Mario Mauro, uno dei “saggi” nominati dal Presidente Napolitano, è stato responsabile nazionale per la scuola e l’università di Forza Italia. Una sintesi delle sue posizioni politiche è contenuta nel testo della seguente intervista, rilasciata nel 2008 a Radio Radicale. I temi trattati sono: finanziamento, autonomia, reclutamento, ricerca pubblica e privata, ma anche valutazione e ANVUR.

Link all’audio dell’intervista

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Alessandro Caforio (Radio Radicale): Il  tema dell’università non è esattamente al centro dell’agenda in questa campagna elettorale ma è senz’altro un tema molto importante. Lei  si occupa, per il Popolo delle Libertà, di questa questione. Cosa possiamo dire?

Mario Mauro: Innanzi tutto, un’osservazione sul fatto che l’argomento non sia proprio sugli scudi: ciò indica ancora una volta la fatica che il nostro paese ha compiuto in tutti questi anni per tornare competitivo. Infatti, se c’è un’emergenza reale per il paese Italia, e anche anche per il sistema Italia, è quella legata all’emergenza educativa, emergenza educativa che ha nodo centrale anche nel rapporto con la formazione della classe dirigente e con l’incremento di innovazione e ricerca per quello che è il sistema imprenditoriale.

Ora, è evidente che parlare di riforma dell’università italiana è cosa molto complessa. I punti chiave di una prospettiva riformista che risponda alle esigenze di modernizzazione del nostro sistema universitario si possono comunque riassumere nell’esigenza di affiancare alla autonomia – ad un’autonomia reale degli atenei – un principio di responsabilità, di maggiore responsabilità. E nella necessità di avviare condizioni di sana e vera competitività tra gli atenei stessi, sciogliendo quindi fino in fondo il nodo del rapporto tra pubblico e privato.

Se queste sono le premesse, occorre instaurare un circolo virtuoso che consenta di legare una parte dei finanziamenti alla valutazione dei risultati conseguiti dalle singole università, di attribuire agli atenei la responsabilità del reclutamento dei professori, nel rispetto di verifiche nazionali di idoneità, e di consentire concretamente che una parte della retribuzione dei professori sia collegata ai risultati conseguiti in termini di qualità della ricerca e della didattica

L’attenzione quindi sulla formazione, ma anche, importantissima,  sulla questione della ricerca dove il nostro paese non è esattamente diciamo all’avanguardia …

Da più parti si torna sul concetto che per poter fare passi avanti  bisogno innanzi tutto generare un vero e proprio sistema di valutazione. In questo senso, mi permetto di sottolineare che, mentre da un lato si era introdotto con il Ministro  Moratti  il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (CIVR), dall’altro il ministro Mussi aveva bloccato il tutto in attesa di varare una agenzia nazionale per la valutazione della ricerca e dell’università, il cosiddetto ANVUR, che si era rivelato una sorta di Orwelliano grande fratello, nelle condizioni di attribuire una parte dei finanziamenti agli atenei sulla base dei risultati conseguiti, ma che in realtà si era poi trasformato in un filtro con la tendenza a certificare l’idoneità scientifica raggiunta dai futuri professori. Un meccanismo sostanzialmente molto molto farraginoso che peraltro aveva ricevuto un investimento di soli cinque milioni di euro e che quindi si è svelato essere una un sorta di scatola vuota.

Non è una cosa semplice produrre un sistema di valutazione dell’università  realmente indipendente. Ad esempio, il sistema inglese, il RAE che, si badi bene, non decide degli stipendi dei docenti ma solo della distribuzione dei fondi di ricerca, ancora oggi viene messo al momento pesantemente in discussione e verrà probabilmente sostituito da qualcos’altro. Un sistema di valutazione in ogni caso ci vuole,  non si improvvisa dall’oggi al domani e, a mio modo di vedere, vale la pena stare sulla strada tracciata qualche anno fa dalla Moratti  e quindi in qualche modo incrementare gli sforzi per la realizzazione del comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca

Una delle questioni fondamentali, al di là dei programmi e delle possibili soluzioni, per quanto riguarda il nostro paese è la questione dei fondi. Lei accennava poco fa anche a questo. Cosa ci possiamo aspettare dal futuro? L’università e la ricerca anche da questo punto di vista sono le  cenerentole del nostro paese. L’Impressione è che spesso alla ricerca e all’università vada un po’ quello che resta.

