ABRAVANEIDE – Atto III
Continua l’Abravaneide, la rubrica di Roars che consegna alla posterità i più epici strafalcioni di Roger Abravanel su scuola e università. In un articolo apparso il 5 maggio sul Corriere della Sera, Roger Abravanel ha sostenuto che “la nostra università è gratuita”, che “l’università italiana è tutto tranne che un «ascensore sociale. La colpa è delle tante lauree inutili sfornate da mediocri atenei che da anni creano schiere di giovani disoccupati» e che gli studenti non dovrebbero lamentarsi per «vecchi stereotipi come l’assenza del diritto allo studio“. Tutte affermazioni smentite dalle statistiche nazionali e internazionali. Secondo l’OCSE le tasse universitarie italiane sono le terze più alte in Europa, dopo Regno Unito e Paesi Bassi, mentre gli studenti italiani sono agli ultimi posti in quanto a sostegni diretti e indiretti per il diritto allo studio. I dati AlmaLaurea 2014, inoltre, mostrano che il tasso di disoccupazione dei diplomati supera di 12 punti percentuali quello dei laureati.
I link a tutte le puntate dell’Abravaneide, l’epica raccolta degli svarioni di Abravanel:
- ABRAVANEIDE – Atto I
Abravanel e D’Agnese: troppi errori nel loro libro “La ricreazione è finita” - ABRAVANEIDE – Atto II
“La ricreazione è finita”, ma di fiabe per sognar/A mille ce n’è/Nel mondo di Abravanel - ABRAVANEIDE – Atto III
Le parole (disinformate) di Abravanel sull’università - ABRAVANEIDE – Atto IV
Roger Abravanel, l’auto a energia cinetica e l’arcivernice di Giavazzi - ABRAVANEIDE – Atto V
Parola di Abravanel: «la meritocrazia esiste solo nel calcio» - ABRAVANEIDE – Atto VI
Roger Abravanel: 110 e lode … in svarioni
In un articolo apparso il 5 maggio sul Corriere della Sera, Roger Abravanel (atteso in questi giorni nelle più prestigiose università milanesi, Bocconi e Politecnico, per la presentazione del suo ultimo libro) ha tra l’altro sostenuto che “la nostra università è gratuita”, che la “colpa è delle tante lauree inutili sfornate da mediocri atenei” e che gli studenti non dovrebbero lamentarsi per “vecchi stereotipi come l’assenza del diritto allo studio”. Partecipando poi la stessa mattina ad una trasmissione radiofonica, come ci informa un tweet di Radio Tre, ha sostenuto che “le scuole del Sud sono al livello dell’Afghanistan”.
Tali affermazioni sollevano alcune peplessità. Come certificato dall’”Education at a glance” dell’Ocse le tasse universitarie in Italia (per l’ultimo anno disponibile) si attestano a 1407 dollari a parità di potere d’acquisto, cioè il livello più alto fra i paesi europei considerati dall’organizzazione dopo Regno Unito e Olanda. La stessa organizzazione certifica un forte aumento delle tasse universitarie italiane negli ultimi anni; la Banca d’Italia, nel suo recente “L’economia delle regioni italiane” collega l’aumento del costo dell’università ad una diminuzione delle iscrizioni, soprattutto di studenti del Mezzogiorno di famiglie a basso reddito. L’università italiana non è quindi né gratuita né “pressocchè gratuita”, come sostenuto il 12 aprile sullo stesso giornale da Alesina e Giavazzi.
Quanto ai mediocri atenei, un recente lavoro di Emanuele Ciani e Vincenzo Mariani della Banca d’Italia cerca di misurare l’esito occupazionale dei laureati di diverse università, tenendo conto del tipo di studi svolti e delle condizioni territoriali del mercato del lavoro. La “graduatoria” che ne emerge è non priva di sorprese e suggerisce grande prudenza nell’attribuire la qualifica di “mediocre”. E’ interessante ad esempio vedere che l’Università di Bari (dove lavora chi scrive), definita il 19 agosto 2013 da Giavazzi, sempre sul Corriere “una fabbrica di illusioni”, la cui chiusura sarebbe opportuna, figura nona su 68 nella stima dei ricercatori sulla capacità occupazionale dei propri laureati.
Studenti universitari beneficiari di borsa in Italia, Spagna, Germania e Francia, a.a. 2006/07, 2010/11 e 2011/12 a confronto.
