Recentemente Andrea Ichino ha sostenuto la tesi che per valutare un candidato in una procedura di assunzione come ricercatore o docente presso le strutture universitarie e di ricerca sia importante servirsi anche come indicatore informativo del dipartimento o scuola presso cui egli ha studiato; e ciò perché la qualità dipende anche dalla formazione che si è ricevuta. Ne deriva che è ingiusto attribuire nei concorsi ed esami di stato lo stesso punteggio a titoli conferiti da istituzioni diverse. Questa constatazione ha portato qualcuno a sostenere che è necessaria una sorta di classificazione di tutti gli atenei italiani, in modo da pesare il titolo e la votazione di laurea in relazione all’ateneo di provenienza: e questo dovrebbe essere compito dall’Anvur (v. G. Muraro, Pesare il valore della laurea). Altri invece, come Andrea Ichino, ritengono troppo complessa e macchinosa una valutazione generalizzata e centralizzata e invece preferirebbero affidare alle singole Commissioni giudicatrici il compito di valutare in modo differenziato le lauree conseguite nei diversi atenei. Come scrive Ichino, «Vorrei solo ci sia libertà di valutare senza vincoli, in modo discrezionale e in modo che i valutatori sopportino ex post le conseguenze delle loro valutazioni. Oggi se io scrivo nella motivazione di un concorso pubblico, che il dottorato del candidato X nella università A è un indicatore di maggiori capacità che il dottorato del candidato Y nell’università B, rischio un ricorso». E altrove Ichino ha affermato di voler essere libero di assumere nel suo dipartimento il ricercatore più meritevole senza essere condizionato dalla laurea e dal suo voto. Dunque sembrerebbe che la laurea e una sua automatica valutazione in termini di punteggio sia un elemento che pesa come un macigno nei concorsi in genere e in quelli universitari in particolare.
Nell’esame di questa problematica bisogna distinguere due casi molto diversi: quello delle promozioni interne alle amministrazioni pubbliche (nel privato si è concordi che il problema sussiste in modo irrilevante), effettuato in base al conseguimento della sola laurea, spesso presa in università compiacenti e/o telematiche (in questo caso Giavazzi, Ichino e quanti altri hanno criticato l’uguale peso delle lauree avrebbero ragione; e io stesso ho rilevato – in un mio precedente articolo – che il male sta nei meccanismi automatici di assunzione basati sui punteggi certificati nell’attestazione finale); e quello invece in cui si assume per la prima volta, mediante concorso, in una università o amministrazione pubblica. E la questione è ancora più importante quando è in gioco la ricerca scientifica e quindi conta moltissimo la qualità dei nuovi ricercatori e docenti.
Esaminiamo pertanto il secondo caso e in particolare la proposta di Ichino in merito all’università, per vedere in concreto cosa accade, anche se gli esempi sono facilmente estensibili ai concorsi pubblici in genere.
Vediamo un tipico bando per assegnista di ricerca dell’Università di Catania (SSD AGR/12 e AGR/01): possono essere ammessi alla selezione i dottori di ricerca e i possessori di laurea specialistica o laurea vecchio ordinamento. In tutto sono assegnati 100 punti. Di questi un massimo di 12 va alla laurea e un massimo di 18 ad altri titoli rilasciati (frequenza di corsi di dottorato, perfezionamento post-laurea, di attività di ricerca presso enti ecc.). Poi ci sono i punteggi attribuiti ad altri titoli, compresa la tesi di dottorato (max 5 punti) e alle pubblicazioni (max 25 punti) il resto (40 punti) sono assegnati agli orali. Il solo vincolo meramente numerico è quello della laurea (nel senso che viene di solito stabilito dalle Commissioni un punteggio per i vari voti di laurea con i 12 punti dati alla laurea con 110 e lode). Ma ciò pesa al massimo il 12% sul totale dei punteggi attribuibili. Il rimanente dei punti (compresi quelli concernenti la frequenza di corsi ecc.,) sono nella potestà discrezionale della Commissione, la quale può sincerarsi della qualità del candidato leggendo i titoli e discutendoli con lui all’orale.
