Alberto Baccini (Università di Siena): 15 anni di riforme nell’Università italiana
Quarto Convegno Roars, Trento 24-24 febbraio 2023
III Sessione: UNIVERSITÀ: LE POLITICHE MERITOCRATICHE PER L’ISTRUZIONE IN ITALIA E I LORO EFFETTI

 

Compattare quindici anni di riforme dell’università in mezz’ora è impresa è impossibile. Quindi tento un taglio di tipo “valutazione ex post delle politiche”. Parto dalla discussione che precedette la riforma Gelmini e tento di spiegare come quella discussione contribuì a determinare l’agenda politica dei governi di centro-destra e centro-sinistra che fecero la riforma e poi la attuarono. Vedrò e racconterò gli effetti della riforma nei documenti ufficiali e poi aggiungerò un po’ di evidenze disponibili che non stanno nei documenti ufficiali.

La preparazione

Questa è la discussione prima della riforma Gelmini: tutti d’accordo nel dire che l’Università è in mano ai Baroni. Non solo Berlusconi: “Baroni nelle università”, ma anche Mussi che in una nota intervista disse che l’Università ormai era diventata un bordello. Questo lo stato della discussione sui giornali.

Questi sono invece quattro volumi accademici che segnano in maniera molto netta la discussione pre-riforma. Il libro di Carlucci e Cataldo è dedicato ai concorsi universitari e al nepotismo. Il libro di Perotti è il libro chiave perché contiene, tra un po’ lo vedremo, dati e una chiave di lettura che poi saranno date per scontate per molti anni. Alessandro Monti scrive un libro in cui per la prima volta entra il termine “declino”, almeno a mia conoscenza. Il libro di Graziosi infine mette insieme Perotti e Monti e costruisce una coerente ricostruzione storico-ideologica della storia recente dell’università italiana.In quegli anni c’era chi diceva che il problema principale dell’università italiana era la carenza di finanziamenti. Nel 2008 in una lettera a Nature  Bertini, Garattini e Rappuoli sostenevano che in Italia non c’erano abbastanza fondi per la ricerca.  Rispose loro Ignazio Marino, allora senatore PD, dicendo che non basta che si aumentino i fondi perché il problema fondamentale è che bisogna rivedere i criteri con cui vengono allocati i fondi. Il problema non è cioè la quantità, ma è il modo in cui i fondi vengono ripartiti tra le università.

Perotti sostenne addirittura che non era vero che l’Università fosse sottofinanziata. Nel suo libro introdusse questo grafico che è una revisione di un grafico OCSE. Che cosa fa in questo grafico? Fa una correzione dei dati modificando il solo dato italiano, per cui l’Italia passa, come vedete, dalla coda alla quarta posizione. La correzione è giustificata sostenendo che in Italia ci sono tantissimi fuori corso; usare, come secondo Perotti farebbe OECD, il numero totale di studenti non è corretto; si dovrebbero invece usare gli studenti equivalenti a tempo pieno, che Perotti calcola usando un coefficiente fornito dal MIUR per il 2003. Al termine dei suoi calcoli, secondo Perotti, l’Italia è uno dei paesi con la più elevata spesa per istruzione terziaria per studente.

 

Sempre secondo Perotti “l’Università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale”.

 

In quegli anni si cominciarono a produrre numeri per provare questa irrilevanza della ricerca italiana.  C’era un problema però. Nei dati internazionali disponibili all’epoca  l’Italia occupava i primi posti al mondo per numero di pubblicazioni. Come fare quindi a sostenere la sua scarsa rilevanza? Questo documento di Assolombarda del 2008 credo sia il primo documento in cui si fa vedere che l’Università italiana non pesa così tanto nel panorama mondiale. Se dividiamo il numero di pubblicazioni per la popolazione italiana, scopriamo che l’Italia va in fondo alla classifica. Quindi, sulla base di questo nuovo indicatore, a mia conoscenza mai utilizzato prima di questo rapporto di Assolombarda, si comincia a dire che l’Italia pubblica poco rispetto alla sua dimensione. Non solo: l’Italia pur producendo tante pubblicazioni, viene citata molto poco e dunque la sua ricerca è ritenuta meno autorevole rispetto a quella di altri paesi.

