Pochi giorni fa sono stati pubblicati i cosiddetti valori soglia della nuova tornata dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN). Anch’io, come tanti colleghi, non ho resistito alla tentazione di andare subito a controllarli, scoprendo che nel mio settore scientifico-disciplinare, cioè 10/F1 – Letteratura italiana, rispetto alla tornata precedente i 3 valori soglia per l’abilitazione alla seconda fascia si sono gonfiati straordinariamente: 17 articoli e contributi, invece di 10, in 5 anni; 5 articoli in riviste di “fascia A”, invece di 3, in 10 anni; 1 monografia (come prima) in 10 anni. I valori soglia della seconda fascia si innalzano perché si pubblica sempre di più per superare sbarramenti fissati a quote che sono, necessariamente, sempre più alte, perché ricalcolate di volta in volta sulla base del complesso delle pubblicazioni della finestra temporale subito precedente. Una corsa senza senso. Facile cedere alla tentazione della reduplicazione delle pubblicazioni (magari con titolo diverso), dell’autocitazione seriale (nei settori bibliometrici) o del cosiddetto “salami slicing”, per cui un’unica potenziale pubblicazione viene spezzettata in diverse pubblicazioni. Le monografie sono sempre meno importanti. Crescendo la soglia/mediana n° 1 (articoli e contributi), e dato che basta passare 2 delle 3 soglie/mediane, crescono il peso e il potere delle riviste di fascia A, visto che è spesso più facile piazzare qualche articolo lì, e non per forza di qualità, piuttosto che una miriade di contributi un po’ dappertutto. Un autentico regalo agli editori e ai comitati di direzione più potenti – i cui membri, oltretutto, hanno spesso un ruolo di rilievo nella stessa compilazione degli elenchi delle riviste di eccellenza e nel reclutamento. Conoscenza e progresso non si possono misurare sulla base della quantità delle pubblicazioni. Né un ricercatore studia, esamina, sperimenta, si confronta con i propri pari allo scopo di pubblicare sempre di più, ma prima di tutto allo scopo di capire, aiutare a capire e, perché no?, aiutare a prendere decisioni per il bene della collettività. La corsa a pubblicare, per ottenere abilitazioni utili a una spesso lontana, se non improbabile, carriera di grafomani e burocrati, ci allontana drammaticamente dal nostro fine primario nella società civile.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera inviataci da Paolo Borsa.

Come segnalato anche sul sito di ROARS, pochi giorni fa sono stati pubblicati i cosiddetti valori soglia della nuova tornata dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN). Anch’io, come tanti colleghi, non ho resistito alla tentazione di andare subito a controllarli, scoprendo che nel mio settore scientifico-disciplinare, cioè 10/F1 – Letteratura italiana (settore non bibliometrico), rispetto alla tornata precedente i 3 valori soglia per l’abilitazione alla seconda fascia si sono gonfiati straordinariamente: 17 articoli e contributi, invece di 10, in 5 anni; 5 articoli in riviste di “fascia A”, invece di 3, in 10 anni; 1 monografia (come prima) in 10 anni. Tutto pressoché identico invece, anche se con valori in leggera crescita, per la prima fascia, per la quale come è noto si prende in considerazione un periodo più lungo (10-15 anni, non 5-10): 28 articoli e contributi, invece di 27, in 10 anni; 6 articoli in riviste di “fascia A”, invece di 4, in 15 anni; 1 monografia (come prima) in 15 anni. Discorso analogo per i commissari: 29, 7, 2 invece di 28, 6, 2.

In un post pubblico ho formulato alcune considerazioni a caldo che, su sollecitazione di Giuseppe De Nicolao, ripropongo ora ai lettori di ROARS con qualche modifica e alcune integrazioni suggerite dal dialogo con amici e colleghi. Benché sia sostanzialmente favorevole all’idea di un’abilitazione scientifica nazionale, trovo che l’attuale ASN presenti diverse criticità, che riguardano sia la procedura in sé sia gli effetti che essa produce da un lato sulla vasta platea degli abilitati e abilitandi e, dall’altro, sulle modalità di pubblicazione dei risultati della ricerca. Su alcune di queste criticità vorrei provare a portare qui l’attenzione.

