Agli inizi di febbraio di quest’anno avrà luogo a Dublino una conferenza internazionale sulla “terza missione” dell’università, frutto di un progetto finanziato dalla Commissione Europea. Apprendiamo dalla sua brochure che questa terza missione si affianca a quelle tradizionali (consistenti nell’insegnamento e nella ricerca) e consiste in tutte le attività che ne facilitano l’impegno con la società e l’industria. Non conosciamo quali siano le conclusioni del progetto di ricerca, ma è significativo il fatto che si parli congiuntamente di società e industria. Sono infatti a nostro avviso due ambiti di intervento completamente differenti, a meno di non ridurre la società, con tutti i suoi valori e la complessità di interazioni civili, morali, interpersonali, a un ramo dell’industria e della valorizzazione economica della merce, ovvero a sua variabile dipendente. Vediamo perché.

Se la prima missione dell’università – quella dell’insegnamento – è rivolta alla creazione di figure professionali nei diversi campi, la seconda missione – la ricerca scientifica – da tempo non ha più la sola funzione di soddisfare la mera curiosità del ricercatore; essa riveste un sempre più accentuato ruolo in campo economico e come fattore di sviluppo sociale. Ancora una volta, la trasformazione in questa direzione è avvenuta dagli Stati Uniti, con la nascita della cosiddetta “società della conoscenza”. Possiamo individuare il punto di svolta nell’azione del tecnocrate e ingegnere americano Vannevar Bush che nel suo storico rapporto scritto nel 1945 per il Presidente Roosevelt – Science The Endless Frontier –, sostenne la necessità di innovare radicalmente il sistema della ricerca pubblica, basandolo fondamentalmente sulle strutture universitarie, e sollecitò un forte impegno del governo federale, proponendo la creazione di una agenzia indipendente (sarà poi la NSF – National Science Foundation) con lo scopo di «sostenere la ricerca scientifica e l’avanzamento dell’educazione scientifica»: solo essa avrebbe potuto sottrarsi alla pressione della immediata fruibilità dei prodotti di ricerca – come avviene in quella industriale – ed essere invece dedita alla ricerca di base.

La ricetta di Bush ha avuto uno straordinario successo e ancora oggi viene sottolineata la peculiarità della ricerca negli Stati Uniti, a differenza di quella di altre nazioni leader, come il Giappone e la Corea del Sud, o emergenti, come la Cina: in America si spende in ricerca di base in percentuale sul Pil sette volte di più di quanto non facciano i paesi asiatici, che non a caso stanno cercando di adottare gli opportuni correttivi.

Un ulteriore passo assai importante per il rafforzamento del legame tra ricerca e sviluppo tecnologico è stato compiuto con il cosiddetto Bayh-Dole Act del 12 dicembre 1980, che permette alle università e agli enti di ricerca (pubblici o privati) di sfruttare a fini commerciali il risultato delle ricerche condotte dai loro scienziati con l’utilizzo di fondi federali o pubblici. In tal modo il Congresso e la NSF hanno incoraggiato la cooperazione con l’industria da parte dell’università, dando la possibilità di gestire in modo autonomo il frutto delle proprie ricerche e di creare anche numerosi centri misti universitario-industriali allo scopo di sfruttare le innovazioni, specie nel campo delle biotecnologie e in quello farmaceutico, i più suscettibili di un ritorno economico assai remunerativo.

Come si vede è già da tempo consolidata non solo l’idea dell’utilità della ricerca scientifica ai fini dello sviluppo economico-sociale, ma sono anche stati approntati gli strumenti (ne abbiamo descritto solo alcuni più significativi, ovviamente) che ne facilitano l’implementazione. È questa l’idea che sta anche alla base del modello della “triplice elica”, proposto negli anni ’90, che vede nell’interazione tra politica, industria e università la chiave per l’innovazione e lo sviluppo economico. Le università hanno in questo modello un ruolo fondamentale in quanto per produrre nuova conoscenza ci si deve collocare sulla “frontiera della scienza”, cioè in quei settori ai margini della conoscenza consolidata dai quali scaturiscono le autentiche innovazioni e che sono troppo rischiosi e di non immediata remunerazione affinché siano oggetto di investimento da parte delle industrie. Sta in ciò, secondo il suo maggior teorizzatore – Henry Etzkowitz – la terza missione delle università, che devono così assumere un più diretto “ruolo imprenditoriale”.