L’indicatore appena ricordato ritorna con un interessante refuso in un documento della Fondazione TreElle intitolata I numeri da cambiare. L’Italia non ha università nei primi posti delle classifiche. Il numero di pubblicazioni se rapportato alla popolazione è molto basso. La quota di citazioni mondiali dell’Italia è particolarmente bassa. Daniela Checchi da La voce saluta il rapporto dicendo che finalmente ci sono i numeri da cambiare.

E poi c’è l’articolo che citava in apertura Paola Galimberti: sulla base di un articolo di Daraio e Moed La Repubblica scriveva: “La ricerca italiana perde pezzi”.

 

La riforma Gelmini e i provvedimenti successivi

Ed eccoci alla riforma Gelmini, giustificata con la retorica dei numeri. Nessuna università  italiana è tra le prime 150 al mondo. Per questo motivo, sostiene Gelmini, presenteremo a novembre la riforma dell’università.

A fine dicembre 2009 viene approvata la riforma dell’università. Qualche tempo prima prima il governo Prodi, ministro Mussi, aveva creato l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, che diventa l’elemento chiave di tutta la legge Gelmini.

Di fatto, si istituisce, lo dico in modo estremamente sintetico, una capillare valutazione bibliometrica “collettiva”, attraverso la valutazione della qualità della ricerca (VQR), e individuale, attraverso l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Quello riportato nella slide successiva è un elenco dei maggiori interventi legislativi. Come vedete, alcuni sono precedenti alla legge Gelmini. La distribuzione basata sulla performance del fondo di finanziamento ordinario e gli scatti stipendiali dei docenti legati a pubblicazioni scientifiche sono precedenti alla legge Gelmini, voluti dal ministro Tremonti. Alcuni interventi sono successivi sono invece successivi, li vedremo tra un po’: i dipartimenti di eccellenza introdotti nel 2016 dal governo Renzi e questo piccolo intervento, però molto significativo, il cosiddetto FFABR, anch’esso del governo Renzi.

Che succede nel frattempo? Parte la riforma, si comincia a contrarre la quota di finanziamento all’università. A sinistra della slide successiva, vedete l’andamento del fondo di finanziamento ordinario dal 2006 al 2021, a prezzi costanti. Abbastanza impressionante l’abbassamento del fondo di finanziamento ordinario. A destra si vede che aumenta contemporaneamente la quota premiale. Il fondo di finanziamento in contrazione viene distribuito sempre più attraverso la cosiddetta quota premiale, non attraverso i meccanismi cosiddetti storici.

 

Gli effetti della riforma: il miracolo italiano

Risultati della riforma sono sintetizzati da ANVUR nel secondo Rapporto sullo stato dell’università italiana del 2018. Nel rapporto si sostiene che si sostiene che l’Italia, nei dieci anni precedenti ha speso poco per ricerca, che le entrate dell’università italiane sono diminuite, che tutte le voci di finanziamento sono in riduzione.  Questa riduzione non si è accompagnata a una sperequazione territoriale del finanziamento: anzi la quota di risorse destinate al Sud, considerato che al Sud sono diminuiti gli studenti, è addirittura cresciuta grazie alla parte premiale del FFO.

La cura sta funzionando: i tassi di abbandono degli studenti si stanno riducendo nelle lauree triennali, nei corsi a ciclo unico, nelle lauree magistrali. La quota di laureati regolari cresce in tutte le aree del paese, anche se nel Sud questa quota continua a essere più piccola che nel resto del paese.

 

E, udite, udite, “la crescita della produzione scientifica italiana è stata, soprattutto nel decennio in corso, superiore alla media mondiale. Di conseguenza, il nostro paese ha visto aumentare la propria quota di produzione mondiale in termini di impatto citazionale. La posizione dell’Italia della ricerca è oggi, grazie ai miglioramenti registrati negli ultimi 15 anni, migliore rispetto a quella di grandi paesi come Francia e Germania. La produttività scientifica italiana sopravanza quella di Francia e Germania”.

Non ce lo diciamo solo da soli. Ce lo dice anche il governo britannico in un rapporto del 2016 in cui si calcola un indicatore molto raffinato di impatto citazionale (FWCI). Il governo britannico si preoccupava perché l’Italia era seconda sulla base di questo indicatore ed era destinata a sorpassare il Regno Unito nel prossimo futuro.

