«Un paio di anni fa l’Unione degli Studenti ha pubblicato un documento dallo stile rudimentale e contraddittorio nei contenuti, che prima rifiuta la valutazione nella scuola, poi attenua il rifiuto e ne chiede soltanto forme diverse […] la bocciatura può essere condannata come strumento antipedagogico soltanto entro il contesto di una scuola di casta; al di fuori di questo contesto ed entro una scuola che, favorendo la mobilità sociale, aiuta ogni discente a superare le difficoltà e lo induce a dare il meglio di sé, bisogna innanzitutto cessare di usare il termine pregiudicante di ‘bocciatura’ e sostituirlo con il termine ‘ripetenza’ e poi comprendere che la ripetenza è uno strumento che in alcuni casi, anche per il bene del discente, è opportuno usare. Don Milani, citato sempre a sproposito come oppositore di principio della ripetenza, si era accorto come la scuola anglosassone, approdo finale della riforma dell’autonomia, fosse una scuola di casta: “[…] Nelle loro scuole non bocciano. Deviano verso le scuole di minor pregio. I poveri nelle loro si perfezionano a parlare male. I ricchi a parlare bene. Dalla pronuncia si capisce quanto uno è ricco e che mestiere fa il suo babbo.” L’assenza della meritocrazia e della ripetenza a scuola, così agognata dall’Unione degli Studenti in nome dell’uguaglianza astratta, è non meno amata dalle caste neoliberali perché priva la scuola della capacità di promuovere la mobilità sociale.»
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente lettera firmata dai professori Di Biase, Badiale, Di Remigio, Pistocchi. Si tratta di una replica a questo documento UdS.
Nota bene: la Redazione è ben lieta di ospitare il dibattito, e desidera precisare che in generale le lettere e i documenti pubblicati su Roars sono espressione del pensiero dei loro autori e non necessariamente degli orientamenti della redazione.
Un paio di anni fa l’Unione degli Studenti ha pubblicato un documento[1] dallo stile rudimentale e contraddittorio nei contenuti, che prima rifiuta la valutazione nella scuola, poi attenua il rifiuto e ne chiede soltanto forme diverse; prima considera la bocciatura crimen exceptum, poi boccia senza istruttoria e senza processo questa società – “Di questa società, noi, (sic) possiamo farne (sic) a meno in quanto (sic) essa serve solo a mantenere lo stato di cose presenti” -; prima esige esattamente il modello di scuola che le riforme dell’ultimo ventennio hanno già attuato, poi lancia contro la scuola attuale, benché esaudisca già ogni sua richiesta, addirittura l’appello alla rivoluzione socialista. A differenza dei rivoluzionari di un tempo che, avendo frequentato la scuola gentiliana, sapevano “esprimersi molto bene oralmente e per iscritto”[2], i loro attuali epigoni, educati da una scuola perfettamente armonizzata con le esigenze sessantottine, si esprimono con difficoltà; in compenso, proprio come è accaduto ai loro precursori, resta loro celato che proprio là dove si credono più rivoluzionari non fanno che obbedire ai più profondi imperativi dell’ideologia neoliberale.
Veniamo innanzitutto al tema della bocciatura, che tanto indigna gli studenti estensori del documento. Se se ne continua a parlare dopo che è stata praticamente abolita in gran parte delle scuole, ciò accade perché in questo tema l’antipedagogia neoliberale ha trovato, più che un suo punto di forza, un punto debole della vecchia pedagogia. La bocciatura come problema perturbante è un’eredità della scuola gentiliana. Al di là dei suoi vuoti filosofemi per cui l’attività pedagogica realizzerebbe quasi una unio mystica tra docente e discente e il docente insegnerebbe nella misura in cui imparerebbe, Gentile organizzò una scuola crudamente selettiva, tale da escludere le masse dalla formazione teorica, per poter riservare i migliori posti pubblici ai figli dei notabili. È anche possibile che la sua riforma abbia restituito l’aura di nobiltà alla cultura umanistica che da sempre la grettezza del businessman respinge come inutile; è comunque sicuro che essa ha provocato gravi danni didattici. Se il docente non ha il compito pedagogico di aiutare tutti ad acquisire almeno le conoscenze e le competenze elementari e a raggiungere il massimo delle loro capacità, ma quello, come si diceva con termine orrendo, di scremare le classi, la sua didattica si avvolge nella contraddizione: come azione pedagogica facilita la comprensione, ma come azione selettiva mira a renderla più ardua; mentre la sua essenza pedagogica le prescrive di incoraggiare gli alunni alle prese con le inevitabili difficoltà di apprendimento, la sua finalità selettiva la invita a scoraggiarli; quando poi la selezione sia guidata dall’istinto di casta, allora si verifica il completo tradimento della scuola pubblica, nel cui spirito è posto l’obiettivo di favorire la mobilità sociale[3].
Già da qui è però chiaro che la bocciatura può essere condannata come strumento antipedagogico soltanto entro il contesto di una scuola di casta; al di fuori di questo contesto ed entro una scuola che, favorendo la mobilità sociale, aiuta ogni discente a superare le difficoltà e lo induce a dare il meglio di sé, bisogna innanzitutto cessare di usare il termine pregiudicante di ‘bocciatura’ e sostituirlo con il termine ‘ripetenza’ e poi comprendere che la ripetenza è uno strumento che in alcuni casi, anche per il bene del discente, è opportuno usare.