Questo quadro di fondo viene spesso inteso – specie nella provinciale Italia – come implicante tutta una serie di misure che prevedano:

– investimenti in ricerche applicate che siano funzionali alla loro ricaduta economica;

– la necessità di favorire le istituzioni di eccellenza, in quanto solo queste sono in grado di produrre conoscenza innovativa;

– l’indispensabilità di valutare e misurare le performance cognitive delle singole università in modo da allocare alle migliori i finanziamenti premiali, con le conseguenti nevrosi misurative di cui l’Anvur è espressione.

Basterebbe leggere un po’ meglio quanto contenuto persino nei sostenitori dell’università imprenditrice – come lo stesso Etzkowitz – per rendersi conto che le cose non stanno affatto in questi termini.

Innanzi tutto – lo sottolineava Vannevar Bush e lo ribadisce Etzkowitz (The Triple Helix. University-Industry-Government Innovation in Action, Routledge 2008) – tale ruolo propulsivo delle università può essere realizzato solo se queste realizzano in primo luogo la ricerca di base, perché è proprio questa che sta alla frontiera e che non viene perseguita dalle industrie, le quali sono più interessate alla ricerca applicata. In un’economia da questo punto di vista “sana” (e prendiamo sempre ad esempio quella americana) le università sono prevalentemente dedite alla ricerca di base (che ottiene il 75% delle risorse complessive nel settore Scienze e ingegneria). Ciò è anche testimoniato dal fatto che il 66% della ricerca delle università americane è finanziata pubblicamente e solo il 6% dal privato (nel 2008) (vedi figura).

E tuttavia il 68% dei finanziamenti totali per ricerca è effettuata dal settore privato. Ciò significa che industrie e corporation hanno laboratori di ricerca assai consistenti nei quali vengono investite considerevoli somme, prevalentemente indirizzate alla ricerca applicata, ma basata sulla ricerca di base condotta nelle università. Se invece vediamo la situazione italiana, scopriamo che da noi l’ammontare dell’investimento privato è il 42% del totale. In rapporto al Pil, il settore privato spende lo 0,6% in R&D, mentre negli USA è il 2% e nell’EU27 l’1.13% (dati Eurostat). Qui emerge dunque la difficoltà dell’Italia in questo campo: la scarsa propensione del suo sistema industriale all’investimento e alla ricerca innovativa (anche applicata) porta a scaricare sullo stato e sulle università anche un ruolo e una funzione che non è loro. La più recente politica governativa si indirizza proprio in direzione della supplenza degli scarsi investimenti industriali, con la conseguenza di sacrificare (viste le risorse sempre in diminuzione) la ricerca di base e così, nel lungo periodo, finire per tagliare il ramo su cui la stessa ricerca applicata può fiorire e svilupparsi.

Ma la “terza missione” – abbiamo detto – ha anche una dimensione sociale, perché è la stessa ricerca a richiederla: questa infatti dipende dalla qualità e quantità del “capitale umano” (e dal capitale sociale, su cui per brevità non ci soffermeremo). Il capitale umano non si forma con le università di eccellenza e con le ricerche di punta, ma con la diffusione della cultura, con la crescita complessiva del paese in preparazione, “skills” e competenze diffuse, che sono frutto di tradizione, di sedimentazione, di crescita lenta e costante. Esso rappresenta il patrimonio cognitivo di una nazione e può essere assicurato da una rete d’istruzione universitaria diffusa nel paese, di buona qualità e in grado di fornire competenze e mentalità flessibili: non tutti devono essere scienziati e inventori, ma è necessario tutto un ceto di intellettualità diffusa senza la quale la società della conoscenza non potrebbe neanche esistere. Negli USA le università di ricerca sono solo una parte di tutto il sistema delle università americane e comprendono le Very High Research University (RU/VH), le High Research Universities (RU/H) e le Research Universities (RU). Le più prestigiose sono ovviamente le prime e in tutto comprendono 108 atenei (di cui ben 73 sono pubblici); poi vengono le RU/H con 98 atenei (74 pubblici) ed infine le RU con 89 atenei (30 pubblici). In tutto 295 università su un totale di 4633 università (pubbliche e private), ovvero il 6,4%, comprese in 33 tipologie (ultima classificazione del 2010 della Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching). In esse sono concentrate le ricerche e a queste vanno per lo più i finanziamenti con contratti di ricerca pubblici; alle altre solo le briciole. A che servono allora le 4336 università e colleges rimanenti? Servono appunto a creare quell’infrastruttura sociale, quel capitale umano, senza il quale la ricerca e la sua diffusione sociale non sarebbero possibili. Un’esigenza ben nota all’Unione Europea che, nell’ambito della Strategia di Lisbona, si è proposta l’obiettivo del 40% della popolazione tra il 30-34 anni con il completamento dell’educazione terziaria (cioè con la laurea), laddove l’Italia realizza un misero 19,8% nel 2010, già assai basso rispetto alla media europea del 33,6% (si veda lo Staff Working Document del Council of the European Union del 20-12-2011 – SEC(2011) 1608 Final). Un ulteriore indebolimento dell’infrastruttura universitaria e un privilegiamento delle sole realtà universitarie “eccellenti” andrebbe in direzione esattamente contraria rispetto gli impegni assunti in sede europea.

