La complessa vicenda delle Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ASN), reclama chiarezza. La chiedono le Università in attesa di reclutare, la chiedono i candidati, in attesa di entrare nei ruoli della docenza, forse la chiedono anche alcuni Commissari, almeno quelli (la maggior parte spero) che non hanno scambiato il rilascio di una patente di guida con la messa in moto di una Ferrari. […] Se i meccanismi non sono sufficientemente agili, agevoli, veloci, il rischio di creare ‘tappi’, ritardi, elefantiasi procedurali e di disattendere le aspettative diventa certezza. E allora non resta che restituire i diritti strappati nel presente […] e immaginare un meccanismo semplice e che dia garanzia di continuità nel futuro. In altri termini, non mi sento di garantire un terzo ‘concorsone’ abilitante.
Così si è espressa Stefania Giannini, ministra dell’Istruzione del governo Renzi, il 10 marzo, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova. Questo passaggio del suo discorso è stato di gran lunga il più discusso tra gli addetti ai lavori. Il tono del giudizio espresso, in effetti, è stato significativo. La ministra ha fatto proprio uno degli elementi di critica più diffusi all’ASN, ovvero la sua trasformazione da verifica dei requisiti minimi per ricoprire un ruolo di insegnamento all’università a “sbarramento” che ha selezionato, in pratica, un numero di candidati non molto superiore a quello che verosimilmente sarà possibile assorbire nei prossimi anni.
Le varie parti in causa hanno interpretato l’annuncio di meccanismi di assunzione più fluidi e più semplici secondo le linee interpretative ormai cristallizzate sulla faglia tra detrattori e sostenitori dell’ASN. Per i primi, la posizione di Giannini indica la presa di coscienza dell’insostenibilità di un sistema in cui un numero ristretto di ordinari, peraltro non rappresentativi della comunità scientifica perché decisi attraverso un complicato processo selezione dall’alto e sorteggio, decidono del futuro professionale di generazioni in modo così netto e senza margini di riparazione. Per i secondi, invece, il ridimensionamento del peso delle abilitazioni è finalizzato essenzialmente a mettere tra parentesi il “criterio del merito” che le ha guidate e a ridare libertà di scelta alle sedi locali, che avranno meno ostacoli a gestire reclutamento e promozioni nei termini di sanatoria di chi ha tirato la carretta garantendo i corsi necessari a tirare avanti e la massa critica dei dipartimenti, magari senza potersi esprimere a livelli di qualità internazionale nella ricerca. Il fatto poi che la ministra, come i suoi due predecessori, sia stata rettrice di un ateneo, ha portato a concludere che il suo impegno per restituire margine di manovra ai governi locali delle università non fosse del tutto innocente, e fosse dovuto ai suoi rapporti con chi in quelle articolazioni amministrative era parte in causa.
A me sembra che la posizione di Giannini da un lato sia ancora troppo superficiale per esprimere una posizione chiara e netta sulla questione dell’ASN, dall’altro sia indice, insieme alle reazioni che ha suscitato, di quanto ancora siano irrisolti i problemi strutturali che negli ultimi decenni hanno reso inefficaci le riforme della politica universitaria.
Nel caso specifico, procedere a una riforma delle abilitazioni può essere, più che un tentativo di affossarle, un passaggio obbligato per rafforzarne la legittimità. Come ho sottolineato in un mio intervento in proposito, coinvolgere nell’ASN porzioni più ampie della comunità accademica, rendere la verifica meno “secca” e unilaterale assimilandola di più all’acquisizione progressiva di titoli, e superare le logiche a tenuta stagna dei settori disciplinari rigidamente suddivisi, sono passaggi migliorativi abbastanza facilmente applicabili che potrebbero rendere più efficiente, e più legittima agli occhi degli studiosi e delle istituzioni.