Questa comprensione è preclusa a chi sia privo della coscienza di cosa significhi insegnare e apprendere; chiedendo però una scuola più accogliente, non autoritaria, basata su rapporti orizzontali, serena, senza ansie da prestazione, proprio l’Unione degli Studenti testimonia di soffrire di questa privazione. In primo luogo essa auspica qualcosa che è già stato dato in abbondanza; tanto meno si accorge che la ‘scuola orizzontale’ ha prodotto danni enormi ai discenti, alla cultura e alla società, che l’insegnante attuale è andato molto al di là della ‘guida amichevole’ di cui parla Gramsci[4],ed è un badante umiliato che può anche essere aggredito impunemente da alunni e genitori, a tal punto ‘amichevole’ da non essere più guida e da doversi dimenare tra progetti, uscite, gite, film, power point, teatro, mostre, scuola-lavoro, scioperi indetti dall’alto, giornate dedicate a questo e a quello, senza che possa insegnare niente. Questa didattica di cui l’Unione degli Studenti si attende l’attuazione tramite l’azione rivoluzionaria è di fatto già rancida; e lo è perché disprezza la verità banale che nessuno può imparare al posto di un altro, perché ha tradito il principio che il cuore dell’insegnare e dell’apprendere è il lavoro del discente, che ognuno può istruirsi solo se lui stesso memorizza e si esercita.
È Walter Benjamin, in una delle sue formule definitive, ad aver esplicitato ciò che Gramsci presuppone nelle sue lucide argomentazioni – che si impara producendo: si impara a scrivere non leggendo mille libri o facendo mille esperienze, ma scrivendo, si impara a pensare risolvendo problemi – come ricorda Hegel contro l’illusione di poter conoscere la conoscenza prima che conosca: non si impara a nuotare senza entrare in acqua. All’Unione degli Studenti manca la coscienza che imparare è lavoro e che il lavoro è disciplina, cioè una condotta severa di vita, ed è fatica – anche fisica, come ricorda Gramsci[5]. La scuola la allevia, la rende sopportabile, sia dosando le difficoltà di apprendimento sia esaltando l’importanza del suo risultato; essa tradisce però il proprio compito quando, come fa quella odierna, accolla al docente ogni peso obbligandolo a escogitare espedienti didattici così sottili che i discenti imparino senza accorgersene, trastullandosi tra giochi; dal gioco, infatti, può forse derivare qualche virtuosismo particolare, ma non l’apertura coraggiosa all’esistente nella sua dura estraneità né i mezzi per affrontarlo e conciliarlo. Poiché apprendere è lavoro e il lavoro è fatica, la scuola non può fare a meno di valutare se e quanto ogni discente si sia impegnato, e, nel caso in cui questi abbia eluso per pigrizia il suo dovere nel corso dell’anno, ha il dovere di farglielo ripetere. In realtà la ripetenza è un onere non tanto per il discente che vi incorre, a cui anzi si concede tempo per eseguire il lavoro evitato, quanto per la società, che finanzia l’istruzione pubblica, e per gli insegnanti che devono dare di più proprio a chi ha dato di meno.
La prassi indulgente per cui oggi nelle scuole una sufficienza non si nega più a nessuno non può essere affatto interpretata come un avanzamento nel cammino verso il paradiso pedagogico, ma va bollata come una miserevole misura di spending review e come inadempienza dei doveri professionali da parte degli insegnanti, in definitiva come subdola distruzione della credibilità delle istituzioni pubbliche e della cultura. Quando non ci sia l’intento di assicurare la divisione in caste, la ripetenza è uno strumento pedagogico legittimo.
Agli estensori del documento che, lasciandosi trasportare nell’insincerità dal vittimismo giovanile, condannano il modello scolastico attuale come ‘autoritario, meritocratico, frontale e verticale’, occorre rispondere che purtroppo la scuola odierna è il contrario di tutto ciò e assumersi il compito di un’apologia di queste quattro qualifiche.
Purtroppo la scuola attuale non solo non è autoritaria, ma è proprio senza autorità – e il tono spericolato assunto dagli studenti nel loro documento ne è già una prova sufficiente. Essi trascurano che l’interesse fondamentale di chi impara è avere un maestro autorevole da cui assorbire perfino le pause e le esitazioni. Cosa se ne fa lo studente di un insegnante che non conosce la materia, che non lo sa correggere, che non sa rispondere alle domande, che anzi lo rimanda alle sue opinioni? ‘Autorità’ è la forza immateriale acquisita da chi ha imparato, da chi, cioè, ha oltrepassato le sue opinioni e si è innalzato alla scienza delle leggi delle cose, così da disporre di pensieri oggettivi, argomentati. In pedagogia la polemica contro l’autorità è sempre la contraddizione di voler essere allievi ma di non volere avere il maestro.
Poiché volevano in fondo distruggere la qualità della scuola pubblica per creare domanda di scuola privata[6], i riformatori se ne sono appropriati con fierezza e hanno sostenuto che in Italia l’insegnante avesse troppe conoscenze, che il conoscere del docente, anziché affascinare il discente e stimolarne l’emulazione, lo paralizzasse, lo umiliasse, inducesse a ignorare i mille ‘saperi’ (proprio così: saperi) di cui già dispone per via informatica, molto più incisivi sull’attualità di quanto possa esserlo l’anacronistica, la noiosa cultura libresca (proprio così: libresca); il docente doveva dunque scendere dalla cattedra (una dirigente scolastica lottando con tutte le sue forze contro un voto non abbastanza illusionistico ha rinfacciato alla docente che lo aveva proposto di valutare dalla cattedra) e programmare mille espedienti di didattica innovativa perché finalmente gli alunni imparassero ‘in un rapporto orizzontale, sereno, senza ansie da prestazione’, come si dice nel documento dell’Unione degli Studenti.
