alta matematica. L’ostacolo non superabile al ritorno in Italia era la difficoltà di collocazione professionale del coniuge. Naturalmente erano le ragazze che avevano più difficoltà a trascinare in Italia un marito americano con la prospettiva di fare lo “uomo di casa” per quattro o cinque anni, in attesa di cittadinanza e/o riconoscimento dei titoli professionali. Naturalmente se anche il coniuge era un matematico bravo il problema poteva essere risolto all’interno del mondo accademico a me noto.
Consulterò il sito del CIMEA. Può essere che le mie informazioni siano datate. Certamente per i titoli universitari dell’Unione Europea valgono le direttive comunitarie e in particolare la 36/2005. Può essere che questa direttiva sia ora applicata in buona fede e senza frapporre tropi ostacoli. Ma la mia esperienza (come osservatore) nella commissione incaricata di applicare la precedente direttiva 48/89 era quella di un gruppetto di burocrati che con l’aiuto dei rappresentanti degli ordini professionali cercava di trovare tutti i possibili cavilli per non applicare la direttiva ed il decr. leg. 115 che la recepiva nel nostro ordinamento. Mi riesce comunque nuovo che una qualche forma di riconoscimento professionale sia possibile per titoli di cittadini extracomunitari. Mi sembrava che per loro fosse aperta solo la strada impervia dell’equipollenza, affidata alle singole sedi universitarie.
Scriverò un pezzo sul mio blog, del resto anche questi problemi informativi sono un frutto avvelenato dell’opera di Einaudi, che è riuscito a fare un piccolo disastro con soli due scritti di breve lunghezza (più un articolo del ’23).
La distinzione fra riconoscimento ed equipollenza può avere senso solo per i titoli di studio, in quanto esistono diversi contesti e diverse Amministrazioni in cui essi possono venire richiesti, quale requisito. Per “riconoscimento” intendo la “topologia debole”, in base alla quale l’equivalenza è concessa con riferimento al solo caso oggetto di un certo interesse (es. immatricolazione all’Università, iscrizione a un ciclo successivo, partecipazione a *particolari* concorsi pubblici, ecc.). L'”equipollenza” è una “topologia forte”, secondo la quale si dichiara l’equipollenza con un determinato titolo italiano per la totalità degli effetti giuridici vigenti, o financo non (ancora) vigenti.
Per i titoli professionali non vi può essere luogo a tale distinzione topologica, in quanto per le professioni regolate (quelle non regolate ovviamente non rilevano, qui), l’Autorità Pubblica, se è tenuta a concedere l’autorizzazione per l’esercizio, non la concede “per parti”: o la concede o non la concede.
Vi è casomai il caso particolare delle “lauree abilitanti”, quelle per cui – a gran dispetto di quello che sta scritto nella nostra Costituzione – il titolo professionale viene fatto coincidere con un certo titolo di studio, quindi vi è identificazione nel senso di “coesistenza” di fattispecie nello stesso atto.
Per i titoli accademici (melius: relativi all’istruzione superiore), la normativa vigente è quella fissata dalla Legge 11 luglio 2002, n. 148
http://www.parlamento.it/parlam/leggi/02148l.htm
che ha recepito la “Convenzione di Lisbona” del 1997 (la quale è riferita a Paesi della “Regione Europea” definita però secondo la classificazione UNSCO, che ricomprende anche il Nord America), e che peraltro ne ha esteso l’applicazione ai titoli di istruzione superiore di tutti i Paesi del mondo, abrogando la normativa previgente in materia.
Consiglio anche la lettura completa della Convenzione
http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/QueVoulezVous.asp?CL=ITA&CM=8&NT=165&DF=23/02/2011
A me queste liste di pubblicazioni fanno (sobriamente) sorridere. Lasciamo perdere l’Italia, paese che non conosco.
Prendiamo l’Oman che nel 2010 annovera 779 pubblicazioni, in media due al giorno (venerdi’ islamici compresi). A me personalmente non e’ capitato MAI di vedere una pubblicazione omanita. Tantomeno di leggerla. Forse saranno in arabo o in swaili o forse semplicemente clandestine. Ma ho qualche leggerissimo dubbio che abbiano contribuito ad allargare in modo determinante le frontiere della conoscenza.