Quanto al diritto allo studio, è assai diffusa fra gli esperti di istruzione l’opinione che forme reali o monetarie di sostegno agli studenti siano non uno stereotipo ma una componente essenziale delle politiche universitarie. Sempre l’Ocse mostra che la percentuale di studenti italiani che ne beneficia è più contenuta rispetto ad altri paesi europei; dati Anvur, ripresi in una recente analisi di chi scrive, mostrano anche che tale sostegno è assai più basso nelle regioni del Sud rispetto al resto d’Italia.
Infine, quanto all’Afghanistan, forse non sono necessari commenti né sui contenuti né sullo stile dell’affermazione. Il lettore interessato alle scuole del Mezzogiorno può consultare il rapporto della Fondazione Res – in uscita da Donzelli – che prova a misurare la capacità delle scuole di accrescere le competenze degli studenti – dato il loro livello di partenza – e mostra una situazione non priva di criticità, ma con moltissime scuole del Sud che raggiungono risultati eccellenti.
Apparso su:
Il raccontar balle è uno sport particolarmente sviluppato oggigiorno presso chi ha potere e che significa manipolazione dell’opinione e delle persone. Che va dall’omissione parziale o totale dell’informazione, al ritardo nell’informazione, all’invenzione dell’informazione, alla ritrattazione successiva (che non raggiunge le stesse persone), alla retorica che magari impressiona ma non dice niente (tipo “il futuro inizia oggi” e simili), al tono persuasivo e sicuro di sé (se lo dice con tanta convinzione, sarà vero, la saprà più lunga, ecc.). Dunque, che va dal contenuto alla forma. Del resto, non sto dicendo niente di nuovo. Però lo sto dicendo, e così dovrebbero fare moltissimi altri più autorevoli.
Avete fatto un errore “da manuale”. Dal grafico con i diversi livelli di disoccupazione non si può in alcun modo desumere che frequentare l’Università “causi” migliori chance sul mercato del lavoro. Non siamo in un contesto di esperimento aleatorio.
Personalmente sono convinto che l’università sia “utile”. Ma l’evidenza empirica va maneggiata con cura. Altrimenti si fa disinformazione.
Un saluto,
Lucio Picci
Università di Bologna
Esattamente di quale “manuale” si tratta ?
Per esempio, Stock & Watson, Introduction to Econometrics (3rd Edition) (questione affrontata in vari capitoli). E un’infinita letteratura sulla stima dei cosiddetti “treatment effect”. Interpretare in senso causale delle differenze negli esiti tra gruppi non confrontabili rappresenta un ragionamento fallace che purtroppo i media propongono spesso. Chi va all’università ha caratteristiche diverse rispetto a chi interrompe gli studi: l’attribuzione al gruppo “di trattamento” e “di controllo” è tutto men che aleatorio. Per cui la differenza tra gli esiti non è particolarmente informativa. O meglio, non permette di distinguere in quale misura la differenza riscontrata sia (eventualmente) attribuibile all’aver frequentato l’università (il “trattamento”, nel gergo), e in quale (eventualmente) alle diverse caratteristiche di chi decide di frequentarla, rispetto al resto della popolazione. Con quei dati, potrebbe persino essere (e sottolineo, non è questa la mia opinione) che l’università sia “dannosa”, ma che il danno non sia tale da azzerare il vantaggio qualitativo che chi sceglie di frequentarla comunque avrebbe.
Questo fuori di polemica: l’articolo citato pare anche a me ampiamente criticabile. Solo per dire che quel “fact check” non è tale.
Caro Picci, lei ha perfettamente ragione. Ma se per criticare Abravanel dobbiamo pensare di mettere in piedi un esperimento aleatorio, con un gruppo di controllo ben fatto e con econometria appropriata, non se ne esce proprio. Sono meravigliato che si possa sostenere sulla base di questo che roars fa “disinformazione”, salvo poi aggiungere “fuori di polemica”
Se il mio medico di famiglia, a fronte di una probabile sindrome influenzale, mi dicesse: “Carissimo, preferisco non pronunciarmi prima che lei sia sia sottoposto ad almeno i segunti esami: Rx torace, esami del sangue, total boby tac. Solo allora le spiegherò con cognizione cosa sta causando il suo stato febbrile e le prescriverò i farmaci del caso. E’ del tutto probabile che si tratti un raffreddore e che se la caverà con due aspirine, ma sa nel manuale di stock&watson si dice che…”; non penserei che sta svolgendo scrupolosamente il suo lavoro. Mi limiterei a cambiare medico!