Purtroppo la scuola attuale non è meritocratica. Il merito contrasta con l’uguaglianza, è vero; ma da una parte anche l’uguaglianza contrasta con il merito, ossia né l’uguaglianza né il merito sono valori assoluti, ma si mediano l’una con l’altro entro la solidarietà sociale; d’altra parte l’uguaglianza è contrastata non solo e non tanto dal merito, ossia da ciò che si consegue mediante il proprio lavoro, ma anche, e in modo più profondo, dalla casualità naturale, per cui si nasce belli o meno belli, forti o meno forti, in questa o in quella famiglia ecc. Oltre la società di classe che si richiama all’ideale del merito, si profila non la società egualitaria, come credono gli ingenui studenti rivoluzionari, – l’uguaglianza è infatti pensabile solo in astratto, essendo la realtà diversa – ma la società di casta. Don Milani, citato sempre a sproposito come oppositore di principio della ripetenza[7], si era accorto come la scuola anglosassone, approdo finale della riforma dell’autonomia, fosse una scuola di casta: “I miei compagni di lavoro erano inglesi e non sapevano scrivere una lettera in inglese. Spesso se la facevano scrivere da Dick. Dick qualche volta chiedeva consiglio a me che ho studiato sui dischi. Anche lui parla soltanto cockney. Cinque metri sopra le nostre teste c’erano quelli che parlano ‘l’inglese della regina’. Il cockney non è molto diverso, ma chi lo parla è segnato. Nelle loro scuole non bocciano. Deviano verso le scuole di minor pregio. I poveri nelle loro si perfezionano a parlare male. I ricchi a parlare bene. Dalla pronuncia si capisce quanto uno è ricco e che mestiere fa il suo babbo.”[8] L’assenza della meritocrazia e della ripetenza a scuola, così agognata dall’Unione degli Studenti in nome dell’uguaglianza astratta, è non meno amata dalle caste neoliberali perché priva la scuola della capacità di promuovere la mobilità sociale.
Anche nella polemica contro il modello ‘frontale’ gli studenti si alleano alla pedagogia di regime che irride da almeno vent’anni la lezione frontale come sinonimo di inerzia e inefficacia didattica, trascurando non solo che la tradizione millenaria che se ne è servita ha prodotto civiltà, arte e scienza, ma che mai nel lavoro in classe gli insegnanti si sono limitati a tenere conferenze agli alunni e che sempre hanno fatto anche esercitazione. In ogni caso, anche se gli insegnanti si limitassero a tenere conferenze davanti alla classe silenziosa, resterebbe il fatto che la lezione ‘frontale’ non esaurisce la loro didattica, ma ne è soltanto l’inizio. La segue il lavoro personale dell’alunno: memorizzazione delle conoscenze ed esercitazione sui problemi – qui l’alunno non è passivo, è attivo; seguono verifiche e valutazioni, in cui il docente ascolta, legge e corregge il discente, in cui dunque questi è attivo di fronte al docente passivo. In quanto è soltanto l’inizio della didattica e dunque si completa nei suoi passi successivi, la lezione frontale è un metodo efficace; gli altri metodi, quelli applicati nella favolosa Finlandia[9] o in altre terre lontane, ma anche sempre più nella scuola italiana riformata, hanno un’efficacia per lo meno dubbia, perché attribuiscono in modo subdolo al docente tutta la fatica dell’apprendimento dell’alunno e non considerano che risparmiare la fatica dell’apprendimento porta immancabilmente con sé il risparmio dell’apprendimento stesso. La differenza tra il primo metodo e gli altri può forse essere resa intuitiva con una similitudine tratta dalla medicina: alcune terapie, per esempio quelle chirurgiche, implicano l’anestesia del paziente, altre, per esempio le diete, il suo impegno.
L’insegnamento è simile non alla chirurgia, ma alla dietetica: esige la docilità del discente, la sua tenacia, la sua volontà di dotarsi dell’habitus scientifico. I metodi della scuola attuale sono invece ispirati all’operazione in anestesia totale; da una parte, infatti, non meno dei chirurghi rispetto all’eventuale fallimento dell’operazione, oggi gli insegnanti sono ritenuti i soli responsabili dell’insuccesso dei loro alunni, così da essere tentati di rinunciare alla valutazione imparziale per evitarne le conseguenze; dall’altra, il privilegio riservato alla progettualità e all’innovazione rispetto al lavoro di routine dipende dal falso ideale dell’imparare involontariamente, che riduce la didattica ai contenuti acquisibili per gioco – di fatto alla mera socializzazione. Questo ideale suscita un secondo inconveniente: il trasferimento al docente di tutto l’onere dell’apprendimento trasforma la scuola riformata proprio in quella istituzione totale che il documento dell’Unione degli Studenti finge di scorgere nell’antico modello di scuola; in quanto non è finalizzata a trasmettere la conoscenza, la scuola si trasforma in un nido d’infanzia, ma spesso proprio in un manicomio, imbevuto di propaganda ideologica, abbandonato dalla scienza, dalla filosofia, dal gusto, adatto solo a bandire il pensiero critico dalla società e a conformarla all’opinione autorizzata.