E le 82 pubblicazioni afgane, le 13 di Capo Verde (dove nemmeno esiste un’Universita’) da dove salteranno fuori? E le quasi 5000 per l’Arabia Saudita, con un indice medio di citazioni superiore alle pubblicazioni cinesi o indiane (e poco inferiore a quelle coreane) includeranno poemi epici, istruzioni per l’uso dei cellulari o ardite interpretazioni del credo wahabita?
E’ un interrogativo che girerei volentieri ai luminari come il Magnifico Rettore Frati e la sua progenie o Sua Eccellenza il Ministro Profumo che offriranno sicuramente una ponderata o ponderosa spegazione scientifica, come loro si conviene. Magari ne ricaveranno una pubblicazione.
Questi sono i dati di Scopus che è la banca dati, insieme a ISI, standard e riconosciuta a livello internazionale. In genere per i settori scientifici è completa, il problema che ha, come anche ISI, è quella di essere incompleta in molti altri settori. Dunque quello che si trova la dentro è vero a meno di svarioni che in toeria non ci dovrebbero proprio essere. Volendo si può fare una ricerca per vedere chi sono gli autori e a quale istituzione appartengo per levarsi qualsiasi dubbio. La cosa determinate è che uno degli autori di un articolo abbia una affiliazione di una istituzione di un certo paese perché una certa pubblicazione sia conteggiata per qual paese. Comunque faccio notare che nell’articolo non si mette in questione l’affidibilità delle banche dati, che sono le stesse per tutti, ma la modalità di normalizzazione. Quella usata da Perotti fa giungere a risultati ridicoli e per questo si conclude che è una “normalizzazione” da quattro soldi usata per dimostrare una tesi preconcetta.
Mah, basta controllare, non ci vuole nulla:
Dall’Oman una delle ultime pubblicazioni è:
Al-Souti, A., Al-Sabahi, J., Soussi, B., Goddard, S. (2012). The effects of fish oil-enriched diets on growth, feed conversion and fatty acid content of red hybrid tilapia, Oreochromis sp. Food Chemistry 133 (3) , pp. 723-727.
Da Capo Verde (Cape Verde o Cabo Verde):
Pereira, J.N., Simas, A., Rosa, A., Aranha, A., Lino, S., Constantino, E., Monteiro, V., (…), Menezes, G. (2012) Weight-length relationships for 27 demersal fish species caught off the Cape Verde archipelago (eastern North Atlantic). Journal of Applied Ichthyology 28 (1) , pp. 156-159.
Come vede, si tratta di pubblicazioni in Inglese, su riviste scientifiche internazionali. Peraltro, a Cape Verde esistono due università, oltre a istituti come l’INDP – Instituto Nacional de Desenvolvimento das Pescas, Vicente, Cape Verde.
Il senso del mio commento, se non fosse emerso dal tono un po’ scanzonato, era prorpio di mettere in luce che queste liste di pubblicazioni mettono sullo stesso piano lo studio della relazione tra peso e lunghezza dei pesci (compito sicuramente meritorio, ma che a mio avviso puo’ svolgere qualunque pescivendolo, non sei, diconsi sei, esimi ricercatori) con una pubblicazione su Nature o sul Journal of Political Economy.
E quindi i pescivendoli ed i biologici molecolari finiscono tutti allegramente nello stesso calderone, pardon, indicatore di produttivita’ accademica.
Quanto alle Universita’ di Capo Verde basta intendersi sui termini. Del resto in Italia abbiamo le Universita’ di Camerino, della Calabria, della Tuscia. Quindi in analogia, avran ben diritto i capoverdiani a mettere sulla porta di un qualche edificio una targhetta su cui e’ scritto la magica parolina “Universita’” e giocare a fare i professori.
E chi decide se una Università è solo una etichetta sulla porta o una vera Università? O se una pubblicazione su fisheries vale qualcosa oppure no? Solo gli economisti? Il problema della valutazione della ricerca è tutto qui.
Ne’ gli economisti, ne’ i teologi, ne’ i pedagoghi ne’ altri che si sentono ardere di sacro fuoco. La valutazione di istituti di ricerca e di trasmissione del sapere non va fatta seguendo criteri rigidi o dirigisti.