Bisogna però dire che il punto sollevato in forma esplicita da Giannini con le sue parole, ovvero la tendenza a limitare “artificialmente” il numero dei candidati così da renderlo più o meno compatibile con le presumibili possibilità di assunzione, non è stato il frutto una iniziativa accidentale dei commissari. La scelta di ricorrere a commissioni nazionali di settore aveva proprio l’obiettivo non scritto di “calmierare” la concessione dei titoli di idoneità potendo ragionare sui numeri di tutto il sistema. E del resto anche un sistema amministrato di concessione di idoneità e di selezioni a passaggi progressivi (l’esempio sempre classico, per la sua durata e complessità, è quello francese) ha il compito di limitare il numero di aspiranti docenti e ricercatori universitari rendendolo sostenibile, orientando a volte con la durezza dell’esclusione le scelte di vita e di studio di migliaia di giovani. Costruire passaggi simili con gradualità avrebbe richiesto anni di rodaggio, in una situazione in cui il vecchio sistema di reclutamento era stato cancellato senza soluzioni transitorie, e in cui la necessità di far fronte al crescente bisogno di “braccia” per insegnamento e ricerca portava all’accumulazione di personale precario in attesa privo di prospettive di stabilizzazione. Si è quindi pensato di bruciare le tappe per smuovere una situazione altrimenti insostenibile, anche di fronte a provvedimenti di riforma, come quelli del 2010, pensati essenzialmente per ridurre in modo rapido e progressivo il regime di spesa degli atenei, senza alcuna reale strategia di rilancio successiva.
In altri termini, la critica della ministra mette il dito su una questione di cui deve essere intesa chiaramente la radice. Sintetizzando al massimo un tema di cui ho già tentato altrove un’analisi più articolata, si può notare in primo luogo che la gestione dell’università italiana si è storicamente giocata sul solco di una reciproca diffidenza: quella tra burocrazia ministeriale centrale e amministrazioni accademiche locali. Le seconde, che in diversi casi preesistevano alla prima e hanno costruito e mantenuto reti di relazione autonome, guardano generalmente al governo come a un importuno controllore del rubinetto del loro ossigeno, che intende disciplinarle politicamente usando l’arma del denaro. Dal canto suo il centro non ha mai avuto particolare fiducia nelle scelte di gestione effettuate localmente, soprattutto nel reclutamento, e pur non avendo mai avuto la forza di imporre una gestione pienamente “nazionalizzata” di concorsi e distribuzioni delle risorse ha sempre cercato di porre paletti e limiti alle possibilità di scelta con norme e circolari.
In questo conflitto sotterraneo i canali di mediazione sono stati opachi e mal congegnati, soprattutto perché si è sempre evitato di esprimere i contrasti di interessi in forma trasparente. Così, l’assetto tradizionale poteva essere descritto come una centralizzazione in cui la competizione tra le sedi locali si dipanava soprattutto nei tentativi di istituire canali informali di contatto con i decisori delle politiche ministeriali così da attirare verso di sé le agognate risorse. La successiva “autonomia”, poi, invece di mettere apertamente a confronto le scelte della politica e la capacità della scienza di organizzare al meglio il proprio lavoro assumendosene le responsabilità, è diventata una sorta di “autogestione”, il “liberi tutti” accordato a comunità locali prive degli strumenti giuridici e culturali di progettarsi da sole, costrette a seguire disegni e strategie pensati dall’alto, ma non più gravate dai lacci di controlli rigidi.
Anche il “sistema ANVUR” si muove su questo equilibrio senza scardinarlo: al di là dei paragoni con agenzie a composizione simile e con presupposti teorici analoghi nel resto d’Europa, nel contesto italiano l’istituto finisce per assumere essenzialmente il ruolo di elemento limitante e disciplinante l’azione del potere delle singole sedi secondo le direttive del ministero. Al di là dello sforzo dei suoi componenti, sicuramente sincero e in parte anche riuscito, di elaborare una tavola di valori della qualità del lavoro scientifico per regolare la distribuzione delle risorse e delle posizioni di ruolo, l’ANVUR si trova di fronte a un ministero che da circa un decennio è privo di una politica universitaria che non sia quella della riduzione della capacità di spesa del settore, così da poter risparmiare il più possibile al fine di sprecare le stesse risorse altrove. In questo passaggio, troppo spesso il riferimento al “merito” e all’“eccellenza” finisce per essere semplicemente un manto retorico per giustificare il minor impegno economico, mentre sull’altro fronte le sedi hanno compensato la riduzione dei fondi con il mantenimento del controllo su alcuni punti-cardine della loro gestione. L’esempio più lampatne è l’immissione dei precari in ruolo attraverso le tenure track, affidata a commissioni interamente nominate dai Senati accademici e destinata a essere vidimata solo ex post da un’abilitazione nazionale che, se verrà annacquata a “alleggerita”, renderà la paura di un possibile fallimento meno realistica.