La scuola attuale, purtroppo, non è verticale. Nella vita sociale, a differenza di quanto vogliono credere gli studenti estensori, non ci sono soltanto relazioni orizzontali, ce ne sono anche di verticali: quelle tra individui della stessa età sono essenzialmente orizzontali; quelle tra individui di età diversa sono essenzialmente verticali. È così che i bambini crescono obbedendo ai genitori, i giovani maturano rispettando gli anziani e i genitori e gli anziani amano nei bambini e nei giovani la propria immortalità; c’è una ricchezza accumulata che deve scorrere dall’alto in basso affinché la nuova generazione non ricominci da capo e l’eredità culturale non si disperda. In mancanza di questo scorrere non si resta nelle sabbie del primitivismo, ma si sprofonda in una palude di informazioni da cui germina soltanto il delirio della presunzione – per dirla con il prof. Bagnai: il sapere di sapere.
Il rapporto scolastico è un rapporto essenzialmente verticale: non soltanto il docente conosce bene ciò che il discente neanche sospetta, ma deve insistere sull’importanza di ciò che al discente non può che sembrare invecchiato e irrilevante; la scienza, e con essa la didattica, inizia infatti dal semplice, cioè dall’astratto, quindi da ciò che per la sua atemporalità sembra estraneo al presente, incolore rispetto agli scintillanti oggetti d’esperienza. Per il ragazzo lo smartphone è più interessante della sua inappariscente forma di prisma, per il bambino il bastoncino è più interessante del segmento; ma la scienza e la didattica non possono iniziare dal concreto: il concreto è particolare e permette di conseguire solo abilità parziali, non estensibili a situazioni sempre nuove; soltanto il semplice è universale, contiene cioè le leggi che valgono per infiniti casi, la cui acquisizione genera proprio quelle competenze che la didattica di regime invano opina di poter perseguire con il semplice rifiuto delle conoscenze[10].
Poiché occorre imporre temi e oggetti che all’inesperto sembrano necessariamente aridi e ininteressanti, poiché si impara con il proprio lavoro di memorizzazione e di esercitazione, non in ogni caso coercizione e punizione sono un pretesto con cui gli insegnanti scaricano le loro pulsioni sadiche sui discenti, ma sono una possibile implicazione della cosa stessa: sono strumenti didattici da usare con oculatezza come tutti gli altri. E nessuno ha mai preteso che generassero l’attitudine allo studio. Essa è la capacità di attenzione che nasce dalla curiosità naturale, dalla docilità a cui si è abituati dalla vita familiare, ma si nutre dell’autorevolezza dell’insegnante, dalla passione con cui coltiva la sua materia, dal grado in cui la padroneggia. Aver disprezzato la scienza degli insegnanti, aver preteso la loro trasformazione in tecnologi della didattica, di fatto in animatori, è stato il più grande delitto contro le condizioni soggettive della cultura dal dopoguerra, a cui oggi dobbiamo alunni che non solo ignorano l’esistenza del congiuntivo e del passato remoto, che non solo non sanno localizzare sulle carte geografiche l’Inghilterra, la Francia, la Russia, ma soprattutto non riescono a capacitarsi dell’importanza di queste conoscenze.
Marino Badiale, Università di Torino
Fausto Di Biase, Università di Chieti-Pescara
Paolo Di Remigio, Liceo Classico di Teramo
Lorella Pistocchi, Scuola Media di Villa Vomano
[1] Il documento è leggibile al seguente collegamento: https://www.roars.it/la-buona-scuola-e-quella-che-non-ha-bisogno-della-bocciatura/
[2] Massimo Bontempelli, Il Sessantotto. Un anno ancora da capire. CUEC, Cagliari 2008, p. 36.
[3] Questo obiettivo appare già nel mito del terzo libro della Politeia di Platone (414d – 415d): gli uomini sono fatti della stessa terra, ma gli dei mescolano a caso in quella di ciascuno polvere d’oro o d’argento o di bronzo e ferro: i governanti devono respingere i propri figli dalle classi superiori in quella dei produttori quando capiscano che sono impastati con polvere di bronzo e ferro, accogliervi i figli dei produttori che siano impastati con polvere d’oro.
[4] Gramsci lo avrebbe voluto negli ultimi anni di superiori, e soltanto in questi, per ridurre la frattura tra scuola superiore e università di allora: “Ecco dunque che nella scuola unitaria la fase ultima deve essere concepita e organata come la fase decisiva in cui si tende a creare i valori fondamentali dell’”umanesimo”, l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore specializzazione…” (A. Gramsci, Quaderni del carcere. Gli intellettuali, Editori Riuniti 1977, p. 132); in questa fase ultima, e soltanto in questa, il docente deve esercitare “solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell’Università.” (Ibidem, p. 133). E che gli estensori del documento abbiano pesantemente distorto il pensiero di Gramsci generalizzando indebitamente a tutte le fasi dell’istruzione un modello che egli pensava limitato all’ultima fase delle superiori, è provato dalle seguenti affermazioni: “La lingua latina e greca si imparava secondo grammatica, meccanicamente; ma c’è molta ingiustizia e improprietà nell’accusa di meccanicità e di aridità. Si ha a che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti, che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinari e metodici. Uno studioso di quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore di seguito, se da bambino non avesse coattivamente, per coercizione meccanica assunto le abitudini psicofisiche appropriate? Se si vuole selezionare dei grandi scienziati, occorre ancora incominciare da quel punto e occorre premere su tutta l’area scolastica per riuscire a far emergere quelle migliaia o centinaia o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno (se pure si può molto migliorare in questo campo, con l’aiuto dei sussidi scientifici adeguati, senza tornare ai metodi scolastici dei gesuiti).” (Ibidem, p. 140)
[5] Cfr. ibidem p. 146.
