La CRUI ha da poco rivolto un appello ai candidati premier per salvare le Università italiane. “ma i Rettori si svegliano solo oggi?” si sono domandati in molti tra colleghi e studenti, prima ancora di commentare i contenuti del documento. La Redazione di ROARS pone questa ed altre domande al Presidente della CRUI, prof. Marco Mancini.
Presidente Mancini, la CRUI ha rivolto un appello ai candidati premier e al futuro Presidente del Consiglio, per “salvare le Università italiane”: in effetti, è allarmante la scarsa considerazione riservata a Università e Ricerca nel corso della campagna elettorale. Il documento CRUI è articolato in sei punti. Molti colleghi prima ancora di commentare i contenuti del documento hanno reagito così: “ma i Rettori si svegliano solo oggi?”. Non è la prima volta che le iniziative della CRUI suscitano reazioni del genere. Come risponde?
Io credo che i lettori di ROARS meritino una risposta data con la massima franchezza come, del resto, è mia abitudine. Cominciamo col dire che lo scopo del documento CRUI era evidentissimo: nessuno sta parlando di Università in questa campagna elettorale. Abbiamo pensato, dopo aver tanto protestato in questi anni sui tagli, sul reclutamento, sulla programmazione, che fosse importante riposizionare l’Università al centro dell’agenda politica con delle proposte molto concrete. Non una panacea, ma proposte serie, mirate in primo luogo agli studenti e ai giovani ricercatori. Io dico che ci siamo riusciti. Mi aspetto allora che la CRUI sia giudicata per quello che ha chiesto e, in tutta onestà, mi sembra che le reazioni sui contenuti siano state positive. Mi rendo conto che esistono pregiudizi radicati nei confronti dei Rettori, specie in un momento come quello attuale nel quale non si fa che parlare di ‘casta’, di ‘baroni’ e compagnia cantante. Lo capisco. Ma la CRUI, che non è un sindacato, ha combattuto battaglie istituzionali importanti per il sistema, per gli studenti, per i ricercatori che non possono essere dimenticate. A volte abbiamo ottenuto qualche successo, a volte abbiamo perso. Molto spesso da soli per la gioia degli avversari dell’Università pubblica (che sono tantissimi). Rammento le battaglie di cui sono stato o sono ancora direttamente responsabile come Presidente: il finanziamento ordinario (ogni anno ci danniamo l’anima per risolvere la questione dei bilanci), i bandi PRIN (noi ci abbiamo provato a cambiarli, estendendo la platea e semplificando alcune procedure, specie a vantaggio dei settori umanistici sia nel 2012 che nel 2013), l’editoria elettronica (quanti sanno che abbiamo garantito ai ricercatori gli stessi prezzi del contratto Elsevier scaduto?), il Piano straordinario degli Associati (che nel 2013 rischiava di essere cancellato, con tanto di comunicato congiunto con il CUN) per ricordare solo quelle recenti. Oggi, poi, combattiamo su AVA, già con qualche primo successo che vi ringrazio di aver puntualmente registrato. Eppoi: come si fa a dire “i Rettori si svegliano solo oggi”? del diritto allo studio io stesso parlai al Presidente della Repubblica a luglio del 2011 allegando un documento in cui si denunziava «il gravissimo problema del fondo per il Diritto allo studio […]l’undicesimo Rapporto del CNVSU ha dimostrato al di là di ogni dubbio come la ripartizione dei fondi per gli studenti sia disomogenea sul piano territoriale». Sul calo dell’FFO avrò pubblicato (da maggio 2012) non meno di 10 fra interviste e articoli sulla stampa e la CRUI ha fatto delibere a riguardo il 21.6, il 19.7, il 25.10. Semmai il silenzio era ed è altrove. Noi non siamo quelli che decidono. E quando si è deciso male, lo abbiamo detto forte e chiaro: basti leggere la nostra deliberazione del 20.12.2012. Questi sono i fatti.
