
In un libro del 1958 Michael Young, unendo un termine inglese a uno greco, coniò una parola che tanto fortuna riscuote oggi nel dibattito pubblico: meritocrazia. Quel libro, The Rise of Meritocracy (1) era un saggio satirico in cui l’autore immaginava la progressiva affermazione e la rovinosa caduta di una società governata dalle persone col quoziente intellettivo più alto. Young utilizzava questo espediente letterario, elaborandolo in chiave distopica, allo scopo di denunciare le distorsioni di cui soffriva il sistema dell’istruzione pubblica britannica, che selezionava troppo presto i bambini e li inchiodava ad attitudini individuate in maniera eccessivamente sbrigativa. La meritocrazia, dal suo punto di vista, era un destino crudele, la cui prima vittima finiva per essere la stessa democrazia.
Ricordare questa vicenda è doveroso in tempi in cui l’idea della meritocrazia è divenuta un mantra ossessivo della politica italiana. Se appunto prestiamo ascolto all’etimologia, è chiaro che meritocrazia viene oggi utilizzato a sproposito, dal momento che (per fortuna) non pare all’ordine del giorno la richiesta di sostituire le libere elezioni con test d’intelligenza di massa per stabilire chi ci deve governare (2). Non a caso.
Si obietterà: è una fissa da filosofi pedanti cercare il significato dei termini e da lì partire per contestarne un uso scorretto, poiché, in fondo, quel che la parola meritocrazia vuol significare è che la società deve assegnare ruoli e funzioni sulla base del merito, e poco importa che questo auspicio poggi su un termine un po’ impreciso. Merito è in effetti un altro mantra dei nostri giorni, ma almeno in questo caso l’ossessione non pare portare con sé alcuna confusione concettuale: infatti, l’idea di merito non è altro che la richiesta di un giudizio attraverso il quale si attribuisce a un soggetto S un bene B in virtù di una caratteristica C giudicata appropriata per la risorsa in questione (Tizio “merita” un certo posto di lavoro perché possiede certe capacità). Siamo però sicuri che anche il concetto di merito non abbia le sue difficoltà?
Per cominciare, che cosa costituisca un merito per ottenere un ruolo o un posto, cioè che cosa definisca la caratteristica C di cui sopra, è una questione di suo complicata. Prendiamo un posto da ricercatore universitario. Immaginiamo di avere due candidati, uno che ha scritto cose di medio livello ma che ha dimostrato una grande disponibilità e competenza nella didattica, e uno che ha scritto cose di ottimo livello ma che vede la didattica come un calice amaro da ingoiare per fare ricerca. Quale dei due merita di più? Evidentemente dipende dagli obiettivi che quel Dipartimento universitario intende privilegiare, se un rafforzamento della didattica o della ricerca: la decisione è chiaramente una faccenda di politica accademica, non una faccenda schiettamente di merito. In questo senso, il merito non è un concetto “assoluto”, ma è inevitabilmente “relativo” all’obiettivo che ci si propone di realizzare. (Queste cose, per inciso, le sanno bene nei Paesi dove la ricerca, pubblica e privata, non è impastoiata, oltre che nelle secche dei magri stanziamenti statali, in familismi di vario genere; in quei Paesi le Università hanno più discrezione che da noi, quando devono assumere qualcuno.)
Non solo. Come suggeriva attraverso l’espediente letterario Young, il merito non è un coperchio buono per tutte le pentole. La ragione ce l’ha insegnata il più importante filosofo politico del XX secolo, John Rawls: la vita delle persone è fortemente influenzata dalle contingenze familiari e sociali, dalla – per usare le sue parole – “lotteria sociale”; e questi sono fattori che, in ultima analisi, risultano moralmente arbitrari, poiché sono al di fuori del controllo individuale (3). Nessuno sceglie di nascere in una famiglia ricca o povera, in Italia o in Somalia, uomo o donna; ma ciascuno di questi fattori incide profondamente e radicalmente su quel che saremo e su quel che otterremo. Il merito, perché possa essere un criterio di giustizia, deve dunque essere abbinato a una cornice istituzionale in cui viga un’equa eguaglianza di opportunità. Non basta, dal punto di vista della giustizia, che sia un meritevole a occupare un posto di prestigio: occorre anche che gli altri abbiano avuto la possibilità di sviluppare quei meriti e di essere “competitivi” in questo senso.
A pensarci bene, la Costituzione italiana afferma un concetto per molti versi simile. L’art. 34 stabilisce, infatti, tra le altre cose, che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Tale articolo intende infatti affermare non che i gradi più alti degli studi debbano essere raggiunti dai capaci e dai meritevoli, ma, più correttamente a mio giudizio, che devono essere rimossi quegli ostacoli di ordine economico che impediscono ai capaci e ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi. In questo senso, continua non casualmente l’articolo 34, “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Non è finita qui. Gli stessi talenti e capacità intellettive non sono scelti, ma sono il frutto, per usare ancora le parole di Rawls, di una “lotteria naturale”. Certamente i talenti e le capacità possono essere esercitati e affinati; l’impegno individuale incide parecchio sugli esiti, ma è innegabile che questi ultimi dipendono anche dai punti di partenza. Sarebbe pertanto un ottimo esercizio di umiltà limitarsi a ringraziare la propria buona stella per quello che si è ricevuto da madre natura, evitando di trarre dai propri “meriti” conseguenze troppo ampie su quel che a ciascuno spetta. Se infatti è vero che l’impegno conta, ed è tutta farina del sacco di chi lo mette in pratica, la base personale da cui ciascuno parte è frutto del caso, e nel caso non può davvero esserci nulla di meritato.
Non si vuole con questo negare che l’idea di merito esprima un punto importante per le democrazie odierne: è dopotutto banale osservare che deve essere la competenza, e non altro, a governare l’assegnazione di certe funzioni e di certi ruoli lavorativi nella società, a maggior ragione se parliamo di posti pubblici. Ma continuare a insistere meccanicamente sul concetto di merito, associandolo per di più a quello fuorviante di meritocrazia, significa soltanto ipostatizzare uno status personale e suggerire una nuova forma di classismo, con al vertice i talentuosi, quali che siano le ragioni e la “storia” del loro talento. Sarebbe un classismo diverso da quelli passati, fondati su razza o lignaggio e certo peggiori, ma non smetterebbe per questo di essere classismo.
(1) Michael Young, The Rise of Meritocracy, London, Thames and Hudson, 1958, tr. it. di C. Mannucci L’avvento della meritocrazia, Milano, Comunità, 1962.
(2) Se può consolare, molti furono i fraintendimenti anche in Gran Bretagna, al punto che nel 2001, poco prima di morire, Young scrisse un articolo sul Guardian nel quale lamentava i fraintendimenti di cui la sua opera era rimasta vittima.
(3) John Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 1999 (ed. or. 1971), tr. it. di U. Santini Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 2008.
Pubblicato su www.imille.org il 2 agosto 2011