Non si tratta di tecnicismi, ma di una questione di base per leggere correttamente dell’informazione quantitativa. Abravanel lo potete proficuamente criticare in tanti modi, ma non interpretando informazione quantitativa in modo “istintivo ma errato”. A me la questione sta a cuore perché viviamo in un paese dove l’informazione quantitativa viene sistematicamente violentata. Sarebbe bello migliorarsi. Questo detto, fate un po’ voi. Un saluto
Nessun tecnicismo. Il rigore di una argomentazione è una questione di gradi. E va commisurato alla serietà della questione. Così come le indagine cliniche vengono commisurate alla serietà presunta della patologia.
Nessuno di noi si sognerebbe mai sulla base del grafico di Almalaurea di sostenere qualche relazione di causalità.
La figura si limita a illustrare, in prima approssimazione ed in riferimento ad una affermazione di Abravanel, che “Il grafico [Almalaurea] mostra che il tasso di disoccupazione tra i non laureati è maggiore che tra i laureati”.
Abravanel parla di “lauree inutili sfornate da mediocri atenei che da anni sfornano schiere di giovani disoccupati”. Noi ci siamo limitati a copiare un grafico preso dal Rapporto Almalaurea che mostra che la percentuale di disoccupati tra i laureati è sensibilmente inferiore a quella dei diplomati e che, nel generale peggioramento subentrato dal 2008, la forbice è andata allargandosi. Non vedo come la pubblicazione di un grafico (che mostra che la schiera dei laureati disoccupati è meno schiera di quelli diplomati e molto meno schiera di quelli nemmeno diplomati) possa configurarsi quale “errore da manuale”. Boh.
Mi sembra che il professor Baccini abbia ragione. Insomma, per dirla con Popper (cito a memoria), non bisognerebbe esigere più precisione di quanta è necessaria per risolvere il problema. Pare che fra gli economisti la metodologia di Popper abbia un certo successo. Potrebbero allora aderire anche a questo suo precetto metodologico.
Il problema non mi pare chi dice cose sbagliate ma perché giornali di grande livello danno spazio a informazioni errate, approssimative senza un minimo di verifica. Esiste in Italia una scuola di pensiero tra certe classi dirigenti, soprattutto lombarde, che bisogna demolire il sistema di educazione statale per sostituirlo con un sistema misto privato – pubblico, in cui il pubblico fornisce la educazione di basso livello e il privato forma le classi dirigenti. Il resto mi pare solo propaganda strumentale a questo progetto.
Ma è vero che Abravael è nel consiglio di Amministrazione dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT)?
A che titolo? E’ esperto di robotica? E’ esperto di neuroscienze? E’ esperto di economia aziendale?
Qual’è il suo h-index?
Ha mai pubblicato su Nature o Science?
L’IIT è una “fondazione privata” finanziata dallo Stato Italiano, o sbaglio?
A che titolo lo Stato Italiano paga indirettamente “i gettoni di presenza” ad una persona che con i suoi scritti denigra, con affermazioni molto dubbie, varie istituzioni del MIUR?
Non esiste un codice etico all’IIT?
Una volta si diceva che c’erano i cattivi maestri comunisti pagati dallo Stato. Ora abbiamo i cattivi maestri confindustriali pagati dallo Stato.
Bisognerebbe chiedere a IIT infatti se ci fosse una comunità scientifica ancora viva e vigile. Ne ho discusso qui http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/03/08/merito-e-regole/96083/
Ho appena controllato: lo hanno defenestrato!
Era presente nel Board del 2014.
che fosse troppo persino per loro?
Buonasera,
un’osservazione sugli importi delle tasse.
Per dovere di cronaca credo che dovremmo considerare anche la tabella B5.1 dello stesso rapporto (p. 270-271), dove si specifica che per l’Italia “the annual average tuition fees are calculated on the basis of the actual tuition fee paid by each student; students totally exempted from fees are not included in the calculation of the average”. Visto che qui da noi le tasse sono proporzionali al reddito dichiarato – questo è il principio, poi ci sono differenze anche rilevanti tra ogni ateneo sugli importi finali- ho l’impressione che l’importo medio potrebbe essere stato condizionato dagli studenti che non presentano alcuna dichiarazione e che automaticamente pagano il massimo (le motivazioni di tale scelta – certamente da non attribuire agli studenti in prima persona – credo siano argomento più da blog specializzato in evasione fiscale che in vita accademica). Ci sono dati in proposito?
Inoltre non considerare nel conteggio gli studenti totalmente esentati dal pagamento delle tasse deve aver alzato ulteriormente la media finale.
Non penso comunque che anche tenendo conto di questi fattori il dato cambi in maniera sostanziale.
Saluti, LM
La percentuale italiana di studenti esentati è in effetti tra le più basse in Europa:
Fonte:The European Higher Education Area in 2015: Bologna Process Implementation Report
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