La copertina del libro di Young

«Sono stato tristemente deluso dal mio libro del 1958, The Rise of the Meritocracy. Ho coniato una parola che si è diffusa ampiamente, specie negli Stati Uniti, e di recente ha trovato un posto di primo piano nei discorsi di Mr Blair. Il libro era una satira che intendeva essere un avvertimento (che, inutile dirlo, non ha avuto seguito) per mettere in guardia per ciò che sarebbe potuto accadere in Gran Bretagna tra il 1958 e l’immaginaria rivolta finale contro la meritocrazia nel 2033».
Chi scrive è Michael Young, la persona che ha inventato la parola che ultimamente è sulla bocca di tutti nel nostro paese. L’articolo da cui è tratto il brano che abbiamo appena letto è stato pubblicato sul Guardian, il quotidiano che tradizionalmente è più caro all’opinione pubblica di sinistra nel Regno Unito. Young, che ai tempi di Clement Atlee è stato un influente “policy maker” dei laburisti, è ormai in una posizione defilata rispetto al partito. Dal suo scranno nella House of Lords, dove è entrato come Lord Young of Dartington, dal nome della scuola di orientamento progressista cui è stato legato per tutta vita, l’anziano uomo politico riflette sul fallimento di decenni spesi in favore di un sistema educativo inclusivo, che non si limiti a fotografare le differenze di classe riproducendole attraverso meccanismi di selezione indifferenti alle condizioni di partenza degli studenti. Continuiamo a leggere: «il business della meritocrazia va di moda. Se i meritocrati credono, come un numero sempre maggiore di essi è incoraggiato a fare, che il loro avanzamento dipende da ciò che gli spetta, si convinceranno che meritano qualsiasi cosa possono avere». A differenza che nel vecchio sistema di classe che, essendo basato sull’eredità, era più facile da tenere sotto controllo e criticare perché privo di una giustificazione accettabile in una società democratica, questa nuova discriminazione si ammanta di una legittimazione morale che rende i suoi membri impervi a ogni critica: «i nuovi arrivati possono davvero credere di avere la moralità dalla propria parte».

C’è un passaggio dell’articolo che è particolarmente attuale: «l’elite è diventata così sicura di sé che non c’è quasi ostacolo ai premi che essa si arroga. Vecchi vincoli del mondo del business sono stati eliminati e, come previsto dal libro, costoro hanno inventato e sfruttato ogni modo per abbellire il proprio nido. Salari e retribuzioni sono schizzati in alto. Generosi schemi di share option hanno proliferato. Bonus e accordi informali d’oro per chi si trova al vertice si sono moltiplicati». Vale la pena di sottolineare che Lord Young non era certo un comunista. Alla sua morte, nel 2002, è stato celebrato universalmente come uno degli esponenti di spicco di una generazione di riformisti che hanno contribuito a costruire una società più giusta per i cittadini britannici. Tra le altre cose, a lui si deve la nascita della Open University e di un più avanzato sistema di tutele per i consumatori.

Non c’è dubbio che il patto sociale che regge il Welfare del dopo guerra avesse bisogno di essere rivisto nelle nuove condizioni economiche, e che da questo punto di vista alcune delle critiche che Young muove nel 2001 al New Labour non siano oggi accettabili. Tuttavia, rimane condivisibile – mi pare – la sua obiezione di fondo all’ideologia meritocratica che si è imposta nel Regno Unito, anche con la complicità di parte della sinistra, negli ultimi decenni.

Per le nuove generazioni è un tragico errore dimenticare che la scuola non è solo il luogo dove si acquisiscono le abilità (gli skills come si dice oltre Manica) richiesti dalle imprese, ma anche l’istituzione che più di ogni altra promuove e coltiva il senso della comune appartenenza a una società politica. Ciò sta avendo conseguenze molto gravi sul piano della disaffezione da parte dei giovani nei confronti della politica intesa come servizio per il bene comune: «nessuna sotto-classe è mai stata lasciata così nuda dal punto di vista morale». Le considerazioni di Young andrebbero meditate anche da noi. Per evitare che le indispensabili riforme dell’istruzione pubblica vengano portate avanti con uno spirito che è incompatibile con le premesse di una società democratica.

Pubblicato su Il Riformista il 18 luglio 2010

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