Di fronte al tanto discutere di meritocrazia, penso che si debba innanzi tutto porre una domanda: perché in certi momenti storici nasce la sua esigenza? Ovvero, perché sembra diventare essenziale sottolineare la necessità di gratificare adeguatamente (non solo in termini economici) chi ha più capacità?

In una società governata da ceti e privilegi basati sulla ereditarietà e sul sangue o nobiltà, non si pone il problema del merito: chi detiene una posizione di privilegio è stato ‘scelto’ o per motivi naturali (il sangue più puro) o in base a ragioni sacrali (l’elezione divina), oppure per una storia che lo ha selezionato in quanto appartenente a una famiglia che ha acquisito meriti passati (di servizio, militari, eroici o quant’altro). Il merito è già tutto inscritto nella suddivisione castale e le classi o caste superiori sono in quanto tali più meritevoli, così come lo sono i singoli ad esse appartenenti. In una società compiutamente democratica, basata sull’eguaglianza e sulla mobilità sociale, in cui vengono meno vincoli ereditari o di sangue, pure non si parla di merito, in quanto si assume che è lo stesso principio democratico a costituire il meccanismo che porta i migliori a prevalere per le proprie virtù e qualità, che hanno sempre modo di farsi luce, di affermarsi nel posto e nel modo dovuto.

Si parla di merito solo quando i due meccanismi si inceppano: quando l’aristocrazia non è più pari ai propri compiti e i figli sono palesemente inetti a fare quello che è loro assegnato ereditariamente (l’amministrazione e la carriera militare), portando alla crisi del sistema castale e/o aristocratico; o quando la democrazia non funziona più in modo efficiente, selezionando governanti sempre più inetti, incapaci, corrotti e con sempre minore credito di fronte a coloro che nominalmente ne dispongono. L’invocazione del merito e il bisogno socialmente diffuso e sentito di un suo riconoscimento nascono in una situazione patologica, malsana, inceppata.

Se fermiamo l’attenzione sulle società democratiche, la loro degenerazione deriva dal fatto che il principio in base al quale esse garantiscono un governo migliore rispetto a quelle oligarchiche o castali – la possibilità che in una libera competizione di ingegni i migliori riescono a ottenere i posti di maggiore responsabilità sociale e politica – viene di fatto ad incepparsi per il progressivo vanificarsi di efficienti meccanismi di mobilità sociale e per il consolidarsi di élites che si autoriproducono in base al vantaggio posizionale occupato nella società (i notai che hanno figli notai, ecc.).

È chiaro che in questo quadro è interesse delle élites predisporre tutte le misure che possano garantire il perdurare del proprio privilegio e quindi – innanzi tutto – inceppare i meccanismi che contrastano una mobilità sociale rischiosa per le loro rendite di posizione. Ciò può avvenire innanzi tutto col minare uno dei modi che è stato storicamente il fattore principale di mobilità sociale, cui i meritevoli e le classi disagiate e marginali potevano avere più facilmente accesso: un sistema pubblico, universale, egualitario e laico di formazione e di qualificazione per l’accesso alle professioni e ai ruoli più elevati della scala sociale. Le differenze di partenza che inevitabilmente esistevano in una società socialmente stratificata erano in parte contrastate e controbilanciate sia con opportune provvidenze pubbliche (borse di studio ecc.), sia con l’impe­gno e il sacrificio dei singoli e delle loro famiglie, che pagavano costi altissimi pur di permettere ai propri figli un futuro migliore.

Un meccanismo, questo, potenzialmente assai pericoloso, cui le élites non potevano certo rassegnarsi e che è stato di fatto via via smobilitato dalla contro-rivoluzione che è avvenuta con l’affermazione delle politiche neoliberali degli anni ’70 e ’80 e con la reaganomics. Ciò è capitato innanzi tutto nelle università: come ha dimostrato una recente ricerca (E.S. Brezis, J. Hellier, “Social Mobility at the Top: Why are Elites self-Reproducing?”, preliminary version), le società in cui esiste e si è sempre più radicato un “two-tier higher education system” (tipicamente USA e UK, ma non i paesi del Nord Europa) – con università d’élite per pochi e università normali, rivolte alla maggior parte della popolazione – hanno conosciuto un decremento della mobilità sociale, in quanto «a dual higher education system generates social stratification as well as a self-reproduction of the elites». Nulla di meglio affinché il potere delle élites venga confermato e consolidato, visto che «elite universities select a limited number of the best students and this number has not changed much in these last decades. In contrast, the number of students in standard universities has substantially increased. Moreover, despite a meritocratic recruitment, there is an increase in social stratification across students, with the students in elite universities essentially originating from the top social classes».