È anche per questo che, accogliendo almeno in parte le critiche su un ruolo di limitazione dell’“autogestione” locale che l’ANVUR si trovava a fare al di là delle sue competenze, ma costretta dalle sollecitazioni dell’amministrazione centrale, e facendo proprie alcune delle critiche delegittimanti che serpeggiavano tra chi temeva che il riferimento all’ASN potesse diventare un ostacolo decisivo per le singole unità accademiche, Giannini è stata vista come una “paladina delle sedi locali”. Sta a lei dimostrare che, con gli interventi annunciati, non intende più muoversi dando per scontato lo storico “equilibrio del terrore” tra centro e periferia che finora non è stato messo in discussione.
Le mie proposte di riforma rafforzativa dell’abilitazione nazionale hanno già delineato, per quel terreno specifico, gli obiettivi strategici che possono caratterizzare un’azione legislativa che senza stravolgere gli assetti istituzionali attuali sia effettivamente riformatrice. Su un piano generale, si possono enunciare così:
- Un’operazione di trasparenza e pulizia intellettuale, in cui le esigenze del centro e della periferia vengano espresse apertamente e trovino un luogo istituzionale di mediazione, senza passare per cunicoli sotterranei incontrollabili. La politica, se rappresentativa della società e dei suoi interessi, ha il diritto e il dovere di elaborare strategie di massima sul ruolo dell’università e della ricerca nello sviluppo collettivo; le sedi hanno il diritto di perseguire in autonomia quegli obiettivi con gli strumenti più idonei e la necessaria libertà di progettazione, consapevoli della responsabilità di rendere conto dei loro risultati e delle loro procedure.
- Il rafforzamento nella dignità e nel ruolo istituzionale della comunità scientifico-accademica. Quest’ultima è stata spesso messa sul banco degli imputati da un discorso pubblico che individuava nella scarsa pulizia morale dei suoi elementi più rappresentativi i problemi dell’università, e ha salutato con gioia qualunque provvedimento che potesse essere presentato come una loro messa in riga. In realtà queste critiche, che partono da dati reali, scambiano spesso i sintomi per cause. Certi comportamenti sono stati l’adattamento di un gruppo socio-culturale debole e diviso, i cui esponenti hanno potuto intervenire nella gestione del “potere” scientifico e accademico solo appoggiandosi a uno dei due “poteri territoriali”, il centro ministeriale o la periferia locale. In questo modo i settori disciplinari hanno finito spesso per ridursi a playground di mediazione, strenuamente difesi nella loro conformazione dagli studiosi più influenti e rappresentativi perché considerati l’unico loro teatro di azione praticabile. È necessario invertire questa tendenza: se si intende realizzare un sistema universitario che a tutti i livelli esalti competenze, capacità e talento nella produzione e nella diffusione di conoscenza, questi elementi possono essere individuati e “misurati” non da decreti ministeriali, ma dalla comunità che è depositaria di quelle particolari forme del sapere. Gli studiosi in quanto tali devono quindi essere coinvolti nelle elaborazioni strategiche di alto livello. In una prospettiva a medio-lungo termine la produzione sul piano elettivo, nei diversi campi disciplinari, di qualche sorta di research councils coordinati che interagiscano con il potere politico nell’allocazione delle risorse e si facciano carico della distribuzione dei compiti e della verifica della qualità dei risultati, potrebbe essere un punto di parenza per il vero crack del sistema di governo “bipolare” con l’aggiunta di un terzo elemento davvero strutturato e capace di far valere la sua autorevolezza.
Queste sono realizzazioni che potrebbero dare qualche risultato a lungo termine, senza complicare in modo irrecuperabile il quadro normativo, ma attaccando alcuni elementi di inefficienza. Muoversi in un’ennesima ristrutturazione dei vecchi schemi consolidati, limitandosi a rivedere le “regole d’ingaggio” tra un’amministrazione ministeriale a corto di soldi e comunità locali che cercano di spremerle quanto possibile, non farà altro che causare ulteriori ritardi, da scontare comunque sulla pelle dei soliti noti, e rimandare una gestione delle risorse che manterrà comunque tutte le criticità del passato.