1) È evidente che i valori soglia della seconda fascia, di cui ho parlato sopra, si innalzano per via della corsa alle abilitazioni, di prima come di seconda fascia. Si pubblica sempre di più per superare sbarramenti fissati a quote che sono, necessariamente, sempre più alte, perché ricalcolate di volta in volta sulla base del complesso delle pubblicazioni della finestra temporale subito precedente. Dal punto di vista del progresso scientifico e della qualità della ricerca è una corsa senza senso.

2) Se i valori soglia della seconda fascia si gonfiano, e non solo nel mio settore di riferimento, è perché probabilmente non sono vere e proprie soglie. Anche se rispetto alla tornata del 2012 ne è stato cambiato il nome, a me pare che tali soglie somiglino molto a mediane. Forse “adattate”, ma questo non possiamo verificarlo perché non sono disponibili tutti i dati utilizzati per il calcolo (come, invece, imporrebbe “il principio di trasparenza funzionale alla conoscenza reale e al controllo di ogni attività pubblica”; la frase è tratta dal Parere del CUN citato al punto successivo). Se il sistema non cambia, è chiaro che le soglie/mediane sono destinate a innalzarsi progressivamente nel tempo in modo scriteriato. Al contrario, soglie rivelatesi ragionevoli dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili, per consentire a chi aspira a conseguire l’abilitazione – che, lo ricordo, consiste in un giudizio di maturità scientifica – di programmare la propria attività di ricerca e di pubblicazione sul medio periodo.

Mi è stato fatto osservare, d’altro canto, che in alcuni SSD i valori soglia si sono abbassati. Non disponendo, come si è detto, di tutti i dati, e assumendo che la base dati su cui vengono calcolate le soglie/mediane non contenga errori analoghi a quelli riscontrati nel 2012 da De Nicolao (Su che dati sono state calcolate le mediane ASN 2012? Erano inventate?), si possono solo formulare delle ipotesi: la prima è che la popolazione degli associati (vecchi e nuovi) di questi settori abbia improvvisamente deciso, in blocco, di infischiarsene delle soglie fissate dall’Agenzia; la seconda che per la determinazione dei nuovi valori soglia siano intervenuti uno o più “correttivi” tra quelli previsti dal Documento di accompagnamento alla Proposta relativa alle Soglie per l’Abilitazione scientifica nazionale redatto dall’ANVUR nel 2016, tra i quali segnalo la regola per cui “le soglie dei commissari devono essere superiori a quelle per i candidati” e quella per cui si deve “assicurare che in tutti i Settori concorsuali la maggioranza degli ordinari possa essere ammessa già in prima battuta al sorteggio per commissario”.

3) Il parere del CUN sulla nuova Proposta ANVUR, reso lo scorso 30 luglio, è stato sostanzialmente ignorato; ne consiglio la lettura perché contiene rilievi molto interessanti su diversi aspetti critici dell’ASN. Le soglie quantitative, in una procedura “che di fatto conferma la logica delle ‘mediane’ utilizzate per le procedure di Abilitazione Scientifica Nazionale 2012-2013”, spingono i ricercatori a comportamenti adattivi: pubblicare tanto e a qualunque costo. Difficile che la qualità delle pubblicazioni resti alta. Facile cedere alla tentazione della reduplicazione delle pubblicazioni (magari con titolo diverso), dell’autocitazione seriale (nei settori bibliometrici) o del cosiddetto “salami slicing”, per cui un’unica potenziale pubblicazione viene spezzettata in diverse pubblicazioni. L’adozione di filtri automatici, insomma, incentiva comportamenti opportunistici, che già nel breve periodo possono vanificare, almeno in parte, gli obiettivi dei filtri stessi.

4) Perché le soglie/mediane per la prima fascia in molti settori non crescono o crescono poco? Probabilmente perché solo pochi tra gli abilitati in possesso di un alto numero di pubblicazioni sono passati, negli ultimi anni, dalla seconda alla prima fascia, sia perché i concorsi sono stati pochi sia perché l’età anagrafica ha avuto un certo peso nel reclutamento. Il che non è per forza un male, sia chiaro.