Sono così colti due piccioni con una fava: l’insistere sul merito lusinga la classi subalterne con una apparenza di democrazia e di possibilità di riscatto; al tempo stesso costituisce uno specchietto per le allodole per gran parte delle élites intellettuali, che da tale degenerazione della vita democratica e del sistema di mobilità sociale subiscono le maggiori conseguenze negative, in quanto il loro ruolo viene sempre più eroso a favore di coloro che godono anche del privilegio sociale (amicizie, conoscenze, network sociali favorevoli ecc.) perché membri organici del ceto dirigente. Se così stanno le cose, l’invo­cazione del merito equivale a un voler porre rimedio a una condizione di disfunzione sistemica attraverso il momento volontaristico, un atto di volontà, un momento decisionale in cui coloro che si autodefiniscono meritevoli e che si sentono minacciati dalla sempre maggiore compartimentalizzazione dei ruoli sociali si autoassegnano il diritto/dovere di selezionare i propri simili. In tale luce il criticare i sostenitori della “meritocrazia” sulla falsariga dell’apologo di Johnson – i corridori che devono partire in condizioni di parità nella loro corsa verso il successo – e quindi il reclamare la condizione di equità delle condizioni di partenza equivale a una petitio principii e si scontra con due difficoltà: innanzi tutto perché se fosse possibile restaurare la condizione di pari opportunità, non vi sarebbe la degenerazione cui oggi si vuole rimediare con la meritocrazia; in secondo luogo, perché l’implementazione di un sistema meritocratico presuppone in modo ingiustificato la legittimazione di coloro che lo devono gestire come gli “eccellenti”, che hanno il diritto alla scelta. Per cui sostenere che una politica di giustizia sociale possa partire dal merito è un voler mettere il carro davanti ai buoi, in qualche modo l’analogo dell’angelica idea, nutrita da molte anime belle, di una classe politica che si autoriforma e così si autoelimina come classe politica. Le politiche meritocratiche sono il sintomo di società malate, non la loro terapia.

Un esempio eclatante di tale duplice difficoltà è dato proprio da quanto è accaduto col sistema universitario italiano: la sua degenerazione nepotista (e quindi non meritocratica), che ne infrange la mission di promuovere i migliori ricercatori, ha generato un riforma drappeggiante la bandiera meritocratica e che in suo nome ha conferito a un certo numero di individui, autoselezionatisi come i migliori, la facoltà di scegliere i propri simili, con un meccanismo farraginoso ed imperfetto. Si pensa così di curare un corpo malato mediante una mera misura amministrativa, centralizzata ed elitistica. Al tempo stesso, si cerca di imboccare la via verso un sistema duale (con pochi hub di eccellenza), che viene accolto di buon grado (o più semplicemente promosso) dalle élites, che vedono in esso (insieme al sempre più accentuato definanziamento della scuola pubblica a favore di quella privata) il miglior mezzo per consolidare il proprio ruolo, dando l’illusione o la speranza a parte della élite intellettuale di poter pilotare il processo in modo da assicurarsi una partecipare di minoranza ai suoi vantaggi (il tradizionale piatto di lenticchie).

Facile intuire quali saranno le conseguenze di tale politica meritocratica, al di là di quelle macro-sociali già indicate (e diagnosticate nello studio prima citato). Dal momento che essa viene implementata non ristrutturando o rimettendo in sesto il sistema democratico (o il sistema universitario), ricalibrandone il complesso dei meccanismi, ma mediante singoli momenti decisionali in cui un numero limitato di persone si assume l’onere di operare una selezione, sarà esposta a tutte le influenze e le convenienze che inevitabilmente hanno la prevalenza sulla buona intenzione dei singoli. E le “valutazioni oggettive” (indici numerici, test, mediane, criteri, prove di esame, concorsi) finiscono per essere solo un modo per celare, dietro lo schermo di una neutralità inattaccabile dai non addetti ai lavori, quelle che si rivelano in sostanza scelte discrezionali in cui il merito finisce per diventare solo un alibi ideologico.