Da un lato saranno gli studenti se venisse loro dato un voucher a decidere dove andare a studiare. Molti sceglieranno l’Universita’ di Capo Verde, ma senza il valore legale del titolo di studio finiranno a misurare i pesci.
Altri sceglieranno le Universita’ che diano una buona formazione che consenta di trovare un lavoro onesto. Con quei soldi e i grant pubblici (sottoposti a verifiche possibilemente non da operetta come succede oggi) si finanziera’ la ricerca.
La valutazione della ricerca e’ un compito complesso, che ognuno affronta secondo criteri diversi. Un genio a Princeton puo’ essere considerato un asino a Chicago (e vicevera).
Quello che va preservata e’ l’indipendenza dell’accademia liberandole dall’influenza dei burocrati e dei delinquenti che oggi spadroneggiano nell’Universita’ italiana. Ognuno poi sviluppera’ la sua scuola o i suoi campi.
Quando in Italia succedera’ che le universita’ falliscano come succede alle imprese allora saremo (dal mio punto di vista) sulla buona strada.
Nel frattempo se venissero chiusi un po’ di esamifici per asini aperti in anni recenti e un po’ di dipartimenti di discipline inutili creati per sistemare le mogli, i figli, gli amici, i portaborse e le amanti non sarebbe un danno ne’ per il paese ne’ per l’accademia.
Per questo compito non e’ necessario un economista e nemmeno un accademico. Basta una persona onesta di buon senso.
A me queste giudizi superficiali sulle Università italiane fanno (sobriamente) sorridere. Lasciamo perdere Capo Verde, paese che non conosco. Vediamo il Regno Unito, paese che ha 159 istituti di istruzione superiore, con centinaia di sedi distaccate
http://www.bis.gov.uk/policies/higher-education/recognised-uk-degrees
L’istruzione fornita dalla grande maggioranza delle Università italiane è complessivamente di buon livello, e superiore a quella di numerose istituzioni britanniche, dove giocano a fare i Professori molte migliaia di docenti in più.
E come e’ stato misurato questo livello? Con giudizi insidancabili e “non superficiali” calati dall’alto? Con l’autocertificazione di un qualche barone? Con il consenso raccolto tra i portaborse?
Oppure come i pesci di Capo Verde?
E’ stato “misurato” con la stessa superficialità con la quale vengono scritti numerosi editoriali riguardanti l’Università e la ricerca su giornali nazionali.
Solo che qui è stato gentilmente fornito aggratis dal sottoscritto, senza mangiarci sopra personalmente o politicamente.
F. Scacciavillani: “E come e’ stato misurato questo livello?”
Ci ha pensato SCImago:
The research impact of National Higher education Systems
http://www.scimagolab.com/blog/2011/the-research-impact-of-national-higher-education-systems/
A commento, cito me stesso:
” …tra i 58 atenei statali italiani che compaiono nella classifica SCImago, uno solo sta sotto la linea. Ciò significa che, una volta normalizzati gli effetti della dimensione e dei temi di ricerca, l’impatto degli atenei statali italiani sulla comunità scientifica è quasi sempre superiore alla media mondiale. Ah, dimenticavo, la classifica si basa su dati Scopus, uno dei database adottati dal VQR italiano e da quello ruritano.”
Gedeone, sapeva che Peppe era ferratissimo su questi argomenti, ma pensò di poterlo finalmente cogliere in fallo.
“Va bene il grafico, ma, come scrive Francesco Giavazzi, in Italia abbiamo cento università e, per di più, tutte “offrono, oltre ai corsi di triennio, corsi di biennio e di dottorato”. Pertanto, tra queste cento ce ne sono almeno 40 che non entrano nemmeno in classifica e che andrebbero chiuse. Vedi che io e Edward abbiamo ragione!” affermò con tono trionfante di chi ha messo al tappeto l’interlocutore.
“E tu ti fidi di Giavazzi?” chiese Peppe con un espressione a metà tra il compatimento e il rimprovero. Poi spiegò che in Italia ci sono 95 atenei che comprendono:
– 28 atenei non statali di cui 13 telematici;
– 9 istituti speciali (3 università per stranieri, 3 scuole speciali e 3 istituti di alta formazione dottorale), tra cui la SISSA di Trieste, la Scuola Normale e la Scuola Sant’Anna di Pisa;
– 58 università statali in senso stretto.