V’è però un altro aspetto di questo modo tutto italiano di interpretare la “terza missione”. Uno degli aspetti su cui insisteva Vannevar Bush e su cui hanno portato l’attenzione molti altri teorici e studiosi è che non è possibile l’innovazione senza parimenti coltivare l’interdisciplinarietà e quindi anche sviluppare le ricerche di carattere umanistico. Di ciò si sono accorti persino in Cina, dove ci si sta proponendo di combattere lo specialismo e la monocultura tecno-scientifica delle proprie università (D.F. Simon & Cong Cao, “China’s Future Have Talent, Will Trhive”, Issues in Science and Technology, Fall 2009). In Italia, invece si ironizza sulla “cultura che non si può mangiare” e addirittura v’è chi – come Odifreddi – ritiene che essa sia solo la fisima di una “lobby umanistica” il cui destino è di «finire inesorabilmente nel “cestino di rifiuti della storia”». Una cecità che sta progressivamente portando – nel contesto del definanziamento complessivo della ricerca – ad un ulteriore e percentualmente più drastico taglio delle ricerche umanistiche. Non c’è bisogno di scomodare il recente libro Marta Nussbaum (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno di una cultura umanistica, Bologna: Il Mulino) per argomentare ulteriormente in merito; e si veda anche quanto scriveva già nel 2001 il Presidente dell’università di Yale Richard C. Levin sulla “contribution of liberal education to economic growth”, in un suo discorso in una università cinese.

Tuttavia, finora abbiamo parlato della terza missione come semplicemente funzionale allo sviluppo economico e quindi l’abbiamo comunque subordinata ad una logica produttivistica. Ma è solo questo il senso dell’uni­versità? Il suo valore si racchiude interamente nel contributo che essa può dare all’economia? Una risposta positiva equivarrebbe a sostenere la tesi che una società si regge solo sulla produzione e che null’altro ha valore; che i suoi cittadini siano consumatori solo di merci e non importa loro null’altro; che insomma una civiltà sia l’ammontare complessivo delle merci che produce. Non ci vuole molto per intendere l’assurdità di una posizione di questo tipo. In effetti le università hanno un ruolo cruciale perché conservano quella che da secoli ha costituito la nostra eredità culturale, perché in esse è possibile conciliare tradizione e modernità: istruzione, democraticità, pace, sicurezza e benessere generalizzato rappresentano fattori strettamente concatenati tra loro e interdipendenti; ma tra di essi, l’istruzione è l’elemento strategico sul quale dovrebbero esser concentrati gli sforzi pubblici. È dalle università e nelle università che si decide quali cittadini e quale società costruiremo per il nostro domani. Insomma, l’università ha missioni e potenzialità che rispondono ad una esigenza diffusa di formazione culturale e di maggiore consapevolezza della condizione umana, col fornire un’istruzione liberale agli uomini e ai cittadini, favorendo un clima di tolleranza e di pluralità. Tutto ciò fa parte – come sostiene persino il presidente dell’università di Harvard Drew Gilpin Faust (“The University’s Crisis of Purpose”, NYT, Sept. 6, 2009) –  dei compiti fondamentali dell’università; appiattirla alla sola dimensione produttivistica, cui anche la ricerca scientifica dovrebbe essere subordinata, significa sminuirne il ruolo e non comprendere l’enorme significato che essa ha ancora per una società migliore, più democratica, più consapevole.

Questi sono – direbbero alcuni – valori “non negoziabili” che stanno alla base di ogni convivenza civile: distruggere il tessuto universitario diffuso per privilegiare poche università di eccellenza e definanziare la ricerca di base per concentrare le risorse su quella applicata, non solo causerebbe l’impossibilità della stessa innovazione produttiva, ma porterebbe ad una progressiva decadenza del tessuto civile, morale e sociale dell’Italia. È  a questo processo che già da qualche tempo stiamo assistendo; e non sembra che il governo Monti per questo aspetto rappresenti una novità.

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