Innanzi tutto, bisogna fare un’osservazione di scenario. Nell’Unione Europea, e segnatamente in Italia, la spesa per l’attività di istruzione è non troppo dissimile da quella che avviene in altri paese avanzati, gli stessi, Stati Uniti. Tutto cambia però nel momento in cui si  parla di formazione superiore, quindi di investimento sul  livello universitario. Su questo  livello, invece, la differenza è sostanziale, i nostri meccanismi sono ancora  troppo farraginosi. Quindi, un maggior investimento nella spesa universitaria, legata a una razionalizzazione della spesa stessa, è sicuramente auspicabile.

Per quanto riguarda il segmento  ricerca, invece, l’investimento è senz’altro insufficiente. Appare insufficiente sia dalla parte della mano pubblica, dove si registra uno scompenso nella struttura di razionalizzazione della spesa, sia, soprattutto, nella capacità poi di attivare anche la ricerca fatta dai privati, il meglio della cultura imprenditoriale della nostro paese.  È evidente che per questo occorre uno sforzo che deve essere sì delle istituzioni, ma anche in qualche modo del nostro tessuto imprenditoriale. La necessità di determinare a breve strategie mirate da parte di quello che è il meglio del sistema paese credo che sia il nodo in questione. A questo proposito, io rilevo il fatto che in realtà il sistema Italia sulla ricerca è stato capace di performance egregie per quello che, ad esempio,  è lo sfruttamento della struttura  del VII Programma Quadro dell’Unione Europea, come già aveva fatto a proposito del VI Programma Quadro.

Più fragile appare, invece, quando deve governare processi di innovazione e ricerca sul piano più strettamente legato al coinvolgimento, appunto, sia degli investimenti della  mano  pubblica e – associato a  questo – della mano privata. Credo che questo possa esser l’impegno  di chi si assumerà  nell’immediato futuro la responsabilità del governo del sistema dell’università e ricerca del nostro paese.

Una delle questioni su tavolo da molti anni è quella dei ricercatori, di chi fa ricerca all’interno degli istituti e delle università. Anche qui molti hanno denunciato un sistema spesso  baronale, anche dal punto di vista semplicemente della selezione. Su questo cosa cosa ci può dire?

Innanzi tutto mi pare fondamentale l’esigenza di incoraggiare l’apertura dell’università ai giovani. Occorre in questo senso unificare le varie figure dei contrattisti in un’unica figura di ricercatore a contratto, dotato sì di tutela previdenziale, ma favorendo altresì la destinazione di  specifiche  ricerche al reclutamento di ricercatori giovani. Ritengo in questo senso che siano le università a dover decidere se servirsi di ricercatori a contratto o a tempo indeterminato, perché questa decisione investe direttamente lo spazio di autonomia e, quindi, di come queste intendono organizzare la ricerca nei propri atenei. Personalmente, infatti, io ritengo un errore la completa eliminazione del professori a contratto, che rischierebbe di far perdere utili esperienze professionali al mondo dell’università. Il meccanismo, ad esempio, di una libera docenza nazionale per soddisfare esigenze di questo tipo rischierebbe di essere particolarmente farraginoso.

Un punto centrale, da cui non voglio sfuggire, è comunque quello di incrementare i finanziamenti per le università. Occorre quindi, rispetto anche a  quello che dicevo prima, aumentare i finanziamenti  privati all’insegna del principio “niente tasse sulla ricerca”. E tuttavia, fino a quando rimarranno ai livelli più bassi tra i paesi OCSE, lo stato nel nostro paese dovrà fare la sua parte.

La ricerca, inoltre, va liberata da quelle pastoie burocratiche e dai tempi lunghissimi per ottenere i finanziamenti. Avere risorse dopo un anno dalla richiesta in questo settore è un non-senso. A fronte quindi di un incremento di finanziamenti privati, appare senz’altro ragionevole che lo stato si faccia carico di sostenere la ricerca anche nel campo addirittura delle scienze umane, destinate verosimilmente essere più trascurate dalle imprese. Io credo che una seria competizione non si possa fare, peraltro, quando molti atenei Italiani sono sull’orlo del dissesto finanziario e questo, purtroppo, è un tema oscurato purtroppo in troppe analisi.

La questione della gerontocrazia che spesso è denunciata dagli studenti: secondo lei si pone? E che freno si può mettere a questo inconveniente?