“Ebbene, nella classifica di SCImago ritroviamo 3 istituti speciali e 55 università statali, di cui una sola ha un impatto normalizzato inferiore alla media mondiale [l’ Univ. del Molise]. Le uniche tre università statali che non entrano in classifica sono l’Orientale di Napoli, l’Università del Foro Italico di Roma e lo IUAV di Venezia, le cui dimensioni o i cui settori di ricerca giustificano la mancata inclusione in una classifica bibliometrica. Se cerchi atenei da chiudere, faresti meglio a rivolgere l’attenzione a quelli non statali, di cui solo quattro entrano nella classifica di SCImago.”
VQR: Gli errori della formula ammazza-atenei dell’ANVUR
https://www.roars.it/?p=4391
Viato che si continua con i pesci… Ho provato a far capire, gentilmente, che un certo atteggiamento involontariamente arrogante non aiuta a comprendere i fenomeni e a trovare soluzioni ai problemi. Evidentemente ho fallito.
Per quanto riguarda la relazione tra peso e lunghezza dei pesci (specie) che tanto fa sorridere con sufficienza e che viene considerata un argomento da pescivendoli, farei osservare che dell’argomento non si sono occupati solo colleghi ricercatori (perché tali sono fino a prova contraria) di Capo Verde ma anche colleghi ricercatori affiliati, tra le altre, alle seguenti istituzioni Statunitensi e Canadesi:
NOAA – National Oceanic and Atmospheric Administration (USA), South Dakota State University, Abbott Labs, Fisheries Oceans Canada, Louisiana State Univ, Natl Marine Fisheries Serv, Texas A M Univ, Univ Florida, Us Fish Wildlife Serv, Us Geol Survey, Colorado State Univ, Cornell Univ, Miami Univ, Pulp Paper Res Inst Canada, Univ Calif Santa Barbara, Univ Idaho, Univ Missouri, Univ New Brunswick, Univ Rhode Isl, Univ Washington, Univ Waterloo, Univ Wisconsin, Univ Wyoming, Wisconsin Dept Nat Resources. Naturalmente poi di questo argomento si sono occupati anche ricercatori affiliati a Università certamente “molto meno prestigiose”, in tutto il mondo. Diciamo quindi che occuparsi di fisheries non significa necessariamente essere una università solo grazie a un’etichetta sulla porta dove giocare a fare i professori?
Pare peraltro che lo studio della relazione lunghezza peso dei pesci sia importante per comprendere lo stato di salute delle risorse ittiche e dei mari, e che non sia affatto semplice (tecniche di campionamento, apparati di cattura, ecc.). Incredibile ma vero, negli articoli ci sono pure un po’ di equazioni!
Io non sono un biologo marino, ma facendo il ricercatore credo che l’umiltà di non giudicare ciò che non si conosce (come l’Università Italiana, per dichiarazione di Scacciavillani e di Bisin) sia una virtù utile, soprattutto quando basta fare qualche ricerca su google per evitare di sparare sentenze. E con questo direi che non mi occuperò mai più di pesci in vita mia (ché neanche mi piace, il pesce).
Mi dispaice risultare arrogante. Sara’ che ho poca dimestichezza con le attivita’ speculative volte a spaccare in sedici il capello (o le lische di pesce).
Il punto che sottolineavo e’ la difficolta’ di comparare il valore delle pubblicazioni. Quindi la mera addizione di pubblicazioni e citazioni dal mio (non volutamente arrogante) punto di vista e’ un metodo sbagliato.
Il Prof. Bisin sembra avere le idee molto chiaro su quale siano le soluzioni ai problemi (università, educazione, sanità, pensioni), ma almeno nel caso dell’università ammette di non conoscere il problema specifico. Mi chedo se abbia studiato altrettanto bene gli altri problemi per cui chiede a gran voce misure brutali. L’atteggiamento mi ricorda quello del Tea Party americano che antepone la propria ideologia fondamentalista a qualsiasi discussione ragionata sui numeri, proponendo come in questo caso meno tasse (avvantaggiando i ceti più abbienti) e tagli alla spesa sociale (a svantaggio dei ceti meno abbienti). Bisin e De Nicola denunciano “la strategia retorica di tacciare come liberista (titolo che nel nostro paese è spesso interpretato come affamatore del popolo) chiunque sappia far di conto”. Come se il liberismo fosse una conseguenza ineluttabile dettata da calcoli matematici e ragionamenti scientifici. La risposta di Bisin prova (anche se non ce n’era bisogno) esattamente il contrario: si fornisce la soluzione senza neanche conoscere il problema. Questo è tipico dell’ideologia e non della scienza.