5) Le monografie sono sempre meno importanti. Per i settori umanistici ciò comporta non solo una ristrutturazione del nostro modo di fare ricerca, ma anche un suo snaturamento.

Una certa subordinazione delle discipline umanistiche alle scienze dure, inoltre, ha come conseguenza anche la svalutazione dell’importanza di partecipare a convegni (i quali, però, almeno valgono per gli “altri titoli”) e pubblicare nei relativi atti: una qualunque bazzecola su rivista di fascia A (si veda il punto successivo) vale comunque di più. Discorso simile per le forme di discussione pubblica dei risultati della ricerca, in particolare le recensioni, che hanno avuto un ruolo spesso fondamentale nei nostri settori e nell’ASN non sono nemmeno calcolabili ai fini del primo indicatore (anche se sono state conteggiate per l’assegnazione dei fondi FFABR e per la composizione dei collegi di dottorato).

6) Crescendo la soglia/mediana n° 1 (articoli e contributi), e dato che basta passare 2 delle 3 soglie/mediane, crescono il peso e il potere delle riviste di fascia A, visto che è spesso più facile piazzare qualche articolo lì, e non per forza di qualità, piuttosto che una miriade di contributi un po’ dappertutto. Per parte mia, trovo che dal punto di vista scientifico il concetto stesso di rivista di fascia A sia un’aberrazione. In molti settori, oltretutto, essa si è rivelata uno strumento utile a consolidare o accrescere il potere oligopolistico di un numero limitato di editori e accademici (sul legame tra oligopolio della scienza, regole della valutazione e diritto d’autore si può leggere questo saggio di Roberto Caso). Mentre la comunità scientifica dovrebbe attrezzarsi per promuovere nuove forme di pubblicazione che favoriscano il libero accesso ai risultati della ricerca e la loro discussione (la questione è complessa e, per molti aspetti, decisiva: ne ha parlato Paola Galimberti proprio sul sito di ROARS in questi giorni (A proposito di “valori soglia”. Valutarsi e aprirsi: alternative per la valutazione), la fascia A è un autentico regalo agli editori e ai comitati di direzione più potenti – i cui membri, oltretutto, hanno spesso un ruolo di rilievo nella stessa compilazione degli elenchi delle riviste di eccellenza e nel reclutamento.

7) Con questa corsa a pubblicare, che si somma alla burocratizzazione del lavoro accademico, il tempo per leggere e studiare cose nuove, tanto più se relative ad altri settori scientifico-disciplinari, si riduce drasticamente, così come il tempo per riflettere, lasciare sedimentare le idee, discuterle con i colleghi e metterle alla prova. Mirando a massimizzare la produttività, il sistema promuove l’iperspecialismo e, di fatto, scoraggia dall’esplorare territori nuovi e tentare nuove strade, inaridendo il potenziale creativo soprattutto dei ricercatori più giovani. È difficile, in questa situazione, anche trovare il tempo per scrivere progetti di valore, che possano essere realmente competitivi nei bandi internazionali. In questo modo si finisce per produrre molta letteratura scientifica, ma poca vera innovazione.

8) Le procedure di abilitazione scientifica nazionale tengono in ansia centinaia, migliaia di candidati per mesi e anni, ma di fatto, nel loro periodico riproporsi, hanno l’effetto di distogliere l’attenzione di noi tutti dal vero problema: puoi prendere tutte le abilitazioni che vuoi, e per tutte le volte che vuoi (perché poi scadono), ma alla fine i concorsi banditi sono insufficienti sia per il gran numero degli abilitati sia per le stesse esigenze dell’università. Di piccola gratificazione in piccola gratificazione, ottenuta al prezzo di inimmaginabili fatiche, si produce e mette ai margini dell’accademia – quando non della società – una massa enorme di frustrati: sempre più vecchi, sempre più ripiegati su se stessi, sempre più disperati. Non ci si sofferma mai abbastanza sul costo umano di una tale situazione e sullo iato che viene a crearsi tra le aspirazioni originarie e gli ideali di tanti ricercatori e una realtà accademica cinica e silenziosamente violenta, che prosciuga le energie creative ed è segnata da livelli di precarietà, incertezza e competizione sempre più intollerabili. Sul problema, nient’affatto marginale, ho trovato illuminante questo contributo di Francesca Coin.