Altro esempio: regolamento per il reclutamento di ricercatore a tempo determinato dell’università di Milano. All’art. 10 sui lavori della commissione non v’è alcun riferimento alla laurea e ad una sua valutazione di tipo numerico: tutto viene rinviato al giudizio sui titoli, sul curriculum, sulla produzione scientifica, «sulla base di criteri e parametri, riconosciuti anche in ambito internazionale, individuati con decreto del MIUR, sentiti l’ANVUR e il CUN». Insomma, tutto il procedimento si basa sulla valutazione dei titoli e della produzione scientifica: non v’è nessun automatismo legato ai voti di laurea o al possesso della stessa, che è solo un requisito per l’ammissione. Nelle more della emanazione dei criteri citati, si fa ovviamente riferimento al D.M. n. 89 del 28 luglio 2009 per le valutazioni comparative, stabilente che la valutazione dei titoli deve seguire precisi requisiti (tra i quali il dottorato di ricerca è titolo preferenziale); infine, al comma 4 dell’art. 3 è detto esplicitamente che nei settori scientifico-disciplinari in cui ne è riconosciuto l’uso a livello internazionale, le Commissioni possono valutare le pubblicazioni servendosi di indici quali il numero totale delle citazioni; il numero medio di citazioni per pubblicazione; l’“impact factor” totale; l’“impact factor” medio per pubblicazione; oppure combinazioni dei precedenti parametri atte a valorizzare l’impatto della produzione scientifica del candidato (indice di Hirsch o simili). Insomma le Commissioni possono fare tutto quello che vogliono, se lo vogliono, senza trovare il minimo ostacolo nella laurea o nei suoi voti o nel suo valore legale o nei regolamenti e leggi vigenti.
Cosa cambierebbe se fosse possibile per la Commissione decidere che una laurea vale più di un’altra? Nulla, a meno di non dare al giudizio sulla qualità della laurea – in base all’ateneo di provenienza – una percentuale esorbitante rispetto agli altri criteri, come titoli e discussione degli stessi, ad es., facendolo contare più del 50% del totale. In questo caso l’unico effetto sarebbe che la Commissione, col decidere quale laurea vale più delle altre, predetermina il concorso in base ai candidati, indipendentemente da titoli, pubblicazioni, discussione, impact factor e così via. Il vincitore sarà scelto solo tra coloro che possiedono la laurea di maggior pregio. Tutti gli altri sono tagliati fuori, anche se sono premi Nobel o se i loro articoli sono stati pubblicati sulle più importanti riviste. Sarebbe questo un bel successo per la meritocrazia!
Ma il ricercatore Genio Illuminato che vincerebbe col sistema proposto da Ichino, verrebbe danneggiato da quello attualmente in vigore? Per nulla, visto che la laurea incide così poco. Basta valutare i titoli, leggere le pubblicazioni e fare un approfondito colloquio orale per poter egualmente assumere Genio Illuminato, laureato in una prestigiosa università del Nord, ed invece bocciare sonoramente come merita il candidato Asino Calzato, laureatosi in un’oscura e sottosviluppata università del Sud. C’è un TAR che impedirebbe di fare in questo modo? O le leggi e i regolamenti vigenti lo vietano? Oppure non si vuole fare la fatica di leggere le pubblicazioni e di fare una discussione dei titoli come si deve?
Resta allora il sospetto o che non si abbia una reale percezione di quello che accade di fatto e di diritto negli attuali concorsi universitari (e pubblici in genere), dove la laurea e i suoi punteggi sono l’ultima cosa ad importare; oppure che vi sia la volontà (come in molti sospettano) di tagliare fuori in maniera predeterminata e pregiudiziale tutti quei laureati che non provengono dalle zone o dalle università che si prediligono.
In realtà vi è una grande varietà fra i critici del c.d. “valore legale”, i quali – non sapendo bene cosa “abolire”, “modificare”, o che altro – mulinano idee e proposte in libertà totale, anche in profonda contraddizione fra di loro.
Basta solo far emergere queste incongruenze, e mettere a nudo i veri termini della questione, per gettare scompiglio nelle loro fila.
Sono felice di apprendere da Francesco Coniglione che le mie preoccupazioni sono del tutto ingiustificate, e ne faro’ tesoro se mai mi capitera’ di partecipare a un concorso in futuro.
Altrettanto felice di sapere che nel primo dei “due casi molto diversi” a cui Francesco si riferisce, siamo d’accordo. Gli automatismi vanno aboliti.