È quello che ho detto prima: se non abbiamo meccanismi contrattuali che snelliscano e valorizzino la professionalità di chi si sacrifica in un settore come quello dell’università e ricerca, evidentemente favoriamo l’esistenza di vera e propria rendita politica sulle cattedre universitarie come sull’attività di ricerca vera e propria. Lo snodo passa qua, ma io credo che la strada che si era aperta, appunto, con i meccanismi di riforma del reclutamento  del personale della la riforma Moratti vada nella giusta direzione.

Andiamo a concludere. Una considerazione più generale, forse da profani  L’impressione è che il sistema di ricerca e di apprendimento anglosassone – per uno scherzo del destino o forse no – sembri portare maggiori risultati Secondo lei, la riorganizzazione verso quel tipo di sistema scolastico potrebbe essere una soluzione?

 

È molto importante non confondere i  livelli.  Se parliamo dei risultati del sistema scolastico anglosassone, qualche dubbio ce l’ho. Se parliamo,  invece, di formazione superiore cioé del sistema universitario, certo la differenza  spicca, emerge ed è significativa. Noi cosa dobbiamo fare?  Abbiamo un sistema scolastico che in questo momento è sostanzialmente difettato. Su questo va  posta grande  attenzione. Questo non va fatto attraverso maggiori investimenti, o non immediatamente attraverso maggiori investimenti. Va fatto, invece, attraverso una razionalizzazione della spesa. Non dimentichiamo che abbiamo un sistema scolastico dove ci sono 167 mila bidelli che è una cifra che appare da ogni punto di vista eccessiva. Ma non solo: dove i professori  e i bidelli sono in un’unica area contrattuale e quindi non c’è premio della professionalità.

Se parliamo del sistema universitario, questo rimane un cruccio ugualmente presente. Nel senso che molto probabilmente la possibilità di definire i percorsi professionali dei professori universitari dovrebbe essere il fatto che fa esplodere l’autonomia delle università e che le fa crescere. Se parliamo di autonomia, ma poi I’autonomia nella sostanza non c’è, perché all’inizio di ogni anno si vive del riflesso di un budget centralizzato, deciso comunque dal ministero a Roma, evidentemente parliamo di un’autonomia solo fittizia.

Per risolvere questo problema il modello anglosassone è assolutamente interessante, ma un modello dove l’autonomia c’è, è reale ed è reale, però, anche la responsabilità. È veramente possibile in un università  anglosassone scegliere i professori, ma anche conseguente la responsabilità di questa scelta  di dover garantisce risultati. Io credo che se mettessimo ai voti  nelle università italiane questo principio, molti  tremerebbero. Quindi, è una strada che una una politica illuminata, una politica di buon senso deve disporsi senz’altro a percorrere.

(10 aprile 2008 – intervista di Alessandro Caforio per Radio Radicale)

 

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19 Commenti

  1. Le tesi di Mauro sono interessanti. Rispecchiano in buona parte la visione e le preoccupazioni che hanno motivato la riforma Gelmini, in particolare la convinzione/fede che il nodo cruciale fosse l’introduzione della valutazione. Allo stesso tempo, a differenza di altri politici del centro destra e di altri opinionisti, c’è la consapevolezza chiara di un problema di sottofinanziamento (“Un punto centrale, da cui non voglio sfuggire, è comunque quello di incrementare i finanziamenti per le università”) e di ritardo del mondo imprenditoriale (“occorre uno sforzo che deve essere sì delle istituzioni, ma anche in qualche modo del nostro tessuto imprenditoriale”). Interessante, anche la dichiarata opzione a favore di un “modello UK”, collegabile forse alle discussioni sui mezzi di stampa negli anni precedenti. Tuttavia, Mauro è al corrente delle controversie sul RAE che non viene mitizzato ed è anche scettico sull’ANVUR voluto da Mussi, in particolare sull’allargarsi dei suoi compiti anche ai criteri delle abilitazioni scientifiche.