Originariamente pubblicato sul blog A mente fredda de Il Calibro.
Sulla politica universitaria del nuovo ministro non si può che attendere, con speranze di miglioramenti rispetto ad alcune storture attuali…
Una stortura esemplare:
mentre tutti si lamentano degli esiti della selezione prodotta dalle peraltro autorevoli commissioni ASN – gli stessi presumo che non si sono mai lamentati degli esiti, talvolta ridicoli, prodotti dalle meno autorevoli commissioni locali, che hanno p. es. promosso caterve di ricercatori a tempo indeterminato talmente poco titolati da non essere in grado di ottenere l’abilitazione ASN – gli esiti della selezione ASN iniziano a divenire operativi: ma in che modo?
All’italiana, ovviamente… cioè per concorsi riservati paragonabili a ope legis, ennesime sanatorie e promozioni per scatti d’anzianità:
la Legge 30 dicembre 2010, n. 240, all’Art. 24 (Ricercatori a tempo determinato) aveva infatti inserito il consueto meccanismo utile a tal fine, al comma 6:
“Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 18, comma 2, dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al 31 dicembre del sesto anno successivo, la procedura di cui al comma 5 può essere utilizzata per la chiamata nel ruolo di professore di prima e seconda fascia di professori di seconda fascia e ricercatori a tempo indeterminato in servizio nell’università medesima, che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16.”
Il che vuol dire – come sta già avvenendo – che gli esiti dell’ASN di fatto verranno prevalentemente a valere per la promozione ad associato (upgrade) dei ricercatori a tempo indeterminato idonei, con procedure loro riservate (per gli ordinari i fondi sono di meno immediata disponibilità).
Valeva la pena di mettere in piedi la complessa procedura di Abilitazione Scientifica Nazionale, per poi disconoscere di fatto il valore dell’abilitazione stessa, avviando concorsi riservati che limitano la partecipazione degli abilitati a seconda del loro attuale rapporto di lavoro con singoli Atenei?
Tale procedura riservata ai ricercatori a tempo indeterminato (ruolo non più concorsualmente esistente) non è in contraddizione p.es. con il fatto che molti di loro non hanno passato l’ASN (quindi non si capisce perché il titolo dovrebbe risultare preferenziale)?
E non contrasta con le nuove forme di reclutamento dei ricercatori a tempo determinato e con l’ammissibilità di un’unica forma di concorso riservato per l’ammissibilità al ruolo di associato, limitata ai ricercatori td tipo b (tenure track)?
Evidentemente si stava scherzando…
Chi nel 2010 ha seguito le tormentate vicende dell’approvazione della riforma Gelmini ricorda bene tutti i problemi relativi alla messa ad esaurimento del ruolo di ricercatore. Le soluzioni sono senz’altro più o meno discutibili, ma il commento di anvedi… evidenzia bene l’oggettivo contesto di “guerra tra poveri” creato dalla riforma. Gli “interni” auspicano il proprio avanzamento di ruolo osservando che in assenza di concorsi sono passati anni senza che venisse data loro alcuna chance. Gli esterni (i precari) denunciano il canale preferenziale dato agli interni. Alcuni esterni lasciano anche intedere che buona parte degli interni sarebbero indegni di ricoprire il loro ruolo. La politica chiude il rubinetto dell’ossigeno e i polli di Renzo si beccano tra loro. Quanto a capacità di seminare zizzania, la riforma è stata un capolavoro.
Anvedi che commento delirante!
Ben svegliato, complimenti per aver letto il contenuto di una legge che è stata approvata da oltre tre anni.
Una tra le mille cose che le si potrebbero obiettare: per caso si è accorto che il neoministro, nel quale lei ripone così tante speranze, ha già detto che le procedure di chiamata dovranno essere “semplificate” e affidate alla discrezionalità degli atenei? Ergo, prevedibilmente, niente più per i cosiddetti esterni – nemmeno quel 20% che la legge gelmini aveva riservato loro.
@fausto_proietti:
Sono contento che lei esulti per la possibilità di abolizione delle procedure di concorso tout court: solo assunzioni in deroga!