L’aggiornamento di questo rapporto è uscito nel 2022 e alcuni dati sono contenuti nella slide seguente dove l’Italia è riportata in verde. L’Italia guadagna posizioni e passa dalla sesta posizione alla quarta come produzione scientifica complessiva. Anche le citazioni crescono: l’italia passa dal quinto al terzo posto per FWCI. Ormai abbiamo raggiunto l’Inghilterra. Lo dicono gli inglesi, non ce lo diciamo da soli.

Per dirla in estrema sintesi con l’ex-presidente di ANVUR Andrea Graziosi: la valutazione ha migliorato l’Università italiana.

Gli effetti della riforma: il falso miracolo italiano

Vediamo cosa c’è nel sottosopra.

 

Nel 2004 David A. King sosteneva che l’Italia non era affatto un paese in cui la cui ricerca non aveva un ruolo significativo nel panorama mondiale contava. L’Italia era il terzo paese al mondo per pubblicazioni per ricercatore e aveva una quota di citazioni per ricercatore inferiore soltanto a Canada e Regno Unito.

Il declino della scienza italiana nel 2009 era un errore, come ci ha raccontato Paola Galimberti.  Nella slide successiva sulla sinistra ci sono i dati dell’articolo di Daraio e Moed, sulla destra gli stessi dati senza l’errore. Come vedete, non c’è nessun declino.

Già nel 2009, la normalizzazione di Perotti, quella per cui si diceva che l’Università italiana era abbastanza finanziata, era completamente dimenticata. Cioè, l’OCSE non ha seguito Perotti, non ha rivisto tutte le sue stime, ma ha continuato a pubblicare dati che mostrano che l’Università italiana è sotto-finanziata. Perché, i dati OECD sono già ‘normalizzati’ per durata media degli studi e applicare una “normalizzazione” per il solo dato italiano è semplicemente sbagliato (si veda qua). Ormai, come abbiamo visto, anche ANVUR nel Rapporto 2018 scrive che l’università italiana è sottofinanziata.

 

Come sono stati ripartiti questi finanziamenti? Nella slide successiva ci sono due grafici un po’ difficili da leggere che sintetizzo in questo modo. In realtà, la quota premiale del FFO, e la quota assegnata in base al costo standard, non riescono a differenziare in maniera radicale le università. I soldi vengono distribuiti più o meno in base della dimensione delle università (misurata sul numero di docenti).

 

Questa è la ragione per cui nel 2016, il governo Renzi decide di introdurre i dipartimenti di eccellenza. Il meccanismo dei dipartimenti di eccellenza effettivamente ridistribuisce le risorse in modo radicalmente diverso rispetto alle dimensioni degli atenei come si vede nel grafico di sinistra della slide seguente. Nel grafico di destra sono riportati i risultati di un esercizio che mostra quanto la distribuzione effettiva si è distaccata da una distribuzione ipotetica basata sulla dimensione degli atenei. Se il fondo di finanziamento straordinario tra il 2016 e il 2021 fosse stato distribuito sulla base della dimensione degli atenei, cosa sarebbe successo? Chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso rispetto a questa distribuzione? Sia i dipartimenti di eccellenza sia il costo standard che la quota premiale, dal punto di vista territoriale, hanno redistribuito risorse dalle isole, dal sud e dal centro, verso le università del nord del paese.

Gli atenei del sud non sono stati svuotati soltanto di risorse, ma si sono svuotati anche di studenti. La slide seguente riproduce un grafico del Rapporto ANVUR 2018 dove le colonne orizzontali che stanno sulla destra rispetto allo zero centrale individuano le regioni che guadagnano student; e quelle che stanno a sinistra individuano le regioni che perdono studenti.

 

Un elemento che non entra nella discussione pubblica, almeno non entra nei documenti ufficiali, è la precarizzazione del personale universitario. Dal 2011 si è verificata una forte precarizzazione del personale universitario. Come si vede nella slide seguente il personale universitario è rimasto più o meno lo stesso, ma c’è stata una sostituzione di personale a tempo indeterminato con personale con contratti a tempo determinato, in particolare assegni di ricerca e ricercatori a tempo determinato.

Altro fenomeno che vale la pena di ricordare è la fuga dei cervelli. Questo è l’ultimo rapporto sulla migrazione Istat, che ci racconta che ogni anno tra i 30 e i 35 giovani laureati tra i 25 e 34 anni lasciano il paese. Questi laureati rappresentano circa il 40% di tutti gli espatriati in fascia di età tra i 25 e i 34 anni. Quindi abbiamo un’export netto di cervelli.