Sicuramente l’Università italiana può e deve migliorare anche se i dati di De Nicolao ci dicono che la performance della ricerca italiana non è affatto male se confrontata con l’estero.
Per completare il discorso dobbiamo tener presente il contesto in cui opera la ricerca. E purtroppo l’Italia ha un sistema industriale che domanda poca ricerca e che addirittura ripone la stessa importanza alle spese in pubblicità e alle spese in ricerca
http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/lattacco-alluniversita-pubblica-cause-e-finalita/
Se guardiamo le spese in ricerca delle poche grandi imprese italiane vediamo che solo FIAT e Finmeccanica spendono in R&S delle cifre significative
http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2012/03/spese-RS-imprese-italia.xls
Ma se confrontiamo le spese della FIAT con quelle di imprese europee vediamo che la FIAT è molto indietro
http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2010/09/Copia-di-rs-AUTO-2008.xls
Evidentemente questo è uno dei motivi per cui la FIAT incontra grosse difficoltà a vendere le macchine specialmente nel mercato europeo.
Stefano Sylos Labini
Mi chiedo se ci sono dati per quel che riguarda i partiti. A occhio e croce, direi che anche in politica si spende più in pubblicità che in ricerca. Se la mia sensazione fosse confermata questo direbbe qualcosa sulla cultura della classe dirigente di questo paese.
Né Bisin né De Nicola (facciamo un altro mestiere del resto) sono esperti di statistiche bibliometriche. Mi corre però l’obbligo di segnalare che anche la prima frase del loro articolo contiene qualche imprecisione. Su temi di loro (ed anche mia) stretta competenza scrivono:
“La spesa pubblica in Italia è ormai dell’ordine di 800 miliardi di euro, su un prodotto interno lordo di circa 1.600 miliardi, il 50%. Siamo ben oltre la media OCSE, a fianco dei paesi del Nord Europa e parecchio distanti dai paesi anglosassoni e da quell’Est europeo. Insomma, i danni del liberismo e dell’ultra-liberismo non devono aver toccato l’Italia, che rimane uno dei paesi al mondo in cui la presenza pubblica è più estesa”.
A quali dati si riferiscono? Se si considerano i dati OCSE più recenti (OECD 2011, riferiti al 2010) la percentuale della spesa pubblica in Italia è effettivamente oltre il 50% del PIL (50,51%). Omettono di segnalare che tale percentuale è (appena) inferiore ai paesi dell’area Euro (50,59%).
Nel 2010 l’incidenza percentuale media della spesa pubblica nei paesi OCSE (di cui sono noti i dati) è stata del 48,81% (è calcolata come semplice media aritmetica; l’OCSE non fornisce infatti la stima). Quindi l’Italia è 1,70 punti percentuali sopra la media OCSE (“ben oltre” secondo Bisin e De Nicola). A onor del vero si deve notare che non sono disponibili i dati per alcuni dei paesi con più bassa incidenza percentuale e questo tende a spingere la media OCSE verso l’alto (infatti nel 2009 la media era di 45,91).
Secondo Bisin e De Nicola l’Italia è “a fianco dei paesi del Nord Europa”. Vediamo. Danimarca: 58,47%; Finlandia 55,3%; Svezia 52,88%; Islanda 51,52%; Olanda 51,19%; Germania 47,87%. Direi a fianco di Islanda ed Olanda. Poiché se usiamo il metro di confronto precedente gli altri sono “ben sopra” o “ben sotto” l’Italia.
Bisin e De Nicola notano poi che “siamo [siete ndr] parecchio distanti dai paesi anglosassoni”. Ma lo siete in modi molto diversi. Stati Uniti , Canada, Australia e Nuova Zelanda hanno quote di spesa pubblica molto più basse (tra il 37% e il 44%). L’Inghilterra, che mi ospita, ha una quota di spesa pubblica appena superiore all’Italia (50,54%) e l’Irlanda molto più alta [66,82%]. In Francia la spesa pubblica rappresenta il 56,63 del PIL.