Non so chi sia più delirante…
Speriamo almeno che i 6 anni di deroga concessi alle procedure regolari previste dalla legge le risultino sufficienti…
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@Giuseppe De Nicolao:
E’ vero, siamo tutti nella stessa barca, però non con le stesse opportunità, pur a parità di conseguimento di un’abilitazione scientifica nazionale… Il che penso potrebbe apparire “strano”, forse una insopportabilmente sperequazione o insensata discriminazione, visto da fuori del nostro Paese…
Personalmente mi premeva sottolineare come, nei testi di legge delle frequenti riforme “epocali” italiane, gli unici contenuti cui valga la pena riservare attenzione riguardino le “deroghe”, inevitabilmente presenti: queste determineranno di fatto l’incidenza operativa della specifica riforma…
E nella fattispecie non mi sembra vi possa essere dubbio che di “deroga” si tratti…
Non avrebbe avuto più senso bandire concorsi aperti a tutti gli abilitati, anziché prevalentemente (con il rischio alla fine di risultare esclusivamente) riservati a un canale di reclutamento per avanzamento di carriera interna alle singole sedi?
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Quanto alla valutazione sulla produzione scientifica non propriamente eccelsa di parte del personale universitario di ruolo italiano, mi sembra capzioso fare riferimento a cosa ne pensino i “precari” – che ora possono anche comprendere personale ufficialmente in ruolo, seppure non a tempo indeterminato – siano più o meno in possesso di abilitazione scientifica nazionale:
a fare testo, ben più autorevolmente, ci sono i giudizi su questa parte del personale universitario di ruolo italiano ufficialmente prodotti dal MIUR, tramite le commissioni ASN, composte di Ordinari italiani ed equivalenti stranieri…
6 anni previsti per la “deroga”, il consueto concorso/sanatoria riservato per gli assunti a tempo indeterminato, di cui si occupano i “sindacati”;
4 anni la validità dell’abilitazione per tutti, compresi i figli di un divo minore, cioè i tempi-determinati, precari, etc.:
Priorità italiote…
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Peccato che questa volta l’abilitazione scientifica nazionale abbia segato in partenza tante possibilità di promozione ope legis: non tutte le ciambelle riescono col buco!
Non avendo avuto risposta, chiedo ancora:
Il ministro ha firmato il decreto di proroga dei lavori delle commissioni?
Se non vado errato e se non mi sono perso qualche passaggio, i 5 mesi di legge scadevano il 30 marzo.
Sul sito non c’e’ notizia. In passato le proroghe venivano annunciate in anticipo.
Adesso la proroga c’è, sul sito ASN: al 31 maggio per tutte le commissioni.
Non credo che le attuali tornate di abilitazione vadano considerate come una procedura ordinaria, ma come un modo, certo pieno di difetti, per fare un minimo di ordine nell’ingorgo di persone bloccate da anni nelle loro progressioni di carriera. Per il futuro sono necessarie procedure più snelle ma il problema non mi pare giri intorno al dilemma se dare più potere alle sedi o più potere a livello nazionale, poiché porcherie sono state prodotte in modo equo in entrambe i casi. Produrre in modo elettivo, come propone Mariuzzo, dei research council, a parte il nome inglese, mi sembra il festival delle mafiette nazionali. Mi pare che il problema italiano sia quello di smettere di pensare a soluzioni autarchiche e cominciare a internazionalizzare il sistema decisionale. Ovviamente questo richiede una guerra di liberazione dalla burocrazie dei verbali e dei formalismi giuridici, poiché non esiste alcuna procedura formale che risolve questioni di merito. Personalmente credo che una procedura snella di abilitazione possa essere fatta “on line”. Si crea un panel europeo chiedendo anche a varie agenzie di altri stati di segnalare dei nomi, i candidati sottomettono i loro cv ed elencano i DOI delle pubblicazioni. I commissari nominano uno due referees, poi ricevuti i reports votano in forma anonima dando un punteggio (es: 0-10) e chi prende più di 8/10 di media e’ abilitato. Il resto del meccanismo deve essere locale, magari con il vincolo che non puoi essere RTD di tipo B dove hai fatto il dottorato.
Devo dire che da quando hanno inventato l’abilitazione nazionale, ho sempre letto su vari forum e mailing list che l’obiettivo (non ufficialmente) dichiarato era di abilitare pochi per far bastare le poche risorse.