[6] Cfr. la dichiarazione del sen. Mario Monti ad Agorà estate del 28/07/2015: “Una famiglia, se investe nella casa, fa sicuramente una cosa bella. Spesso questo investimento è a scapito dell’investimento nell’educazione dei figli. Per creare una maggiore occupabilità nel mercato del lavoro delle giovani generazioni, l’investimento nell’educazione è quello più importante.” Si può ascoltare l’illuminante proposta dopo il minuto 50 del filmato al seguente indirizzo: http://www.imolaoggi.it/2015/07/30/monti-quando-ce-la-casa-di-proprieta-il-mercato-del-lavoro-e-meno-mobile/. Cfr. anche le importanti osservazioni sulla scuola francese, che ha conosciuto una riforma in tutto simile a quella della scuola italiana ma con dieci anni di anticipo, in Barba-Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2016, pp. 163-165. In particolare si considerino le parole del docente di scienze economiche e sociali citate a p. 165: “Un’offerta (di istruzione) privata diversificata e di buon livello è esplosa nel corso degli ultimi anni in risposta al degrado del servizio (scolastico) pubblico sempre più a corto di soldi e a una domanda sociale (di istruzione qualificata) sempre più forte, alimentata dalla volontà disperata dei genitori di riuscire a far entrare i loro figli nell’ascensore sociale o, almeno, di evitare loro la disoccupazione. L’insieme di queste nuove offerte (di istruzione privata) costituisce ormai un sistema, un arcipelago dalle ramificazioni infinite, di cui il denaro costituisce la chiave di accesso.”
[7] Mentre chi sopporti la fatica di leggere prima di citare troverà: “Il problema qui (nelle scuole superiori e nelle università) si presenta tutto diverso da quello della scuola dell’obbligo. Là ognuno ha un diritto profondo a essere fatto eguale. Qui invece si tratta solo di abilitazioni. Si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri. Per esempio per le patenti siate severi. Non vogliamo essere falciati per le strade. Lo stesso per il farmacista, per il medico, per l’ingegnere.” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, p. 111)
[8] Ibidem, p. 102.
[9] Sui disastri della didattica finlandese siamo ben informati dai preziosi articoli del compianto Giorgio Israel; ex multis: http://gisrael.blogspot.com/2011/05/il-bluff-della-matematica-finlandese.html.
[10] Il timore pedagogico dell’astratto ha creato disastri irreparabili perfino nelle scuole elementari: molti imputano al metodo globale di apprendimento della scrittura la maggior parte delle attuali dislessie. Cfr. per esempio https://www.orizzontescuola.it/dsa-lorigine-sarebbe-colpa-dal-metodo-insegnamento-nei-primi-anni-scuola/, oppure le testimonianze contenute in https://www.pensareoltre.org/index.php/it/approfondire/206-disturbi-pensareoltre-intorno-al-metodo-globale.
Per me è inaccettabile figurare tra i collaboratori di una rivista che da spazio a questo articolo, che trovo raccapricciante nei toni e nei contenuti. Chiedo alla Redazione di eliminare il mio nome dalla lista dei collaboratori.
Caro Giovanni,
non capisco bene la tua posizione. Da sempre ci riserviamo di esporre al pubblico opinioni anche non nostre (lettere, opinioni) e non neghiamo ad alcuno il diritto di replica.
Ripeto: è – a mio modo di vedere – un atteggiamento corretto, equilibrato e che non priva nessuno del diritto di esprimere le proprie opinioni in modo corretto ancorché pungente. Ergo, se posso permettermi
1. dovresti spiegare cosa intendi per “raccapricciante nei toni e nei contenuti” rivolgendoti agli autori della lettera.
2. se lo desideri il tuo profilo sarà “neutralizzato” nella lista degli autori, ma non rimosso, poiché fino a prova contraria hai scritto su roars.
Suggerisco un poco più di aplomb.