    • L’intervista di Mauro è una testimonianza che anche nel centrodestra chi teneva gli occhi aperti non poteva negare l’evidenza. Evidenza che è stata negata dalla Gelmini e dai soliti editorialisti per spingere una riforma dagli effetti letali. È proprio Mauro a evidenziare il pericolo di concentrare troppi poteri in un ANVUR Orwelliano e anche l’opportunità di non abolire la figura del ricercatore a tempo indeterminato. L'”impatto politico nullo” delle tesi di Mauro (che comunque era europarlamentare) dimostra che la politica universitaria del centrodestra è stata l’espressione di un estremismo ideologico giustificabile solo come frutto di fanatismo disinformato oppure come parte di un progetto teso al ridimensionamento di una fetta consistente del sistema universitario e della ricerca, ritenuto sovradimensionato per un paese che non ambisce a rimanere in serie A.

    • Sono d’accordo, ma a me la cosa che mi ha più impressionato è stato constatare l’assenza di voci diverse all’interno del centrodestra e anche del circo mediatico al contorno (come non ricordare quelli che: meglio la riforma Gelmini che nessuna riforma?). Se ci fosse stato qualcuno con cui discutere, se ci fosse stato un minimo di dabattito interno sarebbe stato perlomeno meno sfacciato e arrogante l’aver approvato una devastazione di tal fatta. Magari le parti più incredibili sarebbero potute essere migliorate, chissà! Purtroppo nel migliore dei casi ho trovato parlamentari che non sapevano neppure quello che facevano (ad esempio i simpatici rappresentati di Futuro e Libertà incontrati sui tetti di architettura). Gli altri semplicemente non sono mai comparsi.

    • Sono pienamente d’accordo. La riforma è stata “venduta” come una guerra santa contro le baronie, mentre in realtà dava tutto il potere ai rettori e agli ordinari. Come in tutte le guerre, la prima vittima è stata la verità. Nelle fasi convulse dell’approvazione la cieca ideologia prevaleva su tutto. Giavazzi scriveva un editoriale sulla prima pagina del Corriere (“Un paese fuori corso”, http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_24/un-paese-fuori-corso-editoriale-francesco-giavazzi_b658834c-df3d-11df-ae0f-00144f02aabc.shtml) che era un vero e proprio manifesto ideologico costellato di affermazioni prive di riscontro (“Che nell’università ci siano troppi professori è un fatto”, “non possiamo più permetterci un’università quasi gratuita” e così via). Il fatto che nel centrodestra e sul Corriere non si levasse nessuna voce più equilibrata è servito ad etichettare chi evidenziava le assurdità della propaganda gelminiana come un oppositore politico pregiudizialmente contrario ad ogni iniziativa del governo. L’università è stata sacrificata sull’altare del governo Berlusconi che aveva bisogno di portare a casa un qualche risultato che ne giustificasse l’esistenza (con l’assenso cinico e forse interessato di chi vedeva di buon occhio il ridimensionamento del sistema universitario statale).

  2. Fra i 10 “saggi” c’è anche almeno un altro “nemico giurato” dell’Anvur, Onida, che presentò il ricorso come presidente AIC contro la bibliometria “retroattiva” e altre questioni inerenti la ASN, mi pare.

    • Ai commentatori politici è sfuggito lo scopo principale dietro la nomina dei saggi: Napolitano vuole abolire l’ANVUR ;-)

  3. L’intervista è interessante anche solo per il fatto che ci si rende conto che all’interno di quella stessa frangia che aveva approvato la seconda legge “porcata” (la legge Gelmini), c’erano figure che sapevano con coscienza fare una corretta analisi critica.

    Mi domando, però, cosa serva scoprirlo OGGI, con due anni e passa di ritardo. Sarebbe stato interessante scoprirlo, invece, durante quei giorni di fermento ed avere in Mauro un possibile contatto con cui confrontarsi. In poche parole, il saggio Mauro, in quel periodo, dove stava? Che diceva? Che faceva? Era in piazza? Manifesta tutti questi dubbi alle sedi opportune o si limitava a esprimerle solo a Radio Radicale?