In tale quadro, affermare – come fa la Urbinati – che il mancato rispetto del merito in un concorso pubblico configura una questione di legalità e non di giustizia sociale, in quanto avrebbe luogo un vero atto criminoso, una autentica violazione della legge, sottovaluta la circostanza che le scelte effettuate in sede di concorso pubblico sono sempre discrezionali e legittimate mediante un ossequio formale a criteri meritocratici (tanto è vero che mai nessun TAR entra nel merito di un concorso, ma al massimo ne valuta le imperfezioni formali e procedurali). È nondimeno del tutto corretto da parte sua sostenere che «è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto». Ma il ragionamento diventa più completo quando si sia consapevoli che la meritocrazia – nelle attuali condizioni di fatto – costituisce una scorciatoia per non affrontare un problema più serio e radicale: la crisi dei meccanismi atti ad assicurare una efficace mobilità sociale e perciò il funzionamento autentico di una società democratica, che addirittura verrebbero ad essere ridimensionate (e pour cause) con la scelta meritocratica. Tra questi – come tutti i teorici della democrazia sanno – v’è, oltre al sistema formativo universale, egualitario, laico e gestito pubblicamente, un insieme di garanzie e protezioni nei confronti di coloro che – per le loro condizioni economiche – possono alterare il meccanismo democratico a proprio favore. Il giusto premio del merito può essere favorito a condizione che esso sia il frutto di un processo selettivo distribuito nel tempo e nello spazio (con istituzioni intercambiabili, aventi tutte un livello qualitativo comparabile, diffuse sul territorio ecc.). Ma ciò non può avvenire quando invece esso sia concentrato nel tempo (un unico esame, un’unica prova, un unico test) e nello spazio (pochi hub di eccellenza, concentrati in certe regioni), nonché gestito da ristrette cerchie di élites intellettuali autonominatesi tali o, peggio, scelte dalla classe politica dominante. La meritocrazia finisce così per essere o il lamento patetico di una intellighenzia depauperata e marginalizzata o la petulante aspirazione di chi crede di potere governarla per condividerne i benefici, in complice alleanza con le élites dominanti. Con il loro sentito ringraziamento.

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27 Commenti

  1. Ottimo. La vignetta è eccellente. Leggerò con calma nei prossimi giorni l’articolo. La meritocrazia almeno come io penso non è a favore di chi non ha mezzi in prevalenza economici per potersi adeguatamente e con equilibrio inserire ed essere socialmente attivo nella società contemporanea.

  2. Mi riferisco in parte anche all’articolo di Brezis ed Hellier citato dall’autore. Anche l’Italia fino al 1970 aveva un “two tiers system” pur avendo formalmente un unico sistema universitario. I due livelli si dividevano prima dell’università, con la distinzione tra licei ed istituti tecnici, una distinzione che si rifletteva in parte nell’università con la distinzione tra facoltà riservate ai liceali e facoltà accessibili ai diplomati degli istituti tecnici e magistrali. I due livelli furono scardinati dalla legge che nel 1970 aprì tutte le facoltà ai diplomati degli istituti tecnici. In realtà il cambiamento avvenne prima con il “miracolo economico” degli anni cinquanta che fece emergere una élite di imprenditori privi di formazione terziaria e spesso anche privi di formazione secondaria. L’istituzione (1962) della scuola media unica e l’apertura di tutte le facoltà ai diplomati degli istituti tecnici costituirono una presa d’atto dei mutamenti sociali intervenuti con il “miracolo economico” degli anni cinquanta e sessanta.
    Aggiungo che nonostante le lamentazioni degli “elitisti” ed i conati delle VQR, non credo proprio che sia possibile introdurre ora in Italia un sistema duale, cioè un sistema che consenta alle università definite o autodefinitesi di prima classe di reclutare, sulla base del “merito”, una percentuale di studenti non superiore al 10%. Basta fare un po’ di conti, ad esempio, per l’ingegneria, dove i due grandi politecnici del nord, al tempo stesso, primeggiano per la ricerca e sono università di massa. Infine il sistema dei “two tiers” non è sempre foriero di barriere sociali. Questo non avviene ad esempio in California per il sistema statale e la matematica, dove i community colleges non servono solo da filtro selettivo, ma anche da aiuto concreto ad entrare nelle università di prima classe. Ho sentito ad esempio il direttore del dipartimento di matematica di UCLA vantarsi che la metà dei laureati in matematica di UCLA aveva iniziato gli studi in un “community college”. Naturalmente in Italia il sistema dei “two tiers” avrebbe invece effetti disastrosi, nelle mani di sedicenti “eccellenti” o “eccellenti per decreto”. Quale grande professore eccellente in Italia considererebbe positivo il fatto la metà dei suoi laureati avevano una preparazione iniziale inferiore ai minimi livelli per entrare nella sua università?