In amicizia
Antonio
Visto che sono stato io all’origine del documento degli studenti – che è una risposta a un mio articolo (https://www.roars.it/la-scuola-che-non-boccia-e-non-forma-e-una-buona-scuola/), anche se gli autori sembrano ignorarlo – mi sento in dovere di intervenire per esprimere alcune rapidissime considerazioni sui contenuti e sul metodo. Per quanto riguarda il secondo aspetto, io avrei evitato l’ironia inutile sugli errori o sulla lingua di chi si vuole criticare, perché è sempre bene andare agli argomenti piuttosto che puntare sul facile effetto del ridicolo: a tutti capita di commettere degli errori, specie quando si scrive un post o su internet e non in pubblicazioni scientifiche, dove si rilegge più e più volte quanto si è scritto. Quindi questo è senz’altro un errore che dispone male, già in partenza, il lettore, così come è successo a me. Andando invece al contenuto, non posso che essere d’accordo con quanto sostenuto, che in sostanza coincide con quanto da me detto nell’articolo prima citato e in altri via via pubblicati; certo ci possono essere sfumature diverse, punti di vista discordanti, ma sulla sostanza delle argomentazioni mi trovo perfettamente d’accordo. Quindi se Figà -Talamanga ritiene «inaccettabile figurare tra i collaboratori di una rivista che da spazio a questo articolo», allora avrà trovato un altro argomento di inaccettabilità: uno dei suoi redattori è in gran parte d’accordo nel merito con l’articolo da lui ritenuto raccapricciante «nei toni e nei contenuti». Perché lo sia, non ci è dato saperlo; per i toni, posso capirlo, ma per i contenuti non ci riesco proprio, visto che non ci viene spiegato; e in ogni caso non penso che siamo in regime teocratico per cui debba esistere solo una opinione (o un range di opinioni) che debba ritenersi “accettabile” al punto da escludere dalla pubblicazione e quindi dalla conoscenza e dal dibattito le opinioni su cui parte o anche tutta la redazione può non essere d’accordo. Questo è un semplice esercizio di pluralismo e tolleranza. Null’altro.
Infatti scopro solo ora che Roars accetta di pubblicare contributi come questo, espressione di un quadro ideologico e valoriale che non solo non mi appartiene ma dal quale tengo a dissociarmi pubbicamente: quando ho pubblicato con voi non ero (o non mi rendevo conto di essere) in tale compagnia. Non mi pare proprio sia un caso di “diritto di replica”, ma di certo pubblicare questa “lettera” resta una scelta redazionale legittima, che non sta a me mettere in discussione: è giusto che scegliate voi a chi dare spazio per esprimere le sue opinioni e con quali modalità e risalto, e nulla di male se sceglierete che Roars diventi un luogo dove chiunque può dire la sua. Semplicemente: non desidero che il mio nome sia associato, come autore, ad una rivista che fa una scelta come questa.
Grazie GFT
Concordo con Coniglione: non è una teocrazia. Ognuno è libero di scegliere. Questa la mia scelta. Non contesto il diritto della redazione di pubblicare quel che crede, ma scelgo di uscire. Ci tengo a precisare che consideravo accettabile la convivenza con l’articolo di Coniglione “la scuola che non boccia etc”, pur dissentendone. Ma non sono disposto a convivere con il testo di Badiale, Di Biase, Di Remgio e Pistocchi. Grazie GFT
Sarebbe stato molto più utile spiegare nel merito il proprio dissenso, magari scrivendo un articolo di risposta. Il dibattito ne sarebbe uscito arricchito e la Redazione di Roars sarebbe stata ben felice di pubblicarlo. Invece, la semplice decisione di secedere manifesta un atteggiamento di autarchia cognitiva e di sostanziale indifferenza per gli altri, o al limite di pigrizia intellettuale. Atteggiamenti simili sono a mio avviso alla base delle tante incomprensioni che flagellano il nostro tempo e che creano segmenti reciprocamente incomunicanti, ciascuno di essi soddisfatto di se stesso, laddove invece io penso che sia sempre utile essere a conoscenza di opinioni diverse. Il confronto intellettuale è l’unico modo per evitare il confronto fisico, o almeno per cercare di scongiurarlo.
Bon, comme tu veux. Personalmente se dovessi pensare che ogni cosa che scrivo è un “convivere con…” credo sarei già scappato molto lontano.
L’articolo di Francesco Coniglione e la lettera qui pubblicata contengono un gran numero di idee di semplice buon senso. Hanno lo svantaggio di andare nettamente contro al “main stream” : la corrente di pensiero, inaugurata nel ’68, che ha distrutto la scuola italiana. Dove studiare non è un obbligo, e l’ascensore sociale non può esistere. E rimango basito per l’indignazione di taluni per delle idee di semplice buon senso. Forse è il prezzo che si deve pagare per cantare fuori dal coro.
Come insegnante dei Licei (per 17 anni), come docente di Filosofia teoretica a Unict, come cittadino e -infine- come collaboratore di Roars, sono onorato di far parte di una comunità di studiosi che pubblica un documento come quello di Badiale, Di Biase, Di Remigio e Pistocchi, le cui tesi descrivono l’esistente, la sua genealogia e i suoi obiettivi contrari a ogni emancipazione. Perché una scuola che insegna libera, una scuola che fa finta di insegnare lascia ciascuno nella sua condizione di partenza e il corpo sociale nella sua situazione di diseguaglianza.
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“Purtroppo la scuola attuale non solo non è autoritaria, ma è proprio senza autorità – ….Essi trascurano che l’interesse fondamentale di chi impara è avere un maestro autorevole da cui assorbire perfino le pause e le esitazioni. ”
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Usare come sinonimi autorità, come diritto più o meno legittimo di esercitare un potere, e autorevolezza, come credito o fiducia nei confronti di qualcuno di cui si ha stima per un qualche motivo, rende estremamente puerile un concetto di per se già zoppo.
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“Autorità’ è la forza immateriale acquisita da chi ha imparato, da chi, cioè, ha oltrepassato le sue opinioni e si è innalzato alla scienza delle leggi delle cose, così da disporre di pensieri oggettivi, argomentati.”
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Si tratta semplicemente di una supercazzola nello stile di un mediocre conte Mascetti.