Io ho ottenuto la “qualification” in Francia per la funzione di Maitre de Conférence (che in italia corrisponde a ricercatore+associato): lì è molto semplice, i commissari certificano che il candidato abbia un minimo di produzione. I commissari vengono dal CNU (= al nostro CUN).
Infine, ma scusate la domanda ingenua….ma ditemi voi… un ricercatore interno che “passa” al ruolo di associato costa 0.2, un esterno costa 0.7.
E’ evidente che l’interno è più…diciamo sexy…di quello esterno…specie in periodo di tagli.
Cosa succederebbe se l’esterno e l’interno costassero uguali?
>Cosa succederebbe se l’esterno e l’interno costassero uguali?
L’unico modo di rispondere a questa domanda e’ introdurre una cosa “spaventosa” chiamata licenziamento.
Per Plymouthian: scusami, non capisco, perché il licenziamento? (Scusami per il tu, non mi veniva il lei :) )
Da dove dovrebbe venire quello 0.5 in più? Piani straordinari di assunzione sono per definizione temporanei. Se per una volta pensiamo ad un sistema che non debba essere riformato da ogni nuovo ministro, l’unico modo per garantire il reperimento di risorse extra è la possibilità di licenziare gli improduttivi.
Anche perchè se in un dipartimento c’e’ già numericamente abbastanza personale per coprire un determinato settore, l’assunzione di un nuovo docente è giustificabile solo se qualcuno è improduttivo, quindi perchè tenerselo a spese della collettività?
Adesso con questa domanda verrà fuori la mia ignoranza, di cui chiedo scusa.
Domanda: ma che io lavori all’Univ. di Palermo o di Torino, non è sempre lo Stato che mi paga lo stipendio?
sì, però che ci fosse uno dico uno di questi cervelloni che semplicemente aprisse due strade: 1) progressione di carriera 2) acquisizione di nuove figure e la guerra tra poveri non ci sarebbe stata.
secondo step evitare un altro concorso dopo aver conseguito l’idoneità, a che serve se non a prolungare i tempi? una commissione (buona o cattiva) ha determinato la tua idoneità, basta, santo cielo e che le università possano chiamare senza spendere altri soldi in concorsi, ma facciano un colloquio tra i papabili (se si deve chiamare una figura nuova). a Cambridge o Stanford fanno così, e quando chiamano un cretino devono darne spiegazioni all’amministrazione, agli studenti, ecc.
tutto qui, non mi sembra che ci volesse proprio un Nobel per considerare senza inutili complicazioni questo modello anglosassone!
UK e’ anni luce dall’Italia. Non voglio metterla in questioni di meglio o peggio, ma stiamo parlando di un altro mondo, una sistema che non e’ possibile trapiantare nel sistema Italia. Piu’ lo conosco piu’ ne sono convinto. Bisogna cercare di far funzionare il sistema Italia per quello che e’ , inclusa l’Universita’. Non si puo’ avere una unversita’ anglosassone in un sistema italiano.
ricordo ai più che questa Abilitazione doveva essere SOLO quella scientifica e quindi valutare la sola capacità del candidato di FARE SCIENZA….. era molto semplice decidere chi è scientificamente valido,. diciamo ad esempio una bella lista tipo:
n°20 pubblicazioni su riviste ISI o scopus??
n° 10 progetti di ricerca??
n° 10 attività ricerca o seminari all’estero??
altro a piacere
La commissione doveva solo dare questi giudizi, per la coerenza apro un capitolo specifico,domanda:
è possibile che matematico possa pubblicare insieme ad un biologo su di una rivista di biologia o di matematica?
il matematico/biologo è “scientificamente” meno matematico e più “coerente” al SC di un altro che pubblica solo su riviste di matematica pura??
Io purtroppo ho sempre credulo che la scienza traesse grande vantaggio dalla interdisciplinarietà. Ma io sicuramente mi sbaglio …. o forse no!!
Coerenza al Settore Concorsuale e scientificità sono uno il contrario dell’altro??
Ricordo a tutti che l’abilitazione era stata pensata solo per valutare la componente SCIENTIFICA del CV e solo su questa componente scientifica che doveva basarsi strettamente per fare le abilitazioni.
Quindi era stato demandato al successivo concorso per cattedra e a quella commissione la valutazione del resto del CV che in quanto “abilitati scientificamente” potevano partecipare al concorso per docenti.