9) Conoscenza e progresso non si possono misurare sulla base della quantità delle pubblicazioni. Né un ricercatore studia, esamina, sperimenta, si confronta con i propri pari allo scopo di pubblicare sempre di più, ma prima di tutto allo scopo di capire, aiutare a capire e, perché no?, aiutare a prendere decisioni per il bene della collettività. La corsa a pubblicare, per ottenere abilitazioni utili a una spesso lontana, se non improbabile, carriera di grafomani e burocrati, ci allontana drammaticamente dal nostro fine primario nella società civile.

[Oltre che alla Redazione di ROARS, sono grato a Matteo Cadario, Andrea Capra, Giuseppe De Nicolao, Sara Ferrilli, Filippo Forcignanò, Paola Galimberti e Antonio Montefusco per il loro contributo alla discussione, i suggerimenti e le sollecitazioni; la responsabilità di quanto si legge in questo post è, naturalmente, solo mia.]

 

Paolo Borsa
Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici
Università degli Studi di Milano

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14 Commenti

  1. Immaginate un ricercatore di tipo b che al termine del suo contratto si ritrova con le soglie per l’abilitazione da associato aumentate. E’ incredibile come in questo folle meccanismo nessuno poi vada a guardare nei dettagli quali conseguenze hanno determinate scelte.

  2. Il folle innalzamento degli indici bibliometrici è un effetto, tra i tanti, che era ovvio fin da quando è stato proposto questo demenziale meccanismo di valutazione. La sorpresa sta nel fatto che l'”Accdemia” accetti di farsi governare dal beotismo idiota. D’altronde l’autodistruzione di Università e Ricerca che è in atto ha un certo isomorfismo con la storia recente italiana, basti pensare al ponte Morandi, tutti sapevano che aveva la consistenza della farina e si è aspettato beatamente che crollasse.

  3. Penso che il migliore modo di superare le mediante dei settori bibliometrici sia quello di scrivere delle review e accantonare i costosi esperimenti. Si aumenta il numero di pubblicazioni, si può citare la quasi totalità delle proprie pubblicazioni, e molto probabilmente si avranno più citazioni di un lavoro di ricerca. In definitiva, sembra opportuno abbandonare la ricerca a favore del meritorio lavoro di descrizione del lavoro fuori dall’Italia. Saremo gli amanuensi del Nome della Rosa, con annesso veleno.

  4. Qualsiasi meccanismo di valutazione genera comportamenti adattativi. E’ per questo che le valutazioni bibliometriche, di per se non negative, devono essere guidate rispetto agli obiettivi che i processi di valutazione si pongono. Ad esempio pesi diversi possono essere usati per le review oppure pesi diversi rispetto al contributo dell’autore (esempio il corresponding author). Su questo l’indice H dice poco/nulla. Si riduce così l’inflazione da collaboratori.

    • Ci sono voluti otto anni per mettere a fuoco il problema dei “comportamenti adattativi” (che nel caso delle valutazioni bibliometriche automatiche sono particolarmente perfidi e difficili da contrastare).
      Tra otto anni qualcuno scoprirà che le domande sull’uso della bibliometria se le erano già poste nel Regno Unito e magari si leggerà il relativo rapporto, commissionato dall’HEFCE (una sorta di Anvur britannica):
      http://www.hefce.ac.uk/media/HEFCE,2014/Content/Pubs/Independentresearch/2015/The,Metric,Tide/2015_metric_tide.pdf
      Ci vorranno forse altri otto anni, ma prima o poi qualcuno metterà pure a fuoco il fenomeno noto come “Rule cascades”:
      _____________
      In an attempt to staunch the flow of faulty metrics through gsming, cheating, and goal diversion, organization institute a cascade of rules. Complying with them further slows down the institution’s functioning and diminishes its efficiency.
      (da J.Z. Muller, The tyranny of metrics, Princeton University Press, 2018 p. 171)
      https://www.roars.it/la-fissazione-per-le-metriche-unillusione-pericolosa/
      ____________
      Nel lungo periodo potremmo perfino farcela. Peccato che mi venga in mente la frase di Keynes …

  5. A me personalmente è stata bloccata la carriera con queste incredibili decisioni e con una ancor peggiore gestione dell’ASN. Nessuno potrà restituirmi quello che mi è stato tolto.
    Avevo sempre pensato che i raccomandati ci sono, eccome, ma che persone serie non avrebbero bloccato chi merita… Non è vero.

