In Italia meno di un lavoratore su cinque è laureato. In Gran Bretagna sono più del doppio. Pochi laureati, sottoccupati, che svolgono mansioni inferiori rispetto al titolo di studio universitario, soprattutto nei settori umanistici. Secondo il rapporto Unioncamere 2013 questo è il ritratto dei giovani che cercano un lavoro dipendente nel settore privato in Italia.

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Figura tratta da: A. Cammelli, “Investire nei giovani: se non ora, quando?“, Sintesi del XV Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, 2013.

* Secondo la classificazione internazionale delle professioni rientrano nell’occupazione più qualificata: 1. Managers; 2. Professionals. Per l’Italia tale classificazione si articola in: 1. legislatori, imprenditori e alta dirigenza; 2. professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione. Cfr. www.istat.it/it/archivio/18132.

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In Italia meno di un lavoratore su cinque è laureato. In Gran Bretagna sono più del doppio. Pochi laureati, sottoccupati, che svolgono mansioni inferiori rispetto al titolo di studio universitario, soprattutto nei settori umanistici. Secondo il rapporto Unioncamere 2013 questo è il ritratto dei giovani che cercano un lavoro dipendente nel settore privato in Italia. Nel nostro paese meno di un occupato su cinque (il 18,7%), compreso nella fascia tra i 15 e i 64 anni, vanta una laurea, meno della metà del Regno Unito (39,9%), al di sotto del 35,2% della Francia. Rispetto alla Germania c’è un abisso di oltre dieci punti (28,9%). Secondo i dati diffusi da Unioncamere – già noti grazie alle recenti rilevazioni Almalaurea e a quelle contenute nel rapporto «Education at a glance 2013» dell’Ocse – questa differenza non cambia se si restringe il campione alla fascia di età compresa tra i 25 e i 49 anni, quella che viene considerata la parte più «attiva» (cioè «produttiva») di una società a capitalismo avanzato. I laureati italiani rappresentano il 20% degli occupati in Italia (il 21% sostiene Almalaurea, ndr), contro una media europea del 34,7%. Aumenta la distanza con la Gran Bretagna, dove il 45,5% dei lavoratori è laureato, e dalla Spagna con il 43,8%. In Italia, due lavoratori dipendenti su 10 sono laureati, contro una media europea di 3 che raggiunge, in Gran Bretagna e in Spagna, picchi di 4 su 10.

Tra i laureati viene poi tracciata una distinzione: ci sono quelli «scientifici» che sembrano avere un «mercato», ma a causa del loro numero ristretto non soddisfano la richiesta delle imprese. E ci sono gli «umanisti» tra i quali si riscontra una percentuale maggiore di occupazione sottoqualificata. L’analisi di Unioncamere riprende inoltre i dati di un ormai celebre report sulle economie regionali diffuso nel novembre 2012 dalla Banca d’Italia. Il fenomeno degli «overeducated», cioè dei giovani laureati precari che accettano di svolgere mansioni non «allineate» rispetto alla propria formazione, è emerso tra il 2009 e il 2011. Da allora, circa il 40% dei giovani tra i 24 e i 35 anni che possiedono una laurea almeno triennale svolgono un lavoro a bassa o nessuna qualifica pur di strappare un reddito. In Germania gli «overeducated» sono solo il 18%.

Qualche esempio può essere utile per delineare l’ampio processo di demansionamento e di perdita del valore del lavoro cognitivo, in una parola di «proletarizzazione» del quinto stato in corso dall’inizio della crisi nel 2008. Gli «umanisti» che un tempo erano l’architrave della pubblica amministrazione oppure del lavoro professionale autonomo (dagli avvocati agli architetti), oggi cercano di farsi strada nei settori delle attività commerciali e nei servizi, nell’agricoltura, nella pesca, fanno gli operai o i «conduttori di impianti», gli «addetti al montaggio». In questo quadro si riduce il differenziale salariale tra i laureati e i diplomati, anche se Almalaurea ha dimostrato che conviene ancora iscriversi all’università. Il titolo di studio mantiene infatti un tasso di occupazione più elevato di oltre 12 punti rispetto ai diplomati.

Bisogna dunque sapere leggere i dati e non fasciarsi la testa anche a Ferragosto. Un’abitudine non nuova da quando Francesco Giavazzi sostiene che «in Italia ci sono troppi laureati» o quando il sedicente possessore di lauree e master Oscar Giannino giustifica la «fuga» dagli atenei perché «l’università senza merito è inutile». Una più equilibrata valutazione indurrebbe a inquadrare diversamente il problema. In un’intervista rilasciata a il Manifesto del 29 giugno, il presidente di Almalaurea Andrea Cammelli ha sostenuto che questa crisi è la conseguenza del nanismo aziendale delle imprese, della loro gestione familiare e dal basso tasso di istruzione dei manager. C’è poi il blocco del turn-over nella pubblica amministrazione, che impedisce l’assunzione dei laureati, ma non arresta il loro precariato.

A questi elementi basta aggiungerne un altro: la decisione di tagliare 10 miliardi di euro all’istruzione presa da Berlusconi, Tremonti e Gelmini in controtendenza rispetto ai paesi Ocse. Al di là della struttura del capitalismo italiano, la precarietà dei lavoratori della conoscenza è il risultato anche di questa scelta.