    • Apparentemente, non serve a molto. Tuttavia, documentare che questa riforma è stato frutto di una deriva estremista è un passaggio fondamentale per chiedere ed ottenere una virata. Nel mondo politico e nell’opinione pubblica, le logiche emergenziali che hanno giustificato e giustificano il dissanguamento del sistema universitario sono ancora ben radicate. Per questo, è importante documentare che persino un moderato di area CL era convinto del sottofinanziamento, dell’opportunità di mantenere i ricercatori a tempo indeterminato, della natura Orwelliana di un ANVUR che concentra troppe responsabilità e troppi poteri. La distruzione dell’università è stata resa possibile dall’aver fatto passare come del tutto normali quelle che erano in realtà ricette estremiste (e tossiche). Talmente estremiste da non essere condivise neppure da un esponente del centrodestra come Mauro. Nella polarizzazione rinfocolata ad arte dai media, sostenere che l’università italiana è tra le meno finanziate del mondo e che il livello della sua ricerca è internazionalmente competitivo voleva dire essere etichettati come inguaribili statalisti, difensori degli sprechi e della casta dei baroni. Neppure i numeri dell’OCSE hanno superato indenni questa riscrittura della realtà (si veda l’aggiustamento “fai-da-te” del costo medio per studente ad opera di Perotti). Prima che i danno siano irreparabili (e in parte già lo sono) bisogna riportare al principio di realtà la classe politica e l’opinione pubblica. Impresa disperata, soprattutto in certe aree.

    • In mia opinione, nel 2008 l’università italiana aveva degli aspetti positivi (i nostri laureati erano molto apprezzati all’estero, con i pochi finanziamenti si era comunque competitivi in termini di produzione scientifica con il resto del mondo, c’erano comunque delle personalità di primissimo piano) e aspetti negativi (esito “non precisamente ottimale” dei concorsi, sprechi, impossibilità di cacciare i cosiddetti “fannulloni”, poco riconoscimento del merito, potere in mano di pochi, difficoltà di accesso per i giovani ai ruoli accademici). Negli ultimi cinque anni, per curare i mali che comunque c’erano, la ricetta della politica è stata di colpire tutto il sistema, ma soprattutto la sua parte sana.

      I rettori hanno visto i propri mandati aumentati da quattro a sei anni.
      I prof ordinari sono diventati gli unici a poter entrare nelle commissioni di concorso.
      Il blocco delle carriere e degli stipendi poi, ha danneggiato proprio i docenti più giovani. Un docente sessantenne ha già uno stipendio considerevole. Tutto sommato perdere un paio di scatti di anzianità e trovarsi lo stipendio bloccato ha un peso sopportabile. Ben diverso è il caso dei ricercatori giovani che si sono trovati lo stipendio fermo al livello più basso e l’impossibilità di avanzare nella carriera. In pratica, i danni economici sulle retribuzioni sono stati regressivi: tanto a chi aveva poco e poco a chi aveva tanto.

      Il danno maggiore però è arrivato con i blocco del reclutamento per cui chi era fuori dal sistema (i cosiddetti “precari”) si è visto chiudere le porte in modo irreversibile. In cinque anni è stata espulsa dall’università una generazione intera, e i danni saranno pesanti. Se a tutto questo aggiungiamo tagli ai fondi di ricerca e alle borse di studio, il quadro è desolante.

      Di fronte a danni sicuri e immediati, sono arrivati benefici possibili e futuri, come l’ANVUR, ma è troppo presto vedere un suo eventuale impatto positivo sul sistema universitario.

    • Ora che ci penso: Bella non si preoccupi dei precari. Fantoni ha detto a più riprese che tutto quello che sta facendo, lo fa per i giovani. Le consiglierei di aspettare i benefici anvuriani, non tarderanno ad arrivare.

    • @Alberto Baccini
      Non ho problemi ad affermare che ANVUR avrà fatto danni, solo però dopo che potremo effettivamente verificarli. Non mi risultano studi scientifici sulla predizione del futuro. Al momento, (Aprile 2013) l’impatto di ANVUR sul sistema universitario è ancora mimino.
      In mia opinione, di fronte a molti punti sicuramente problmatici ci sono anche aspetti del lavoro svolto che andrebbero salvati e valorizzati, qualsiasi sia il colore politico del prossimo ministro. Dubito che sia possibile cancellare ANVUR con un semplice colpo di spugna, piuttosto sarebbe importante che si aprisse di più ai suggerimenti e alle critiche costruttive della comunità accademica.

  4. lo sapete che Mario Mauro è salito sul treno di Monti uscendo dal PdL, vero? Mi ricorda la parabola dell’on. Valditara che sembrava almeno disposto ad ascoltare le ragioni dei ricercatori : è finito nel FLI con i noti risultati…
    Non è che occuparsi seriamente di ricerca nel centro-destra porta un pò di sfiga, finendo per diventare politicamente irrilevanti?

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