Già si vedono i quattro Autori che durante una indianata hanno oltrepassato le opinioni e si sono innalzati nel nirvana della scienza delle leggi delle cose (ancora pensano alla mela di Newton come realtà oggettiva) ed in questo modo si armano NIENTEPOPODIMENOCHE di UDITE UDITE UDITE:
||pensieri oggettivi||
avete letto bene sì (sigh!), stile “convergenze parallele”.
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“d’altra parte l’uguaglianza è contrastata non solo e non tanto dal merito, ossia da ciò che si consegue mediante il proprio lavoro, ma anche, e in modo più profondo, dalla casualità naturale, per cui si nasce belli o meno belli, forti o meno forti, in questa o in quella famiglia ecc. ”
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E che vogliamo fare, sei nato sfortunato! E la scuola mica può pararti il didietro ogni volta su, dai.
È la Natura che è matrigna!!!
Mica possiamo lavorare certosinamente e quotidianamente per contrastare le disuguaglianze che la Natura predispone.
Meglio assecondare la volontà superiore…
Ma la meritocrazia cambierà TUTTO!!!
Con la meritocrazia agognata dai quattro dell’Apocalisse, anche i brutti saranno belli e i poveri ricchi!!!
Certo! La meritocrazia porterà Amore e Fratellanza, Conoscenza e Giustizia NATURALE ed ognuno occuperà il proprio posto in questo Ordine Universale mirabile…
Solo con ciò che si consegue mediante il PROPRIO lavoro si può addivenire ad una società giusta.
Di ciò non mancano già ora eclatanti esempi in diversi campi della nostra società:
-nel privato, dove la meritocrazia è reale da anni, non esistono soprusi, né truffe né imbrogli ai danni di nessuno, perché lì si educano le persone secondo principi intrinsecamente meritocratici all’amore ed alla giustizia sociale;
-nel pubblico, dove la meritocrazia inizia a realizzarsi, si vedono già i primi benefici di questa manna dal cielo neoliberista. Nelle università dove ORA la quasi totalità degli studenti iscritti appartiene esclusivamente ai ceti più ricchi; dove una buona fetta delle pubblicazioni scientifiche sono gonfiate se non completamente false per fare carriera; dove il diritto allo studio è finalmente riservato a chi MERITA, cioè ha i soldi, esattamente come avviene in Inghilterra (con buona pace di chi viene citato da TUTTI a sproposito). Nella scuola dove solo chi merita può avere la mensa pagata, chi non MERITA per ora tonno e cracker (troppa grazia: proporremo 5 frustate, tonno e cracker).
Potete aggiungere voi altri esempi con l’hashtag #iomelomerito
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“È così che i bambini crescono obbedendo ai genitori, i giovani maturano rispettando gli anziani e i genitori e gli anziani amano nei bambini e nei giovani la propria immortalità;”
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ALT!!! FERMI tutti!!!
MA va messo qui lo spot della famiglia del famoso mulino???
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“c’è una ricchezza accumulata che deve scorrere dall’alto in basso affinché la nuova generazione… ”
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Se stiamo parlando di soldi, si tratta ESATTAMENTE del potente mantra neoliberista Trickle-down economics. Fallimentare.
Quindi chi è vecchio e autoritario (in senso buono ovviamente) trasmette la sua ricchezza a chi è giovane e sfigato, che la accoglie come l’ostia consacrata ed acquisisce così l’eredità culturale; questo è il principio.
Neanche nelle sette di Sai Baba…
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“coercizione e punizione sono ….una possibile implicazione della cosa stessa: sono strumenti didattici da usare con oculatezza…
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SIIIIIII, hurt me plenty!!!
Di imbecilli che non sanno il congiuntivo ne sono piene le fosse così come di mancati geografi, magari per colpa di insegnanti autoritari con la bacchetta pronta e facile.
Ridurre le cause della supposta ignoranza dilagante, ancora tutta da dimostrare visto che i vari PISA, Invalsi etc. sono del tutto inaffidabili scientificamente parlando, alla scomparsa del mitico maestro autoritario è una vaccata ideologica senza alcun argomento filosofico, logico o storico valido.
Il fatto che gli insegnanti somiglino più a semplici tecnologi della didattica, spesso farneticanti ideologi neoliberisti senza neanche sapere di esserlo (ma convinti di aver avuto una grande idea da soli), piuttosto che algidi superiori per censo o razza o potere, non ne fa dei grandi docenti ma non li rende peggiori dei secondi.
Invece di piagnucolare su come era bello il passato quando i treni erano puntuali, sarebbe proficuo chiedersi quale processo culturale produce la nuova figura docente e se questa non sia in sostanza il risultato della trasformazione della nostra società nella sua interezza; come tale il problema dovrebbe essere affrontato in modo estremamente più serio (magari scientifico??) dal punto di vista concettuale, considerando che questa trasformazione ha interessato non solo tutti gli aspetti della società (quindi anche la scuola) ma tutti gli aspetti della vita di ogni singolo individuo; è così totale e pervasiva che NESSUNO ad oggi si può definire immune da essa, avendo tutti lo stesso orizzonte dentro di noi e davanti i nostri occhi: the Amazon skyline.
Se agli autori piace battibeccare sull’utilità o meno della bocciatura con chi, pur riportando un dato del 16% di bocciati in Italia ribadisce che la scuola non funziona perché si boccia troppo, facciano pure, ma sarebbe più fruttuoso a mio avviso per i docenti (quelli autoritari ma con velleità di autorevolezza) riuscire a guardare oltre il proprio naso, giusto per non fare la fine della controparte, piuttosto incline a concedersi mani e piedi a OCSE e confindustria (atteggiamento storicamente tanto caro alla sinistra italiota).