1) defiscalizzare tasse e contributi universitari per aiutare le famiglie a non dover abbandonare l’Università a causa della crisi economica;
2) assicurare la copertura totale delle borse di studio erogate da Regioni e Atenei per garantire la formazione e la mobilità studentesca;
3) abbattere l’IRAP sulle borse post-lauream e defiscalizzare gli investimenti delle imprese in ricerca per favorire la competizione nei settori ad alta intensità tecnologica;
4) finanziare posti di ricercatore da destinare ad almeno il 10% dei dottori di ricerca e togliere i vincoli al turnover per impedire l’espulsione dei giovani migliori dal Paese e il progressivo invecchiamento della docenza;
5) restituire l’autonomia responsabile all’Università rimuovendo gli attuali appesantimenti normativi per valorizzare le scelte di qualità e le vocazioni dei differenti Atenei;
6) incrementare i fondi per l’Università all’1% del PIL, ristabilendo in particolare il finanziamento statale ai livelli del 2009 e innalzando la premialità fino al 50% per ridare slancio agli Atenei, promuovere le eccellenze nei processi di valutazione, favorire la competitività a livello internazionale.
Oggi la CRUI ammette che le tasse universitarie italiane, essendo troppo alte, sono un ostacolo sociale per entrare in università, ma un anno fa aveva chiesto di rilassare il vincolo che impediva di aumentarle, richiesta esaudita dal governo Monti. Un cambiamento di rotta?
Chiedo scusa ma forse è il momento di chiarire una questione, per così dire, filologica. Io capisco che gli slogan sono sempre più efficaci delle citazioni corrette. È un segno dei tempi. Ma evidentemente non tutti leggono le cose con esattezza. Intanto la CRUI non ha mai affrontato al proprio interno la questione delle tasse. Ci si accusa di aver chiesto l’aumento dei contributi studenteschi in un documento di lavoro che presentammo al Ministro Gelmini nel luglio 2011 (Monti non c’entra niente). Falso. Basta leggerlo. Nel documento non si parlava affatto di aumento delle tasse, tant’è che nel comunicato ufficiale sul sito l’argomento non è presente. In quel draft ci si limitava ad auspicare che si dovesse (cito) «mantenere una soglia di garanzia per la contribuzione studentesca sostituendo il valore % con un valore assoluto, diverso da Regione a Regione in relazione al PIL pro capite regionale o provinciale». Un’idea come un’altra, ma dov’è la richiesta di aumento? Dunque, nessun cambiamento di rotta. E, sia chiaro, non abbiamo chiesto un bel niente a Monti, tant’è vero che, quando il PD è intervenuto per modificare la norma in questione, abbiamo dato una mano per correggere il testo del Decreto Legge. Basta chiedere ai testimoni e basta leggere quanto io stesso scrivevo sull’Unità del 6.8.12.
Il punto tre e il punto sei insistono su di una visione competitiva della ricerca: altrove, per esempio in Francia, si sono proposte soluzioni che insistono maggiormente su di una visione cooperativa dei rapporti fra Atenei, al fine di valorizzare i punti di forza di ciascuno di essi e di assicurare un uso più efficiente delle risorse. Non si rischia di proporre soluzioni non all’avanguardia, che in molti paesi – anche in quelli che da più lungo tempo le adottano, come per esempio il Regno Unito – sono sempre più messe in discussione?
Noi riteniamo che la tanto vituperata autonomia comporti una sana competizione per i grandi progetti di ricerca e per una valorizzazione delle vocazioni specialistiche dei singoli Atenei. Certo, se i finanziamenti della ricerca sono quelli attuali (pensate al PRIN e a quanto è costato far sì che il MIUR riconoscesse l’esiguità grottesca dei finanziamenti con una lettera pubblica), è ovvio che si scrive “competizione” ma si legge “darwinismo sociale”. In un Paese normale i PRIN esigerebbero finanziamenti non inferiori ai 500mln di euro l’anno. Leggete il documento CRUI di novembre che voi stessi avete riportato su ROARS. E non sto esagerando. D’accordissimo nel ragionare per clusters territoriali, ammesso che anche le Regioni e le imprese ci stiano e non si preoccupino di salvaguardare altre logiche rispetto a quelle dell’innovazione. Piuttosto: attenzione alla ricerca di base negli Atenei. E in maniera particolare a quella umanistica che oggi non gode di alcuna tutela. Su questa occorrerebbe destinare specifiche quote del finanziamento ordinario.
Al punto sei si afferma che occorre “incrementare i fondi per l’Università all’1% del PIL”. I dati più recenti dell’OCSE, riferiti al 2009 collocano la spesa italiana per l’Università in percentuale sul PIL proprio all’1%, in trentaduesima posizione su trentasette paesi considerati. Se le cose stanno così, non pare questo un obiettivo ambizioso. Oppure la CRUI possiede dei dati statistici più aggiornati che tengono conto dei tagli degli ultimi anni e che abbassano in modo consistente il valore del 2009? Ma anche riportandolo a quello del 2009, non si tratta di una richiesta che non ci fa fare molti passi avanti rispetto alla non invidiabile posizione occupata nel 2009?