    Adesso la mia speranza è che persone illuminate come voi, riescano a far comprendere le poche sensate cose sufficienti a bloccare un sistema ingiusto nell’interezza. So bene di non essere l’unica a sapere quanto è perverso il sistema.

    • “la mia speranza è che persone illuminate come voi”: personalmente temo che si sia nel caso “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.

  6. Ha ragione De Nicolao, in Italia ciò che è immediatamente ovvio, come 1+1=2, richiede alcune decadi di elucubrazioni. Va anche detto che nessun aggiustamento nel conteggio degli indici può mitigare significativamente gli effetti negativi della valutazione bibliometrica. Si tratta di una demenzialità intrinsecamente errata, offensiva per l’intelletto, adatta, al più, al mercato delle vacche.

  7. Se i GEV, che sono nostri colleghi indicati da ciascun SSD all’ANVUR, invece che mettersi in proprio e vendersi all’ANVUR, fossero stati costretti a seguire la politica degli SSD che li ha indicati e se questa politica li avesse costretti a prefissare le soglie fisse e magari decrescenti nel tempo, secondo l’umano buonsenso, forse non saremmo arrivati all’esplosione delle soglie facilmente prevedibile come un fenomeno instabile che si autoalimenta e tende all’infinito. Se, se, se….Se noi non fossimo stati correi all’ANVUR, l’ANVUR avrebbe fatto una politica diversa. Se l’ANVUR non fosse composta da nostri colleghi, forse avrebbe fatto una politica diversa. Se, se se…

    • I componenti dei GEV hanno le loro responsabilità (e sarebbe giusto che i colleghi gliene chiedano conto), ma per la VQR. Le soglie, per quanto se ne capisce, derivano da scelte del Consiglio direttivo, sordo a ogni sorta di ragionamento e di appello (nel 2016 ci fu una vera e propria gragnuola, ma due anni dopo siamo punto e a capo). Rimane di attualità la domanda: collaborazionisti o resistenti?
      __________________________
      “Stefan Collini (2012) ha suggerito di usare le categorie dei “collaborazionisti” e dei “resistenti” per classificare i membri della comunità accademica sulla base del modo in cui ciascuno reagisce all’occupazione dello spazio della didattica e della ricerca da parte di una agenzia di valutazione burocratizzata.
      […]
      Che fanno allora i resistenti? Adottano la retorica della ricerca solida contro quella l’eccellenza. Adottano la retorica dei comportamenti corretti contro quella della valutazione. Contribuiscono a definire specificamente per ogni area della ricerca cosa significhi ricerca solida. Rifiutano di collaborare a valutazioni e procedure che non rispettino i principi della ricerca solida.”
      https://www.roars.it/collaborazionisti-o-resistenti-laccademia-ai-tempi-della-valutazione-della-ricerca/

  8. Non vi sembra che queste riviste di fascia A siano diventate un cestino per la carta straccia? Chi vi pubblica dovrebbe essere, al contrario, penalizzato per la mancanza di garanzia della qualità. Voglio infatti vedere come fanno le redazioni a far revisionare meditatamente, e da chi, queste valanghe crescenti di articoli continuamente reciclati. Del resto penso che tutti abbiamo avuto a che fare con persone che sembra dicano/scrivano sempre la stessa cosa indipendentemente dall’argomento del momento e che figurino come prezzemolo in qualsiasi circostanza ‘scientifica’, nazionale o estera. Tanto, alla fine, chi è che riesce a controllare la cosiddetta originalità o novità degli svariati contributi disseminati dappertutto, sostanzialmente simili? Penso però che altrettanta confusione regni nella loro testa, ad eccezione di quella parte che riesce a remixare continuamente, poiché questa è diventata l’attività di ‘ricerca’ fondamentale. Certo è che l’Anvur ha fondato una bella scuola della sopravvivenza accademica!

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