Se dobbiamo giudicare dalla discussione pubblica, le riforme non hanno risolto il problema del nepotismo universitario. Qui vedete alcuni ritagli di giornale, libri e trasmissioni televisive che parlano ancora di nepotismo e di concorsi truccati, come nel 2000 e nel 2008.

 

L’esplosione delle autocitazioni

Ma oltre a tutto questo, si sono messi in moto alcuni meccanismi meno visibili che vale la pena sottolineare. Questo è un articolo del 2018 in cui si comincia a dire: “Guardate che le persone, per pur di prendere l’abilitazione, hanno cominciato a giocare con i meccanismi citazionali”. Questo è un articolo in cui si fa vedere la crescita delle autocitazioni in alcuni settori disciplinari.

 

Nel 2019 con Giuseppe De Nicolao ed Eugenio Petrovich scriviamo questo articolo in cui introduciamo l’indice di “inwardness”: di autoreferenzialità nazionale nella ricerca. L’indice misura quanto i paesi citano ricerche prodotte al loro interno nella propria letteratura scientifica. Quindi andiamo a vedere l’evoluzione dell’indice nel corso del tempo.

Questo è il risultato principale del nostro lavoro: prendiamo i paesi del G10, guardiamo come va questo indicatore di citazioni e scopriamo che l’Italia, che parte dalla quarta posizione, a partire dal 2010 cambia completamente trend e, a fine periodo, è il paese con l’indicatore di autocitazioni più elevato dei paesi del G10, dopo gli USA.

 

Se facciamo uno zoom sui quattro paesi europei generalmente considerati i nostri competitor, si continua a vedere che l’Italia parte dietro la Germania e la Gran Bretagna, ma a fine periodo ha superato tutti gli altri paesi. Di fatto, gli italiani citano se stessi e citano se stessi perché hanno un incentivo a farlo. Questa è la nostra lettura.

L’indicatore dipende dalle collaborazioni internazionali e quindi una delle obiezioni possibili alla nostra interpretazione è cla seguente: “Ma guardate, l’Italia viene citata e si autocita di più. Perché, per come avete costruito l’indice, aumentano le collaborazioni internazionali.” Nel grafico della slide seguente sull’asse delle x è misurata la percentuale di articoli frutto di collaborazione internazionale, sull’asse y si trova l’indicatore di autocitazioni nazionali. Ogni punto indica una osservazione annuale. Come vedete, l’Italia si sposta molto verso l’alto e poco verso destra, il che significa che l’Italia non cresce molto in collaborazioni internazionali, ma cresce molto in autoreferenzialità della sua ricerca.

 

Altra possibile obiezione è che l’Italia si autocita di più perché produce più ricerca. In realtà, come si vede nella slide seguente la produzione scientifica complessiva non cambia sostanzialmente tra inizio (2003) e fine periodo (2016).

 

Infine, se guardiamo le citazioni provenienti da altri paesi, quindi le citazioni esterne alla letteratura prodotta in Italia, l’Italia (linea rossa del grafico seguente) non ha una performance crescente, ma mantiene la sua penultima posizione tra i paesi del G10.

Tutto questo significa che il “Miracolo Italiano” è probabilmente un “Falso Miracolo Italiano” dovuto al doping citazionale: cioè la comunità scientifica italiana ha iniziato a giocare complessivamente con le regole e ha visto migliorare i suoi indicatori perché questo è richiesto dalle procedure di valutazione. Nelle slide seguenti c’è una rassegna stampa delle reazioni al nostro articolo.

 

La slide seguente è inedita ed è tratta da un preprint scritto con Eugenio Petrovich che potete leggere qui. Abbiamo costruito un indicatore di autocitazioni nazionali più raffinato di quello visto in precedenza. Abbiamo quindi fatto un’analisi dei trend di autocitazioni nazionali per 50 paesi considerando le autocitazioni dal 1996 al 2019. Quello nella slide è il grafico finale di sintesi. Ogni punto individua una nazione. Punti vicini nel piano indicano che i paesi hanno comportamenti autocitazionali simili. Come potete vedere, c’è una grande nuvola di paesi che si comportano tutti nello stesso modo. Intorno a questa nuvola ci sono paesi che si comportano in modo anomalo rispetto alla norma: ci sono la Federazione Russa e l’Indonesia in posizione estremamente lontane dalla nuvola centrale; e c’è una cintura di paesi anomali con Iran, Ucraina, Egitto, Arabia Saudita, Colombia, Pakistan, Romania e, unico paese del G10, l’Italia.