Riguardo al secondo caso, pero’, faccio notare che e’ costume anche dare 18 punti per frequenza a titoli di dottorato e 5 per la tesi. Quindi i punti potenzialmente bloccati e a rischio tar sono un po’ piu’ che il 12%. Ma sono evidentemente comportamenti errati che l’accademia italiana dovrebbe abbandonare.
Benissimo, quindi: tutto risolto.
Ma, permettetemi, allora, a cosa serve asserire il valore legale del titolo di studio se siamo tutti d’accordo che questo valore non può essere fissato per legge (nè uguale per tutti nè diverso tra diversi atenei)? Abolire una cosa inutile non dovrebbe destare alcuna preoccupazione, no?
Ringrazio Andrea Ichino per l’attenzione concessa al mio intervento e vorrei solo precisare due cose, per la chiarezza.
In primo luogo il fatto che a volte vengano attribuiti anche 18 punti per la frequenza (o il conseguimento) del dottorato rientra nei poteri discrezionali delle singole commissioni, che potrebbero benissimo non farlo: se hanno a cuore le sorti del migliore, valutino il meno possibile i titoli di studio e quanto più possibile quelli scientifici e il colloquio su di essi. E’ in loro potere e possono farlo se lo vogliono. Faccio però notare ad Andrea Ichino, con la mia piccola esperienza di commissario in concorsi vari, che di solito l’attribuire poco peso ai titoli conseguiti e molto agli orali è solo il viatico per far passare i raccomandati, che hanno studiato assai poco e che possono esser fatti diventare dei Leonardo da Vinci grazie ad esami orali compiacenti. Sicchè, quando mi è stato possibile, sono stato a favore della valutazione adeguata dei titoli di studio, appunto per evitare colpi di mano agli orali. Purtroppo, la moralità dei concorsi è quella che è, e la soluzione è ben più complessa della semplicistica idea dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.
E ciò ci porta alla seconda domanda, quella più maliziosa finale (perchè allora non abolire una cosa inutile come il valore legale?). Faccio osservare che la critica da me fatta nel primo articolo che su ROARS ha dato inizio al dibattito concerneva la tesi di chi sostiene che per risolvere gran parte dei problemi dell’università basterebbe abolire il valore legale della laurea. Ebbene questa è a mio avviso una visione errata del problema. E siccome ancora ce ne sono molti che sostengono questa tesi, come fosse una panacea di tutti i mali, ecco allora il senso di quello da me scritto e dei successivi numerosi interventi pubblicati da ROARS.
Inoltre, se l’abolizione non risolve i problemi, non finirebbe però per aggiungerne di nuovi? Ecco, sulla risposta a questa seconda domanda è ancora aperto il dibattito e vi sono fondati argomenti per ritenere che così sarebbe. E io sono di quest’avviso. Ma qui il discorso si fa lungo.
Chi l’ha “asserito”? Cosa vuol dire “asserire il valore legale del titolo di studio”?
[…] In una consultazione a risposta multipla, le domande devono essere strutturate per far sì che il modo in cui si risponde a un item predetermini le risposte successive, nel senso di escludere quegli ulteriori item la cui risposta diventi superflua. Questo è il primo evidente difetto di questa consultazione online: al quesito 11 che chiede un giudizio sulla differenziazione qualitativa dei titoli equivalenti sono possibili due risposte, positiva e negativa (e quella di riserva “altro”). Se si risponde negativamente, non ha senso chiedere (come accade con i successivi quesiti 12, 13 e 14) le finalità per cui tale differenziazione andrebbe attuata, le modalità e il tipo di valutazione che si dovrebbe prendere in considerazione. Un quesito ben strutturato dovrebbe in automatico far saltare le risposte a queste domande o – in alternativa ma meno efficacemente – avvertire che in caso di risposta negativa bisogna saltare le successive domande. Questi due accorgimenti mancano; v’è solo nelle istruzioni generali l’avvertenza circa la possibilità di non rispondere a qualche domanda. Ma chi non legga le istruzioni, o lo faccia con disattenzione, potrebbe essere portato a rispondere comunque a tali domande, col risultato che poi alla fine risulterà che ci saranno un certo numero di persone che avranno espresso una opinione su come valutare i titoli equivalenti, con ciò avallando di fatto la praticabilità di questa opzione (che è stata suggerita ad es. da Andrea Ichino). […]