A questa domanda si può rispondere con un semplice chiarimento definitorio. Con l’espressione “1% del PIL” intendiamo una percentuale di risorse pubbliche dedicata alla sola Università. Oggi quell’1% a cui voi fate riferimento è un numero composto da uno 0,8% di pubblico e uno 0,2% di privato. Noi intendiamo l’1% riferito al solo finanziamento pubblico (per avvicinarci a quell’1,1% che è la media OCSE). In cifra tonda significa grosso modo 3 miliardi di euro in più, uno dei quali è frutto delle rapine dell’ultimo quadriennio. Non mi sembra una richiesta “non invidiabile”. Chiedere il ripristino, entro questa cifra incrementata, di un FFO alla cifra più alta mai raggiunta dal sistema (i 7,5 miliardi del 2009) è un “minimo sindacale”.
Sempre al punto sei si propone di innalzare la premialità fino al 50%. Una quota notevolmente elevata. Se alla “premialità” viene dato il significato attuale, molti atenei sarebbero a rischio di chiusura? Come va interpretata questa richiesta della CRUI?
Concordo con i rischi che paventate nell’espressione “premialità”. È chiaro che questa premialità va ripensata profondamente; deve tener conto delle vocazioni dei singoli Atenei e dei contesti sociali e produttivi nei quali essi operano. Né può mettere a rischio quote storiche consolidate pari almeno alle partite fisse. Eppoi, una cosa è partire da una premialità crescente su un FFO diminuito del -13% rispetto al 2009 come è oggi, e una cosa da una premialità crescente su un FFO di 7,5 miliardi di euro come era nel 2009. La migliore prova di quanto sto affermando è che, quando il Ministero ci ha inviato a dicembre la bozza del piano della programmazione triennale 2013-2015, noi l’abbiamo rispedita al mittente. Motivo: in carenza di risorse non è possibile discutere di nuove formule in tema di premialità. E, per la prima volta, la CRUI, a differenza di altri, non ha dato il suo parere.
In un quadro in cui aumenta il peso delle quote premiali di finanziamento, ritiene che sia possibile affidare il compito di procedere alla valutazione all’ANVUR così come essa è ora, senza alcun intervento che ne modifichi struttura e compiti? ANVUR costituisce ormai un’anomalia nel panorama europeo, anomalia generata non tanto dalle persone che vi operano, ma da evidenti difetti di progettazione.
Le nostre critiche all’ANVUR (riportate tante volte anche dal vostro sito) sono ben note. Compiti imprecisamente delineati se non addirittura confusi e velleitari, progressiva sostituzione rispetto alle funzioni del Ministero, fragilità strutturale. E non mi pare che siamo i soli a chiederne una revisione.
Si sta svolgendo in questi mesi la prima tornata dell’ASN, fra mille polemiche, contenzioso giudiziario e con la sensazione, da parte di molti, che le abilitazioni potranno trasformarsi in meri pezzi di carta. Una libera docenza di second’ordine. Cosa ne pensa?
Il rischio esiste. Eccome! soprattutto quando sappiamo già da ora che le risorse saranno assolutamente insufficienti per il reclutamento. Di qui la nostra battaglia sui soldi. Col rischio di sentirsi dire che parliamo solo di risorse. Ma questa – ahimè – è una priorità assoluta. Io non ho difficoltà ad ammettere che, al momento in cui il MIUR provò a partorire il famigerato decreto ‘sul merito’, avrei trovato più saggio e realistico inserire un qualche contingentamento nelle abilitazioni. Ritenevo che così le procedure avrebbero prodotto abilitati che, realisticamente, si sarebbero potuti assorbire nei ruoli in tempi ragionevoli. Fui accusato addirittura di voler tornare alla legge 210/98, di voler esercitare un potere verticistico, come se fosse interesse degli Atenei lasciare sguarniti i corsi, insoddisfatti e precari i giovani, con il rischio di vederseli sfuggire all’estero dopo averli formati (donde uno dei punti del nostro documento). Tutti sappiamo ormai che senza un ricambio adeguato della popolazione docente che sta andando in pensione i corsi non sopravvivono e la ricerca ristagna. Questa era e resta la priorità. Tuttavia difronte alla legge occorre essere realistici. Ci sono oggi le condizioni perché migliaia e migliaia di abilitati siano assunti? Sfortunatamente no. Non ci sono i fondi e c’è il blocco del turn-over (che chiediamo di rimuovere). Rammento che al vostro Convegno del novembre scorso alcuni Colleghi condividevano l’ipotesi del contingentamento. Purtroppo hanno prevalso le critiche, i timori e, al tempo stesso, le speranze. L’Università non ha reagito in modo unitario e, al solito, è stata l’Università a perderci. Ma ormai è tardi. Oggi il meccanismo non è più arrestabile, pena la delusione di migliaia di candidati. Due cose dovrebbero trasformare questa ASN in una faccenda seria allo stato attuale (che, ripeto, non è certo il massimo). Le risorse e i criteri selettivi. Sulle prime ho già detto; aggiungo solamente che vedo con preoccupazione la mancanza di cenni sulla seconda tranche 2014-2016 del Piano straordinario degli associati. Sui criteri, il ‘tana libera tutti’ settembrino dell’ANVUR sulle mediane (che, come ricorderete provocò una reazione durissima della CRUI con la delibera del 27.9.2012) non aiuta certo a fare dell’ASN una procedura rigorosa, mi pare.