  3. Eccellente e illuminante articolo. Mi permetto solo di osservare, però, che a essere in difetto non è l’idea “meritocratica” in sé, quanto il fatto ch’essa sia usurpata da chi vuol premiare non il merito ma il privilegio di classe, che del merito è l’opposto. Comunque questa è osservazione marginale.

  4. Salve, articolo molto interessante ma con cui dissento per l’impostazione e l’uso che fa del termine “merito”: esso non rappresenterebbe un problema se venisse utilizzato nella fase della produzione della ricchezza della società. Diventa pericoloso quando viene utilizzato “post factum” unicamente nella fase della spartizione.
    Per la tenuta della democrazia bisognerebbe basare le politiche sul “criterio del merito” (meritorietà) e non sul “potere del merito” (meritocrazia).
    Mi permetto di suggerirle l’interessante articolo del Prof. Stefano Zamagni a riguardo.
    (http://www.aiccon.it/file/evento/Meritocrazia_e_Meritorieta.pdf).

  5. Ottima la vignetta.Off topic:dibattere su meritocrazia e democrazia è senz’altro interessante, ma mi chiedo se non sarebbe più adeguato chiedersi come impieghiamo le poche risorse disponibili. A tale fine, non sarebbe più opportuno riflettere sullo stato della ricerca di alcuni importanti ssd di cui sono stati pubblicati i verbali ASN sul sito Miur? Cito 11/A3 Storia contemporanea, che pare diventata Storia dell’Italia contemporanea e caratterizzata da localismo e minimalismo. Possibile che tra i candidati di prima fascia vi sia un solo esperto di storia cinese ( bocciato) e solo due di storia statunitense ( uno solo passato)? Per il resto, non si sono esperti di storia europea, americana ( nord e sud), asiatica, araba, africana. Possibile che a nessuno non sia venuto in mente di studiare la storia della colonizzazione in Africa e della decolonizzazione in Africa o quanto accaduto nei paesi arabi dell’atra sponda del Mediterraneo nel ‘900? Questo mi pare preoccupante e da discutere.

  6. Ma della controrivoluzione hanno colpa solo le élites?
    Anni ’70: mescolanza tra politica e istruzione. Si richiede di passare gli esami anche se non si è studiato, abbassamento del livello culturale generale, dequalificazione dei titoli di studio, classe intellettuale ampiamente compiacente. Immissione in massa in scuola e università di personale mai sottoposto a concorsi. I sindacati si battono contro ogni selezione e, complice una politica clientelare, riescono a ottenere ope legis e privilegi i cui costi verranno scaricati sulle generazioni future.

    • Quello degli anni ’70 non fu né il primo né l’ ultimo dei “patti scellerati”. Rendersene conto può aiutare a disinnescare il rischio di letture puramente ideologiche che spesso rendono difficile discutere con lucidità i problemi. L’ abbassamento del livello culturale generale, la dequalificazione dei titoli di studio sono parole che pre-datano gli anni ’70. Il “18 a maggioranza” è una locuzione nata durante e subito dopo a seconda guerra mondiale, non nel ’68. Lamentazioni sul decadere delle conoscenze
      attraversano gli ultimi due secoli di storia dei sistemi educativi. In qualche caso le lamentazioni sui tristi tempi presenti potevno avere giustificazione. In altri erano il segnale di una difficoltà di adattarsi ad un mondo che necessariamente stava cambiando.

      Ma, tornando al tema iniziale, certamente, a piu’ riprese ci sono stati cedimenti o rinunce, da parte delle èlites, al dovere di guidare i cambiamenti. Tanto piu’ gravi quanto piu’ tutto, valutazione del merito in primis, vengono visti come processi da svolgere in modo “ideale” una volta per tutte “ex-ante”, invece di garantire una valutazione ex-post permanente.