 

La lettura che suggeriamo è la seguente. In Italia sono state adottate politiche molto più simili a quelle adottate da Paesi tipo Ucraina, Egitto, Colombia, Russia rispetto alle politiche della ricerca adottate dai Paesi del mondo occidentale, dai paesi europei o dagli Stati Uniti. Cioè abbiamo adottato politiche aggressive per scalare le classifiche come fossimo un paese ‘ritardatario’ rispetto alla frontiera della ricerca.

Altra cosa su cui credo non si rifletta abbastanza: le frodi. Nella slide seguente c’è una carta tratta da un articolo del 2020 in cui è riportata la incidenza delle frodi scientifiche nei paesi europei, misurate sulla base del numero di ritrattazioni. L’Italia ha con la Germania il numero più alto di ritrattazioni nel periodo considerato. Nel grafico di destra vedete invece una elaborazione condotta sul database di Retraction Watch. L’indice di ritrattazione dell’Italia è in continua crescita dal 2010.

Conclusioni

Vado alla chiusura. A questo punto che dire? Le riflessioni che farei sono queste.

Nel 2008 la diagnosi da cui partivamo sullo stato di salute dell’università italiana era in gran parte sbagliata. La cura adottata dall’Italia è la stessa che è stata adottata da paesi emergenti che avevano la necessità o la volontà di scalare le classifiche mondiali. In che consisteva la cura? In sintesi molto brutale: nella monetizzazione diretta o indiretta di performance misurate con indicatori quantitativi di produzione. Questa è la logica di politica della ricerca che accomuna tutti i paesi anomali per autocitazioni che abbiamo visto poco fa.

La cura, a mio parere, non ha avuto effetti risolutivi su alcuni sintomi di lungo periodo, tipo i concorsi e la scarsità di risorse. La cura ha probabilmente aggravato alcuni sintomi che c’erano già, come le frodi. E ha creato nuovi sintomi, cioè l’autoreferenzialità citazionale.

Di fatto, la cura ha riconfigurato completamente il potere universitario. Abbiamo parlato di questo diverse volte negli anni scorsi. Ci sono stati dei vincitori e dei vinti. Siamo cioè passati, per dirla con uno slogan, dai “baroni pre-Gelmini” ai “baroni post-Gelmini. I vincitori, a questo punto, godono non solo per il fatto di aver vinto e di avere più risorse, ma sono anche certificati eccellenti dall’agenzia nazionale di valutazione ANVUR. Ai perdenti, certificati tali dall’ANVUR, non resta che tentare di raggiungere i vincenti in questa gara per aggiudicarsi qualche bollino di eccellenza.

La precarizzazione ha rafforzato fortemente la gerarchizzazione dei ruoli. L’esercito di dottorandi e precari dipende sempre più dal boss (scusate, dal principal investigator) di riferimento. Le carriere accademiche sono rigidamente determinate all’interno di settori disciplinari governate dai vincenti. Questo probabilmente sta comportando, ma questo sarebbe da verificare empiricamente, una riduzione della varietà dei temi di ricerca. Per quanto riguarda l’economia ci sono alcuni lavori molto ben fatti che documentano che i temi di ricerca italiani si sono estremamente ridotti in quell’ambito rispetto a quello che succede nel resto di un mondo.

La ricerca innovativa e rischiosa, la ricerca modesta e utile, quella che replica il lavoro degli altri, è probabilmente votata alla scomparsa perché non viene valutata opportunamente. In generale, c’è un aggiramento sistematico delle regole per ottenere l’abilitazione attraverso meccanismi di gaming, di cui le autocitazioni sono uno dei fenomeni più facilmente rilevabili.

A differenza di quanto sarebbe stato possibile fare nel 2010, per invertire la rotta non basta più aumentare le risorse. Se non si smontano i meccanismi in atto, se non si liberano i precari della ricerca dal ricatto della precarietà, se non si riduce la concentrazione del potere accademico nelle mani degli ordinari, soprattutto se non si libera l’università dalla macchina della valutazione amministrativa anvuriana, io credo che quelle risorse andranno a finire in attività che non miglioreranno lo stato di salute della ricerca italiana ed il suo contributo alla crescita globale della conoscenza.

 

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