Pubblicato su il Manifesto del 15-08-2013

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11 Commenti

  1. Mentre i dati mostrano inequivocabilmente una situazione drammatica per il futuro i questo paese, non è facile individuarne la causa. Il problema sta nel rapporto fra domanda qualitativa e offerta qualitativa di lavoro. Nel caso del mercato del lavoro la relazione sembra essere bilaterale, quindi se è vero che la struttura produttiva italiana si è degradata in settori che utilizzano poco lavoro ad alta educazione, è anche vero che una diminuzione della quantità dei laureati tende ad aumentare il degrado produttivo.
    Questo significa, a mio avviso, che non è sufficiente un intervento su solo uno degli aspetti, bisognerebbe coordinare un intervento volto sia a qualificare la struttura produttiva del paese (abbandonando definitivamente l’idea che lo sviluppo sia possibile abbassando le retribuzioni), sia alla valorizzazione quantitativa e qualitativa del mercato del lavoro.

    • Quelle che dice Prodi sono cose sensate e che sarebbero ovvie per qualsiasi governo (ci sarà mai?) che avesse un minimo interesse a migliorare le cose in Italia.
      Credo però che siano poche cose e che di fronte a quello che ormai si prospetta come un mutamento strutturale epocale degli equilibri politici ed economici, bisognerebbe tirar fuori dalle soffitte l’idea di programmazione.
      Il libero mercato non esiste, la parola libero, con mercato non ha senso. Il mercato è per definizione un luogo economico costruito attraverso regole rispettate da tutti. Le regole sono leggi, vincoli, controlli, ecc. La programmazione non è altro che l’utilizzo di regole per dare un ordine al sistema economico, ordine che dovrebbe avere l’obiettivo di un benessere collettivo.
      Certamente programmare non è facile, ci vogliono strumenti e qualità dei programmatori, ma se non si tende a questo si potrebbe benissimo fare a meno di un governo e delle sue politiche, sicuramente (e ne abbiamo l’esempio con il governo Letta) le cose andrebbero meglio o comunque non peggio.

    • “Il libero mercato non esiste”. Sarà, ma esiste la definizione di ‘libero mercato’, che si contrappone all’economia pianficata. Dal momento che l’Italia non è soggetta ai piani quinquennali di sovietico ricordo, vedo difficile intervenire sulla struttura produttiva con provvedimenti legislativi. I principali problemi dell’economia italiana (a parte la burocrazia, la giustizia, ecc.) sono la scarsa capitalizzazione delle imprese e l’incapacità di fare sistema. Quel che Prodi dice non è: “industriali, basta fare cucine! fate cellulari e tablet!”. Dice più semplicemente che la politica dovrebbe mettere in grado gli imprenditori di indirizzare le proprie scelte verso produzioni che guardino al mercato interno (e non solo alle esportazioni che, per fortuna, ancora un po’ di ordinativi ce li garantiscono).

    • Ogni definizione è a sè stante. Qual’è un esempio di mercato libero, senza regole, senza leggi, senza proibizioni, incentivi, politiche selettive?
      Allora per arrivare a un’economia pianificata ci sono tantissime posizioni intermedie, si tratta di scegliere quali siano le più appropriate nelle varie situazioni. La programmazione quinquennale e anche decennale è stat proposta e in parte attuate in Italia da economisti che è difficile definire bolscevichi.

  2. Infatti ci vorrebbero intelligenza, capacità di programmazione e anticonformismo,tutte cose che la nostra classe dirigente e i suoi cattivi consiglieri non possiedono. Sono anche occupati in altre faccende …

  3. La mancanza di una seria politica industriale e’ una costante della storia del paese, almeno nel peiodo successivo al varo dell’intervento straordinario nel mezzogiorno, che poi, appunto a causa di una seria gestione politica, ha prodotto le note degenerazioni. Tuttavia, i berluscones hanno fatto peggio di tutti gli altri. Finita l’era delle svalutazioni competitive, che ha permesso l’esistenza del caf (craxi, forlani, andreotti), i berluscones non hanno saputo reggere le pressioni di un sistema mutato: che appunto richiede investimenti in
    innovazione e cultura per sostenere la nostra capacita’ competitiva. S’e’ perseguita la via bassa allo sviluppo, fatta di competizione sul costo del lavoro e quindi sull’aumento della precarieta’ e non sull’incentivo allo sviluppo dell’economia della conoscenza e alla crescita dimensionale delle imprese. Per mutare drasticamente rotta, e ‘ necessaria soprattutto una cultura della responsabilita’ e la volonta’ di aggredire grandi ostacoli corporativi. Come il nostro capitalismo predatore e sussidiato in vari modi. Cosa difficile in un paese dove i parlamentari sono nominati dai leader dei partiti e dove s’e’ arrivati a creare un mostro come la legge gelmini di cui qui s’e’ discusso a lungo. Anora peggio, e’ che, mentre in europa vi sono segnali di ripresa, il dibattito politico italiano rimane, come da ventanni, dominato dai problemi personali, sessuali e giudiziari di berlusconi. D’altra parte, nulla di sorprendente se si pensa che s’e’ permesso (e qui il discorso sulle responsabilita’ delle sinistre sarebbe lungo) ad un tychon, dominato dai conflitti di interesse, di entrare in politica e di avere a busta paga spesso gran parte del parlamento.

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