  7. La meritocrazia è un falso principio. È un ideale fittizio, in nome del quale si mascherano, dietro procedure di selezione fondate su criteri “oggettivi”, i consueti meccanismi di cooptazione tipici delle caste.

    Il merito, del resto, non ha bisogno di tali demagogici artifici. Perché il merito – inteso come una riuscita fusione di capacità ed impegno – si premia da sé, producendo risultati, realizzando progetti, creando novità.

    Sbaglia chi crede che il merito sia (o debba essere?) uno strumento per fare carriera o arrivare ad occupare ruoli dirigenziali. Questi obiettivi – sui quali si misura il successo sociale – si raggiungono tramite il consenso, che con il merito ha poco o nulla a che spartire.

    Anche in una democrazia sana, perfettamente funzionante, il potere si costruisce sul consenso: sarà il consenso della maggioranza, anziché dei pochi appartenenti ad una élite, e verrà dal basso, anziché dall’alto, ma sarà sempre e comunque una forma di simpatia, conquistata con le opere e con le parole, oppure il semplice frutto di una scelta di convenienza.

    Non importa essere bravi. Ciò che conta è piacere. E non per come si è, ma per come si fa credere di essere.

  8. intellighenzia designa la classe di in intellettuali che in Russia dai primi dell’Ottocento fino alla rivoluzione del 1917 dette vita al movimento che sostenne la rivoluzione d’ottobre. Dal 1990 è finito il sistema sovietico e la relativa intellighentia e nomenklatura.

  9. Negli anni ’70 i sindacati facevano volantinaggio davanti ai Provveditorati sostenendo le immissioni in ruolo senza concorso e in università c’erano professori che regalavano 30 agli studenti dopo esami di gruppo. Tutti questi ‘graziati’ hanno avuto molta più facilità a entrare nel mondo del lavoro che un giovane laureato oggi.

    • Negli anni ’70 accadde ben altro del volantinaggio di fronte ai provveditorati e 30 assicurato agli esami di gruppo.

  10. Il problema di fondo di questo articolo è già nella seconda frase: “perché sembra diventare essenziale sottolineare la necessità di gratificare adeguatamente (non solo in termini economici) chi ha più capacità?”.

    La meritocrazia come regalia, insomma.

    Se lo Stato italiano, in base a criteri di merito assume un buon medico, ricercatore o parlamentare, è prima di tutto il contribuente italiano che ci guadagna. Poi posizioni migliori vengono solitamente retribuite meglio (“non solo in termini economici”)… ma la meritocrazia sarebbe possibile, e necessaria, anche in un ipotetico sistema in cui ogni “civil servant” guadagnasse uno stesso stipendio fisso. Ad esempio il sistema universitario cinese, che è spietatamente meritocratico (perlomeno con gli studenti), “regala” a chi riesce ad entrare nelle università migliori prima di tutto anni di vera fatica (i più devono anche lavorare per pagarsi gli studi).

    Peraltro, letteralmente il termine significa “potere ai meritevoli”. Potere, come in “democrazia”, non “regalie”, “soldi”, o altro.

    “In una società compiutamente democratica, basata sull’eguaglianza e sulla mobilità sociale, in cui vengono meno vincoli ereditari o di sangue”, si parlerà di merito eccome, o al più lo si darà per scontato. Cosa che non succede certo oggi in Italia – leggere questo articolo per credere.

    Un conto è esprimere distanza dalle scelte (e non scelte) pratiche del governo, un altro è distorcere il significato delle parole.

    • In quanto a distorsione del significato delle parole, vale la pena di ricordare che il “termine Meritocracy” è nato con un’accezione negativa per mano di Michael Young, l’autore dell’utopia negativa “The Rise of the Meritocracy” (1958). E di qualche interesse leggere un articolo dello stesso Young apparso sul Guardian nel 2001 di cui riporto un estratto:
      _____________________________________
      «I have been sadly disappointed by my 1958 book, The Rise of the Meritocracy. I coined a word which has gone into general circulation, especially in the United States, and most recently found a prominent place in the speeches of Mr Blair.

      The book was a satire meant to be a warning (which needless to say has not been heeded) against what might happen to Britain between 1958 and the imagined final revolt against the meritocracy in 2033.

