Chi è il rettore disegnato dalla legge Gelmini? Quali sono i limiti istituzionalmente previsti per controbilanciare il suo potere, quando una comunità accademica avverte di non essere più rappresentata dalle scelte compiute dal suo rettore? E come sono interpretati e resi effettivi questi limiti nelle previsioni statutarie degli atenei italiani attraverso le quali l’autonomia accademica ha integrato le norme dedicate a disciplinare la figura del rettore dalla legge 240/2010? Traendo spunto da una vicenda di cronaca in corso di svolgimento in un ateneo italiano, proponiamo una riflessione sulla figura istituzionale di rettore che da dieci anni è a capo degli atenei italiani, chiedendoci se le regole oggi vigenti per controbilanciare il “rettore forte” voluto dalla Gelmini diano sostanza all’ideale di democraticità che del mondo accademico è terreno di cultura essenziale ed irrinunciabile, pena lo svuotamento di senso del valore portato in esponente dall’art. 33 Cost.

Uno dei tratti salienti della legge 240/2010 è quello di aver disegnato la figura di un “rettore forte”, eletto per un lungo mandato di sei anni non rinnovabile (chi sale al Quirinale dura solo un anno in più, ma – è vero – può essere rieletto), senza essere soggetto a verifiche o conferme intermedie da parte del corpo elettorale che lo esprime (art. 2, comma 1).

Sul piano istituzionale l’unico contrappunto al potere che la Gelmini prevede al potere del professore – che, primus inter pares, per sei lunghi anni ascende al soglio rettorale in esito al voto delle varie componenti della comunità accademica – è individuato nella previsione di legge (sempre l’art. 2, comma 1) che inserisce fra le prerogative del senato accademico la facoltà di “proporre al corpo elettorale con maggioranza di almeno due terzi dei suoi componenti una mozione di sfiducia al rettore non prima che siano trascorsi due anni dall’inizio del suo mandato”.

Il senato accademico, a sua volta, è eletto dalla comunità accademica “in un numero di membri proporzionato alle dimensioni dell’ateneo e non superiore a trentacinque unità, compresi il rettore e una rappresentanza elettiva degli studenti” ed è composto “per almeno due terzi con docenti di ruolo, almeno un terzo dei quali direttori di dipartimento, eletti in modo da rispettare le diverse aree scientifico-disciplinari dell’ateneo”. La sua durata è per legge limitata a un massimo di quattro anni e il mandato del componente eletto in questo organo è rinnovabile una sola volta.

Entro questi paletti definiti dalla legge Gelmini, gli atenei hanno potuto determinare nei propri statuti con la più ampia autonomia regolativa (e a volte mettendo a dura prova i limiti concepiti dalla legge) la durata, la composizione e le condizioni di eleggibilità del senato e dei suoi componenti.

Vi sono atenei che hanno ritenuto di limitare a 3 anni la durata di questo organo, facendo sì che la durata del mandato senatoriale finisca per coincidere con quella del rettore (che per legge è componente di diritto del senato).

Molte, e assai variegate, le soluzioni invalse per definire la composizione del senato.

A un estremo vi sono atenei che, rimanendo formalmente entro i paletti della legge Gelmini, hanno previsto che il senato sia composto, oltre che dal rettore, da 4 professori di prima fascia – eletti dai professori e ricercatori di ruolo (compresi in ricercatori di tipo B) dell’ateneo – e da 3 professori di prima fascia scelti dal rettore medesimo, nonché da 2 componenti eletti dalla componente studentesca, senza prevedere rappresentanti del PTA.

In un modello così congegnato – ove il potere del rettore è aumentato (un vero enhanced power) dalla possibilità di nominare una porzione assai considerevole di senatori di propria fiducia e gradimento (ed è intuitivo immaginare cosa ciò possa innescare quando si apre la campagna elettorale per votare il nuovo rettore) – si è inteso allocare la facoltà di proporre la mozione di sfiducia contro il rettore (sempre con la maggioranza dei 2/3 dei suoi componenti) non, come prevede la legge, al senato, ma a un organo non previsto dalla legge 240/2010, denominato “consulta dei direttori”, il quale riunisce tutti i direttori dei dipartimenti dell’ateneo, avendo, per il resto, per lo più funzioni consultive o di proposta, senza partecipare in modo diretto alle competenze gestionali del senato.