Non vorrei che la mia critica fosse letta in senso anti-liberista, ma mi sembra che anche in questo caso i dati presentati da Bisin e De Nicola non siano incontrovertibili.
POST SCRIPTUM. Per trovare i dati OECD si deve fare un po’ di fatica.
A partire dal link http://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=NAAG_2011 si segue “Data by theme” poi si clicca su National Account at a Glance 2011 e si scegli la sezione 5 General Government.
Si può vedere anche:
http://www.oecd.org/document/25/0,3746,en_2649_34259_44200345_1_1_1_1,00.html
Invece i dati 2009 sono in questo grafico di Eurostat.
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/mapToolClosed.do?tab=map&init=1&plugin=1&language=en&pcode=tec00023&toolbox=types
@ Giuseppe De Nicolao
Mi riferivo al livello dell’istruzione, di cui parlava Renzo Rubele, non a quello della ricerca.
Vorrei chiarire che non esiste alcuna “misura” del livello dell’istruzione, se non l’apprezzamento professionale (e doveroso) dei descrittori corrispondenti ai cicli di studio, sui quali vi è un concorde giudizio almeno a livello continentale.
Gli USA seguiranno, con calma.
[…] la preparazione che viene fornita dall’università italiana è molto buona o ottima. Perché, come dimostra Giuseppe de Nicolao con un’analisi dei dati forniti dall’OCSE e da altre fonti internazionali, senza ricorrere a […]
da cittadino rimango perplesso.
capisco e son convinto della necessità di valutare la PA. Per esperienza diretta so che è complicato, ma vedo che si tende a porsi su posizioni distanti, sostanzailmente disconoscendo chi ha idee diverse, e non si tende ad avere un atteggiamento costruttivo.
S’è qui accennato alle università non statali: come fanno la valutazione la Cattlolica e la LUISS, che non sono le ultime italiane ? (nenache le prime).
leggevo stamani in treno un libro di CM Cipolla sull’economia europea nel medioevo. Parlando della crescita culturale-tecnologica mette in rilievo la capacità dell’uomo europeo medievale di acquisire tecnologie e migliorarle sostanzialemnte (la polvere da sparo, la carta, la bussola, ..). Ecco: potremmo noi fare lo stesso, con una ragionamento pacato ?
Inoltre la valutazione dal basso. Se facessimo valutare i docenti (l’Università dovrebbe prima insegnare) dagli studenti ? Che fine han fatto i moduli rossi che gli studenti compilano ? Qualche docente ha visto i risultati aggregati che lo riguardano, oppure i risultati aggregati per corso di laurea, facoltà, dipartimento, Università ?
Credo che i risultati sarebbero molto chiarificatori.
[…] su noiseFromAmerika, sostiene che i docenti universitari non siano sottopagati, in risposta ad un articolo di Giuseppe De Nicolao (mio padre) su ROARS. Quest’ultimo dimostra invece che la ricerca italiana se la cava […]
[…] o falso? Nel periodo 1996-2010, l’Italia è ottava al mondo come numero di pubblicazioni scientifiche e settima come numero di citazioni ricevute. Inoltre […]
[…] un mio precedente articolo, Quello che Bisin e De Nicola non sanno (o fingono di non sapere), ho contestato la seguente affermazione contenuta in un articolo apparso su […]
[…] un mio precedente articolo,Quello che Bisin e De Nicola non sanno (o fingono di non sapere), ho contestato la seguente affermazione contenuta in unarticolo apparso su […]
[…] di nuovo qualche semplice dato: (1) Il sistema universitario e della ricerca italiano è storicamente sotto-finanziato rispetto […]
[…] di nuovo qualche semplice dato: (1) Il sistema universitario e della ricerca italiano è storicamente sotto-finanziato rispetto […]
[…] premio futuro.” Che qualcosa non abbia funzionato? Ne vogliamo discutere? Ripetiamo di nuovo qualche semplice dato: (1) Il sistema universitario e della ricerca italiano è storicamente sotto-finanziato rispetto […]