      Much that was predicted has already come about. It is highly unlikely the prime minister has read the book, but he has caught on to the word without realising the dangers of what he is advocating.»
      _____________________________________
      Della distorsione del significato originario del termine meritocrazia, si è scritto più volte anche su Roars:
      https://www.roars.it/young-e-la-meritocrazia/
      https://www.roars.it/lost-in-translation-british-meritocracy-in-italy/
      https://www.roars.it/la-meritocrazia-dei-liberisti/
      https://www.roars.it/contro-la-meritocrazia/

  11. Giuseppe De Nicolao, il bello è che neppure il significato originario di “meritocrazia” prevede necessariamente altro che dare i posti di responsabilità a chi li merita. Solo che l’esasperazione di questo meccanismo viene identificata con la distopia di una nuova suddivisione in classi. Posizione ovviamente estrema, ma forse non così assurda, nell’ottica inglese.

    In Italia, siccome siamo lontani anni luce da un rischio di suddivisione in classi basate sul merito, che anzi è spesso un ostacolo al fare carriera, ci si inventa che la meritocrazia sia sostanzialmente un’alternativa al merito, o perlomeno una forma di gratificazione ruffiana del merito, invece che un criterio per fare funzionare bene la macchina pubblica.

    E se qualcuno – succede, certo, in un paese dove la demagogia ha sempre pagato – sbandiera la parola “meritocrazia” per fare cose sbagliate (o anche solo sbandiera la parola “meritocrazia” E fa cose sbagliate), si dice che parlare di merito sia patologico. Quando è patologico solo che se ne debba parlare, perché l’importanza del merito nell’accedere alle cariche pubbliche di ogni ordine e grado dovrebbe essere scontata (fosse anche solo perché sennò i meritevoli si sposteranno sistematicamente nel privato e/o all’estero).

    Fino ad arrivare al doppio salto carpiato pindarico per cui “i notai che hanno figli notai” (sic.) abbia alcunché a che fare con la meritocrazia. Come se per scegliere i notai non in quanto figli di notai ci siano alternativa degne di nota ad una qualche, certamente sempre imperfetta, classificazione in base al merito.

    • Non penso che da quanto lei afferma, ci siano contraddizioni con quanto da me sostenuto perché quando parlo del merito non voglio certo affermare che esso vale solo come una gratifica psicologica: la sua funzione sociale è ben nota e la si dà per implicita, sicché non è sempre necessario esplicitarla; così come si danno per scontati tanti altri concetti, perché non si può sempre partire da Adamo ed Eva. Lo si fa solo in un ambito divulgativo elementare e non mi pare che questo sia il caso di Roars. A me pare che nella sua lettura una sorta di pregiudiziale negativa – della quale non posso conoscere l’origine – abbia fatto velo a una comprensione del senso complessivo dell’articolo, che non mi pare sia lontano da quanto lei stesso sostiene.

  12. Vi dico l’ultima: per accedere alla prova di dottorato si è stabilita in molte università una valutazione PRELIMINARE dei titoli: serve a far fuori i candidati migliori, in modo che non arrivino neppure a sostenere le prove, facendo ombra ai predestinati, che sono gli allievi di qualche commissario. Vi sembra meritocrazia questa? I giornali prendono posizioni disgustose contro di noi, ma a volte l’università se le merita …

  13. Francesco Coniglione: se davvero lei ritiene che la funzione sociale della meritocrazia, che la rende ingrediente indispensabile di una democrazia “compiuta”, o anche solo dignitosa, sia “ben nota” e che la “si dia per implicita” (buon per lei, non è una cosa ovvia in Italia: nei concorsi universitari, ma talvolta – a me pare – neppure nelle pagine di Roars), allora sono io che avevo evidentemente equivocato la domanda di apertura dell’articolo, ovvero “perché in certi momenti storici nasce la sua esigenza?”

  14. Sono d’accordo con Coniglione, un dato: la meritocrazia di solito è quel criterio che sono gli altri a non applicare, mai che a qualcuno venga il dubbio che lui stesso sia completamente incapace di applicare criteri di merito. Secondo dato appena la “meritocrazia” da categoria dello spirito si “incarna” in un qualche criterio da divina diventa umana, fallace, partigiana, imperfetta (e non può essere che così). Università, partiti chiesa hanno svolto negli anni una grande funzione (anche se a volte deforme) di permealizzazione sociale. Partiti elitari e leaderistci, chiese gerarchiche, come nella situazione attuale hanno cortocircuitato ogni varco. L’università poteva restare l’unico filtro ancora possibile, ma la dicotomia privato (finanziato anche dallo stato) vs pubblico sta distruggendo i pochi varchi rimasti. Sono state scatenate delle guerre generazionali, è stata fatta una campagna devastante contro il sistema pubblico (corriere, 24-ore etc.) a favore del privato che constatiamo ogni giorno. Dobbiamo insistere uniti per l’interesse del Paese per l’università laica e pubblica… L’Italia sarà ciò che l’Università Italiana sarà (parafrasando Salvemini)