In altri atenei italiani, invece, si prevede che nel senato, la cui durata coincide con i 4 anni previsti come limite massimo dalla Gelmini, entrino di diritto i direttori di dipartimento, unitamente a 6 (fra PO, PA e RU) eletti dalle rispettive classi di appartenenza, a due rappresentanti eletti dal PTA, e a 4 rappresentanti degli studenti. In una tale più ricca e articolata composizione il senato sembra effettivamente essere messo in condizione di proporre la mozione di sfiducia, prevista dalla legge Gelmini come unico, flebile contrappunto allo strapotere del rettore, che, una volta eletto per il suo sessennio di regno, sa di non essere soggetto ad una verifica del gradimento espressa da quanti, col proprio voto, lo hanno trasformato da semplice professore ordinario a guida indiscussa e “lider maximo” dell’ateneo.

Sarebbe estremamente interessante svolgere una verifica puntuale e dettagliata sulle tante articolazioni attraverso le quali l’autonomia dei singoli atenei ha declinato e integrato nei propri statuti le scarne previsioni riservate dalla legge Gelmini alla figura del rettore.

Per verificare se, e in che modo, l’autonomia accademica costituzionalmente riconosciuta abbia potuto riflettersi nella previsione di regole statutarie che diano concretezza all’idea che un professore, divenuto temporaneamente rettore, sia chiamato a rispondere costantemente nel corso del mandato ai propri colleghi professori e agli altri componenti della comunità accademica che gli ha espresso fiducia. Del resto, quante volte abbiamo ascoltato un rettore appena eletto, magari al termine di un’aspra competizione elettorale che lo ha visto prevalere all’ultimo ballottaggio, dichiarare alla stampa: “da oggi sarò il rettore di tutti”?

Espressione di vertice dell’autonomia accademica, il rettore dovrebbe idealmente accettare il non agevole compito di fare sintesi dei compositi interessi e delle multiformi idee delle persone dalle quali idealmente riceve il mandato di esercitare l’autonomia della comunità accademica, non avendo – sulla carta – altro orizzonte che la promozione di quelle idee e di quegli interessi, assistito da regole che dovrebbero dare sostanza all’ideale di democraticità che del mondo accademico è terreno di cultura essenziale ed irrinunciabile, pena lo svuotamento di senso del valore portato in esponente dall’art. 33 Cost.

La figura del rettore lasciataci in eredità dalla legge Gelmini è dotata di poteri assai pregnanti. Forse troppo. Complice la lunga durata del mandato e la circostanza che una volta eletto, il rappresentante dell’ateneo è consapevole di non incontrare momenti di verifica del gradimento del suo operato da parte della base elettorale, sapendo per giunta che egli non può ricandidarsi e che, quindi, dovrà scegliere se, dopo il ruolo di vertice assunto, tornare a fare il semplice professore o pensare al suo “dopo”, approdando a qualche carica istituzionale nel pubblico o nel privato (le cronache non sono state avare in questi anni di rettori entrati in politica, a volte anche interrompendo il proprio mandato), un rettore post Gelmini è esposto al rischio di cadere vittima dell’umana tentazione di agire dando a vedere di poter impersonificare il potere accademico, senza più prestare ascolto alla comunità che lo esprime.

Emblematica una vicenda in corso di svolgimento in questi giorni in un ateneo italiano, in merito alla quale, senza esprimere alcun giudizio su una vicenda che avrà modo di essere compiutamente accertata e di trovare definizione nelle sedi competenti, riprendiamo due atti, resi pubblici da chi li ha redatti.

La loro lettura dovrebbe indurre ad aprire una riflessione ragionata in ordine al modo e alle regole attraverso cui la legge 240/2010, di fatto, concede al rettore la possibilità di farsi sedurre dalla vertigine del (suo) potere.