In questo secondo concorso per insegnamento in un SSD si doveva verificare in primis, la coerenza con SSD di cattedra così come si doveva demandare solo a quella commissione la verifica delle competenze, delle esperienze e della professionalità lavorativa, ovviamente tutte qualità che dovrebbe avere un buon docente che non sono direttamente collegate alle capacità di “fare scienza”.
PER L’AUTOTE:
RIFLESSIONE: LA COSA è BRUTTA PER IN NON STRUTTURATI, DOTTORI RICERCA, CHE POI SONO DIVENTATI ASSEGNISTI ECC. PER 10 ANNI.
prima (e per tantissimi anni), per essere strutturato, serviva un mezzo articoletto e due prove scritte e una orale (ricercatore a tempo indeterminato)
ora, non bastano neanche 3 o 4 libri fatti essendo ancora precari, con la fretta e l’ansia di chi non vede mai il traguardo dell’assunzione per poter stare tranquillo.
è bruttissimo, è come un autobus, che non si ferma mai, allora tu corri alla prossima fermata, con il fiatone (scrivi un altro libro), ma non si ferma, allora corri più veloce alla fermata dopo, lo raggiungi, ma non ti apre le porte, poi corri ancora più veloce (scrivi un terzo libro, forse un quarto), lo raggiungi, poi ti manca il respiro, ti prende un infarto e muori.
CONCLUSIONE: un conto è presentarti all’ASN da strutturato (non ti cambia nulla se non la prendi, lo stipendio non ti mancherà), un altro è presentarti da precario, non essendoci più posti da ricercatore a temp. ind. e con l’asticella sempre più alta da saltare.
ps: ho usato il “tu” generico.
“ha selezionato, in pratica, un numero di candidati non molto superiore a quello che verosimilmente sarà possibile assorbire nei prossimi anni”
Senza offesa, mi pare di stare leggendo un libro di fantascienza! E con quali risorse? Una minima percentuale col piano associati, praticamente niente per i precari, poi chi assumi?
Quali speranze che metti nel titolo? Speranze per università e scuole private? Mi taccio, se no…
Paolo se cerchi indietro su ROARS trovi alcune previsioni sulla quantità di abilitati assorbibili nei prossimi quattro anni. Con la dovuta approssimazione il numero somiglia molto a quello degli effetti abilitati.
Non è un caso, notizie che ritengo attendibili e riportate sempre anche qui su ROARS, parlano di un “suggerimento” del ministero alle commissioni riguardante la percentuale di candidati da abilitare. Molte commissioni a vedere i risultati sembra si siano attenuti a questa linea guida, altre hanno fatto a modo loro.
Il vero fallimento dell’ASN è l’averla trasformata in un concorso comparativo. Tutti lo sanno e lo dicono, ministro compreso, ma chi sapeva e poteva intervenire non ha fatto nulla, perchè alla fine pensando al proprio orticello andava bene cosí.
il problema dell’università italiana è per chi sta fuori, non dentro……….
la concentrazione di sforzi ed energie dovrebbe andare nella direzione di far entrare (come ricercatore a temp. ind. riprestinandolo, o pure tramite ricercatore td. di tipo b)) chi ha un curriculum grande ma non ha stipendio.
basta ASN, fate un’abilitazione per soli ricercatori o più posti per chi, pur titolato, è fuori!
basta posti per associato o ordinario, loro hanno lo stipendio,
il problema è il precariato (titolato, anche molto, anche con 4 libri e 20 saggi c’è gente che non è stata abilitata da associato, ma per altri motivi non è stata strutturata prima come ricercatore),
lo volete capire o no?
La ASN e’ stata un tentativo, pieno di molti difetti tipici delle soluzioni autarchiche all’ italiana, di razionalizzare l’ingresso di un po di gente ferma da anni, compatibilmente con le risorse economiche limitate che sono state investite sulla’ università.
E’ chiaro poi che con le regole attuali l’ingresso di esterni cozza contro la promozione degli attuali ricercatori a tempo indeterminato, si tratta di un conflitto scritto e voluto dal legislatore in piena consapevolezza di cio’ che faceva.