  15. A me sembra un articolo ambiguo fin dal titolo che lo riassume: l’intellighenzia si allea con le élites nel nome della meritocrazia. Ora, l’intellighenzia universitaria italiana è élite e produce élites o classe dirigente delle varie istituzioni dello Stato. E’ chiamata “intellighentia” per definirla politicamente. Non so come si possa definirla depauperata, visto che è una vera e propria casta, ha il monopolio della formazione delle élites. Data la storia dell’intellighenzia italiana, il nepotismo è scontato, ma non è questo, almeno per me, l’aspetto più grave. Il continuo bisogno di trasfigurarsi per rimanere casta egemone porta al degrado complessivo dell’istituzioni universitaria e delle élites che produce, quindi dello Stato. L’intellighenzia, per rimanere egemone deve pur darsi dei criteri meritocratici e selezionare al suo interno. Che poi una casta chiusa produca nepotismo, etc., è scontato. Non mi pare diverso da quanto accadeva durante il fascismo: l’università fascista selezionava in base all’appartenenza politica ( è dei “nostri”), ma anche rispetto alle competenze. Chiaramente, era una corporazione chiusa, con tutti i limiti noti. Non credo l’intellighenzia difenda neppure ideali politici, ma sia una vera e propria corporazione, molto più dannosa per Stato e per la democrazia di quella dei notai, perché i notai non producono élites.

    • A me sembra che i filtri dell’ ideologia rendano difficile vedere la situazione qual e’ e non quale si ritiene che debba essere.

      Dire, nel 2014, che l’ “intellighenzia universitaria” (termine che gia’ dice molto sui filtri ideologici di chi lo usa) produce elites o classe dirigente significa non avere occhi per vedere il mondo in cui si vive. Di che elites stiamo parlando ? di che casta ? La casta politica si e’ da tempo svincolata da qualsiasi dipendenza dal mondo accademico. La classe dirigente dell’ apparato economico, e’ in gran parte auto-riprodotta con meccanismi di forte cooptazione interna da parte di una dirigenza in parte formatasi sul campo e in parte proveniente da quegli incubatori speciali che sono certe universita’ private. A meno di non voler dire che l’ intellighenzia attualmente controlli universita’ come la Bocconi, la Luiss, in Centro Studi della Banca d’ Italia o le cattedrali del neoliberismo d’oltreatlantico! Lo troverei appena un po’ surreale.

      Che poi il mondo accademico italiano abbia i suoi problemi e’ innegabile. Ovvio per chiunque segua questo sito. Ma non si trovera’ mai la soluzione di questi problemi usando categorie vecchie di decenni. L’ articolo di Coniglione ha il pregio di analizzare una narrazione (quella del merito e della meritocrazia) molto diffusa e, quella si’, ipocrita e mistificante.

  16. @Giorgio Pastore: il termine intellighenzia l’ha introdotto Coniglione. Non vedo perché non si possa parlare di intellighenzia universitaria e non affermare che ha il monopolio della formazione delle élites.Occorre intenderci cosa si intenda per élites. Ci sono varie teorie: élites sono p.e. gli scienziati, i giuristi, gli economisti, etc: tutti coloro che fanno parte della classe dirigente dello Stato, compresi i burocrati. Il nostro parlamento ha professori universitari e similmente il senato.il mondo dell’impresa in genere manda i suoi dirigenti alla Bocconi o negli Stati Uniti: mica vorrà che l’intellighenzia italiana controlli anche Wall Street! Via, un po’ di realismo. Forse occorra si renda conto che i grandi cambiamenti in corso non sono stati il risultato del neoliberalismo, ma della rivoluzione informatica, che ha cambiato completamente il lavoro. Nei prossimi 20 anni il 40% del lavoro sarà automatizzato.Il mondo non lo cambiano le ideologie.

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