Al punto 4 si propongono interventi per fermare l’emorragia di giovani studiosi dal sistema italiano di U&R. Non crede che sarebbe opportuna anche una revisione delle innumerevoli figure di “ricercatore” a tempo determinato, attualmente previste?
Sì, sono d’accordo. La semplificazione del quadro aiuterebbe i percorsi all’interno degli Atenei e le procedure formali oltre che a dare più garanzie alle figure più precarie come i contrattisti, ad esempio.
Se dovesse scegliere un intervento con priorità assoluta, dove indirizzerebbe i suoi sforzi?
Be’ i Rettori parlano solo di risorse no? Dunque la riposta è: risorse per il diritto allo studio e per l’FFO.
Grazie.
Grazie a voi.
E sui rettori che si prorogano il mandato ben oltre la scadenza prevista, e magari anche oltre l’età della pensione, nessuna domanda? Basta farsi una passeggiata nel sito della crui:
http://crui.it/HomePage.aspx?ref=944
Non farà parte delle emergenze più gravi ma sarebbe utile aprire una discussione sul ruolo del CUN, in particolar modo in questa fase nella quale sembra prevalere incontrastata un’impostazione verticistica della gestione del mondo universitario e della ricerca.
Nelle proposte per l’università di roars ne scriviamo eccome. SEnza una rappresentanza forte della comunità scientifica, ANVUR e ministero possono fare quel che credono. Le società scientifiche non sono la comunità scientifica. Ma ad ANVUR fa comodo averle come interlocutrici. Divide et impera…
A me sembrano tanto lacrime di coccodrillo!
Se i rettori, e quindi anche la CRUI, si fossero dimessi in blocco la riforma Gelmini non sarebbe mai passata!
Infatti, da parte della CRUI è mancata, ma per anni, una visione d’insieme sull’andamento e sul monitoraggio delle varie riforme e ritocchi delle riforme. Quanto all’ultima, la ‘gelmini’, si poteva prevedere che avrebbe avuto conseguenze disastrose, ma non soltanto per il ridimensionamento dei finanziamenti di qualsiasi tipo, ma perché tutto è stato nuovamente buttato per aria. Per non parlare del circo abilitativo nazionale.
Quando non ci si oppone a certe scelte politiche, quando non se ne prendonoo le distanze, c’è corresponsabilità. O quanto meno ambiguità, per essere moderati.
se la visione è mancata per anni, non è una buona ragione, forse, per respingerla quando essa emerge.
Per adesso sono solo parole, vediamo se e quando salteranno fuori i fatti. Per adesso sono ancora solo lacrime di coccodrillo!
Intanto, la CRUI potrebbe cominciare a chiedere chiarezza istituzionale su
se stessa: per quel che mi risulta (correggetemi se sbaglio) è ancora un’organizzazione privata. Ora, perchè un’organizzazione privata diventa organo di consulenza del ministero? Non sarebbe opportuno che prima il ministero precissasse da chi è formata la CRUI, come deve essere organizzata, prima di indicarla come consulente?
Per ora, il mondo universitario è rappresentato dal CUN (con tutte le sue limitazioni e i suoi difetti); la CRUI rappresenta solo se stessa. E io mi fiderò solo quando saltano fuori fatti.