Il problema dei precari della ricerca non e’ comunque di facile soluzione, poiché’ ci sono anche li delle contraddizioni forti, infatti, se anche il sistema fosse e non lo e’ il più’ onesto del mondo, da un lato vale il diritto soggettivo dei singoli a vedersi riconosciuti i loro meriti, dall’ altro l’insieme dei precari e’ distribuito in modo irrazionale, generato da potentati mafiosi molto attenti a espandere il loro potere, ma al di fuori di una benché’ minima programmazione.
La realta’ e’ che molto difficilmente la politica vorra’ cercare una soluzione, temo che molte persone verranno allontanate per stanchezza, anche perché il ridimensionamento dell’ offerta didattica porterà a minori esigenze di personale docente.
@p.marcati
il suo discorso è corretto ed esatto.
il punto è:
la vicenda ASN ha tolto visibilità e risorse al problema dei precari.
1. se uno è ricercatore a tempo ind. e diventa associato, aveva il pane prima e lo avrà di più dopo.
2. se uno è associato e diventa ordinario,aveva il pane prima e lo avrà di più dopo.
3. Se uno non è ricercatore, ma precario, non riesce più a competere ed è costretto a fare domanda per ASN, pur essendo più debole degli strutturati ed avendo solo quella possibilità
soltanto 1 o 2 persone (su 200 di media) non strutturate hanno preso, di media, l’abilitazione, per ciascun settore, se ci fate caso, perché la concorrenza è sleale: uno che è dentro e stabilizzato da tanto, ha avuto tutto il tempo e la tranquillità per farsi un curriculum. Chi ha un curriculum grosso, ma è ancora precario, è costretto a lavorare anche di notte, con ANSIA, facendo mille altri lavori nel frattempo, per non uscire “di mediana”.
ci vuole un corsia apposita per i precari titolati, che non hanno il pane.
Perfettamente d’accordo.
L’introduzione dell’ASN ha creato una bruttissima guerra tra RTD/assegnisti contro RTI per un posto da associato.
E non si tratta di un transitorio!!! Attualmente gli RTI sono circa un terzo degli accademici in italia (correggetemi se sbaglio) e sono “giovani”.
Sono d’accordo sulla corsia preferenziale, ma perdonatemi, credo sia meglio reintrodurre il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato.
L’assurdo che ho sempre fatto notare e’ che i “precari” di solito sono legati ad uno strutturato che ha in qualche modo finanziato il loro posto.
Di fatto con la loro produzione scientifica non fanno altro che far aumentare quelle mediane che poi dovranno superare.
Questo meccanismo perverso, che probabilmente non verra’ mai implementato in quanto dubito fortemente che il ministro dara’ inizio alla 3a tornata, e’ qualcosa a cui nessuno ha voluto mai pensare.
Al solito si fanno le regole con la prospettiva di cambiarle, quindi si gestisce sempre il problema immediato e non si fa mai una programmazione a lungo termine.
Il problema attuale e’ gestire la promozione di tutti (o quasi) gli attuali ricercatori TI, per loro e’ stato congeniato questo meccanismo.
@ROARS.IT
Faccio appello alla RADAZIONE ROARS, di occuparsi come dibattito e come invito al MINISTRO nuovo, della situazione dei precari titolati (che magari hanno scritto tantissimo)!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Per favore, abbiamo visto che l’ASN serve solo agli strutturati (IL 99% di chi l’ha presa era già strutturato), ai quali non cambia nulla (nella sostanza), perché il posto lo hanno già.
BASTA a parlare dell’ASN!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!111
LA PRIORITA’ E’ COSTITUITA DAI PRECARI!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
I POVERI NON POSSONO ASPETTARE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Concordo pienamente con Plymouthian.
Il verbale conclusivo della commissione 05/H1, testualmente, riporta: “Qui di seguito viene riportato l’elenco dei candidati di prima e seconda fascia riportante l’esito della valutazione comparativa”…
[…] Fioccano le sospensioni e gli annullamenti del Tar del Lazio, dopo i ricorsi contro l’esito dell’Abilitazione scientifica (non didattica) per i professori universitari. In diversi i casi, i giudici hanno stabilito che le commissioni esaminatrici devono essere ricostituite per emettere un nuovo verdetto entro 60 giorni. Un terremoto per l’Università italiana. Una vicenda che reclama chiarezza. […]