Può piacere o meno, ma le battaglie per una scuola che sproni i ragazzi a sviluppare il pensiero critico, per non farli finire nel tritacarne globale, non passa certo per l’autorità del maestro.
Cordialmente
L’inconsueta aggressività -almeno per le pagine di Roars- di alcune reazioni al documento dei colleghi conferma che qui si è toccata una questione decisiva.
Bisogna ringraziarli anche per questo.
Rispondiamo al commento di Coniglione.
È ovvio, a chi abbia seguito il dibattito su roars, a chi cioè abbia letto entrambi i testi, che il nostro intervento si colloca sulla scia del suo. Proprio questa “ovvietà” ci ha fatto cadere nella scortesia di non citare il suo intervento, e ce ne scusiamo. Può essere interessante mettere in evidenza le differenze fra l’intervento di Coniglione e il nostro.
In primo luogo noi vogliamo uscire dall’opposizione Giovanni Gentile vs. Luigi Berlinguer, perché essa circoscrive due modelli di scuola di casta: la scuola gentiliana ritagliò entro la scuola pubblica un settore chiuso per le élite, la scuola di Berlinguer riduce l’intera istruzione pubblica a un asilo per i poveri con l’intento di suscitare nelle élite la domanda solvibile di istruzione privata – secondo il modello anglosassone già stigmatizzato da don Milani. Il nostro rifiuto del termine “bocciatura” è legato a queste considerazioni, e all’uso cinico che ne venne fatto nella scuola gentiliana.
Inoltre Coniglione scrive come se la catastrofe della scuola sia un pericolo futuro, non il suo presente, e così assolve di fatto le riforme scolastiche da Berlinguer in poi; noi invece la rileviamo ovunque nella nostra esperienza; ne abbiamo cercato la ragione, l’abbiamo indicata nel programma di distruzione del ‘Welfare State’ portato avanti apertamente dalle élite neoliberali, e l’abbiamo documentata con le parole di un esponente di rilievo del neoliberalismo quale il sen. Monti. Per noi è un’esperienza penosa che la scuola abbia tradito a tal punto il suo compito che gli studenti non sappiano organizzare la loro espressione e mentre agitano la bandiera rivoluzionaria distorcano Gramsci e non si accorgano di aderire al programma del sen. Monti. Il nostro tono non è quello del cattivo educatore che fa ironia sugli “errori” degli studenti, ma nasce dal dolore per l’istituzione perduta. Tuttavia chi scrive ha sempre una parte di responsabilità se viene frainteso il proprio registro espressivo e se chi legge vede ironia dove non doveva essercene. Ci scusiamo per la nostra parte di responsabilità in questo fraintendimento.
La crisi della teoria e della pratica della razionalità dialogica – una delle conquiste della civiltà occidentale – si manifesta nel degrado del dibattito pubblico in Italia, negli ambiti più diversi e nei luoghi dove meno ci si aspetterebbe di trovarla. La distruzione della scuola pubblica nel nostro paese ovviamente è una delle cause principali di quella crisi e di questo degrado.
firmato da:
Marino BADIALE, Fausto DI BIASE, Paolo DI REMIGIO, Lorella PISTOCCHI
Non ho pensato a una scortesia, ma semplicemente alla solita distrazione che spesso si ha quando si scrive su FB. E comunque ci sono abituato.
Per quanto riguarda invece il merito delle questioni, mi limito ad osservare che nell’articolo cui rispondono gli studenti col loro documento non faccio alcun cenno né a Giovanni Gentile, né a Luigi Berlinguer né tanto meno alla loro contrapposizione. Forse lo avrò fatto in qualche altro articolo – forse questo: https://www.roars.it/cera-una-volta-lidea-di-una-scuola/ – e i colleghi hanno il ricordo di questo, ma non certo nell’articolo in oggetto.
E lo stesso per il secondo punto – che io descriverei la catastrofe della scuola come un pericolo futuro: non parlo di catastrofe, né di pericolo futuro, quindi vale quanto detto prima. Anzi parlo al presente: «Purtroppo oggi non si guarda più… Ormai in una scuola in cui gli studenti sono “clienti”», ecc.
In conclusione sono d’accordo con i due punti messi in luce dagli autori, anche se in merito al primo nell’articolo prima citato ho sostenuto che, nonostante la riforma Gentile avesse avuto quelle caratteristiche elitarie indicate dagli autori (in particolare il Liceo classico – ma anche in questo caso non ho contrapposto Gentile a Berlinguer), tuttavia v’è stato nel dopoguerra un momento in cui la scuola pubblica sembrava poter veramente funzionare da ascensore sociale e ho ipotizzato che la sua distruzione è iniziata quando ci si è accorti appunto di questo: «Ma i ceti privilegiati e abbienti, che sino a quel momento avevano tenuto le redini del potere e avevano potuto trasmettere alla propria prole il privilegio acquisito, senza eccessiva concorrenza, si sono accorti del pericolo che stavano correndo e hanno preso le contromisure……» ecc. Per cui, come si vede non mi pare che ci siano le differenze indicate. Ce ne sono altre, forse, nel senso che su alcune cose potrei avere delle sfumature diverse; ma queste sono del tutto secondarie rispetto invece ai punti di consenso.