Anche perché, a cascata, quel potere si riposiziona e si amplifica nella CRUI, associazione di diritto privato, cui il legislatore sembra intenzionato ad attribuire una stabile rilevanza pubblicistica, come tendono a dimostrare le recenti modifiche legislative che assegnano alla CRUI il compito di concorrere ad esprimere la composizione dell’Agenzia Nazionale della Ricerca di recente conio.

SINDACATI sfiducia rettore

Lettera dei docenti UNISS

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3 Commenti

  1. L’Accademia ha semore avuto un senso di invidia profondo nei confronti delle aziende private. Anni fa più di qualcuno teorizzava la trasformazione del rettore da “primus inter pares” ad Amministratore Delegato dell’ ateneo. La L.240 ha fatto un buon passo in quella direzione, dimenticando che anche gli AD hanno dei contrappesi nei CdA espressioni della proprietà. Invece i CdA della L.240 sono abbastanza ben controllati dai rettori. Risultato: uno squilibrio di poteri senza confronti.

    A questo contesto normativo va aggiunto l’analfabetismo sulle norme abitualmente presente nell’ambiente. Anni fa, alla domanda su perché un certo Senato Accademico non prendeva in considerazione una mozione di sfiducia sul rettore, un membro del SA di quell’ ateneo mi rispose “ma non siamo noi a poter far questo, deve farlo il CdA!”. Proporrei all’ anvur di mettere tra i requisiti indispensabili per l’ASN il superamento di un esamino di conoscenza di Costituzione e norme di legge sull’ Università.

  2. La situazione limite illustrata nel post sulla base della lettera dei docenti dell’Università di Sassari è la punta di un “iceberg” presente in tutti gli atenei a vari livelli di responsabilità (rettore, direttore dipartimento, presidente corsi di studio). Per abitudine o prassi costanti si sono consolidati comportamenti irregolari, illegittimi e qualche volta anche illegali, pertanto solo con il ricorso al giudice amministrativo, dopo diffide e inviti, si può ristabilire la piena regolarità amministrativa. In questo caso credo che sia doveroso, dopo aver esperito il tentativo di un intervento gerarchico al MUR, predisporre gli atti specifici per le illegittimità perseguite e per le violazioni di legge anche con la richiesta di verifica dell’eventuale responsabilità personale (penale ed economica). Concordo con il commento di Giorgio Pastore che auspica una misura formativa che deve essere verificata perché i professori, per propria “mission”, devono conoscere, applicare e, soprattutto far applicare le norme ed i regolamenti. Personalmente ho intrapreso questa strada e confido nei risultati positivi perché è nell’interesse della comunità accademica il pieno rispetto delle regole; anche se accanto alle risorse personali (conoscenze delle regole e delle procedure) ho investito risorse economiche! I professori universitari in maggioranza non vogliono dedicare tali risorse e quindi abdicano ai rappresentanti la propria tutela correndo il rischio frequente di interpretazioni “originali e singolari”. I pochi che s’impegnano in quest’opera di verifica dell’operato dei propri rappresentanti per far riconoscere i propri diritti sono additati anche come ingrati, perché il sistema accademico li ha scelti a dispetto di altri. Tale filosofia cozza con i fini di ricerca e sviluppo dell’Università che necessita del contributo di tutti (o quasi) e, quindi, l’impianto di verifica dell’attività di ricerca e didattica è stato potenziato (ASN, AVA, VQR ecc.). Bisognerebbe completare l’azione con modifiche alla “governance” dell’ateneo riconoscendo la rappresentanza della minoranza nei vari Organismi di governo (Senato Accademico, Consiglio di Amministrazione, Giunte di dipartimento e di consigli di corso di studio). Ovviamente non è la soluzione alle derive autoritarie ma potrebbe essere un deterrente.

  3. Vi è da anni una preoccupante mancanza di democrazia nell’università tutta. Preoccupante per l’intera comunità. Alcuni, scelti per intuitu personae nel migliore dei casi, governano tutto e tutti: lasciano in ombra, irridono, creano problemi ad alcuni. Magnificano, invece, cooptano quelli che sanno non manifesteranno mai un parere contrario. I posti vengono ammessi a concorso solo quando qualcuno ha i titoli. Si fa in modo che altri non li abbiano.
    Vi è qualcosa di triste nel sistema, vi è così poca vita.

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