C’era una volta l’idea di una scuola pubblica, universalista, gratuita, rivolta a tutti i ceti sociali, nelle cui classi potevano sedere nello stesso banco il figlio dell’avvocato e quello dell’operaio o del contadino. Si voleva con essa dare corpo al grande sogno illuministico: l’elevazione dell’umanità e il riscatto delle classi sociali più svantaggiate attraverso la cultura, la possibilità di un loro progresso con lo studio, l’opportunità di sfuggire al destino segnato dalla nascita grazie alla dura fatica e all’impegno dello studio. E se di fatto percentualmente erano ancora pochi i figli delle classi subalterne che accedevano alle scuole più prestigiose (come i licei), non era perché queste erano loro precluse da qualche barriera formale, ma per le condizioni sociali e culturali di provenienza.
Sembrava che verso questa idea di scuola ci si stesse avviando con quella ereditata nel dopoguerra; essa aveva sì i suoi percorsi di eccellenza – disegnati nel recente passato dittatoriale, ma da un illuminato filosofo – incarnati nei licei (scientifico e specialmente classico, l’unico che fino al 1968 permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitarie), ma essi si erano via via aperti a tutte le classi sociali, a seguito del generale rivolgimento della società italiana, del miglioramento delle condizioni economiche della gente sino allora emarginata e subalterna e del convincimento, ancora diffuso e politicamente praticato, che una buona istruzione di massa potesse essere di giovamento per il paese: l’obbligo scolastico viene così progressivamente esteso negli anni, sino ad arrivare alla scuola media unificata nel 1963 (con le sue luci ed ombre). Nei licei – si diceva – viene preparata la classe dirigente; ma questa classe dirigente ora poteva venire da ceti sociali che prima ne erano rigorosamente esclusi: negli anni ’60 e ’70 pareva proprio che tale idea di scuola potesse diventare uno straordinario veicolo di mobilità sociale. Avvocato poteva ora diventare il figlio del bottegaio, o dell’ambulante; medico chirurgo il figlio del pescivendolo, o del commesso.
Le famiglie lo avevano capito: sapevano che a scuola si poteva decidere il destino dei loro figli e ci tenevano a mandarli nelle scuole migliori. Si ambiva addirittura a fare loro frequentare il liceo classico (o almeno lo scientifico), solo che avessero dimostrato di avere qualità e voglia di studiare. Che sono equamente divise, per fortuna, e non solo appannaggio dei ceti abbienti. E così, con grande rispetto e deferenza verso una cultura che ritenevano una conquista e un prezioso bene, cercavano di mandare i loro figli nelle migliori scuole, si assicuravano che venissero iscritti nelle sezioni più di qualità, si informavano dove fossero i docenti più bravi: non quelli più lassisti o dalla sufficienza facile, non le sezioni dove si promuoveva più facilmente, non le scuole dove si studiasse meno. E così questi “figli del popolo” potevano competere con quelli degli avvocati e dei professionisti, dei benestanti e dei redditieri che, pur partendo da condizioni economiche e culturali di vantaggio, non potevano essere più sicuri di aver riservati solo per i loro pargoli i posti migliori: ormai dovevano sgomitare per affermarsi, in concorrenza col figlio del pizzicagnolo. Sembrava che fosse sul punto di attuarsi l’ideale illuminista e della “società aperta”: una scuola che selezionava in base al merito su una platea vasta di discenti e così forniva una più vasta coorte dalla quale sarebbe naturalmente derivata una classe dirigente migliore e più qualificata.
Ma i ceti privilegiati e abbienti, che sino a quel momento avevano tenuto le redini del potere e avevano potuto trasmettere alla propria prole il privilegio acquisito, senza eccessiva concorrenza, si sono accorti del pericolo che stavano correndo e hanno preso le contromisure. Ovviamente non si poteva dire che si voleva ridurre il diritto all’istruzione, ma che si volevano assicurare i vantaggi delle private anche a chi non se le poteva permettere; e non si potevano chiudere le scuole e i licei: bastava riformarli, seppellendoli progressivamente in sempre nuove incombenze burocratiche e amministrative; bastava “migliorare la loro offerta formativa”, distraendoli dalla loro missione educativa di base, mediante una miriade di “progetti”, PON, POR e iniziative collaterali; era sufficiente demotivarne il ceto insegnante e formarlo sempre peggio attraverso curricula universitari via via più scadenti, affidati ai crediti e a massicce dosi di didattica in assenza di contenuti disciplinari; era indispensabile mettere in secondo piano il fine educativo e la funzione pedagogica per trasformarle in “aziende” in cui il vecchio Preside è trasformato in “dirigente scolastico”, comprandone con un cospicuo aumento stipendiale la complicità e il consenso. Era anche necessario eliminare i percorsi di eccellenza col fare rientrare i licei in un’unica istituzione polivalente dove quelli che prima erano i classici, con una propria identità e specificità anche ambientale, venivano progressivamente ridotti a percorsi o curricula, spesso depotenziati e imbastarditi nel tentativo di “modernizzarli” un po’ a caso, per renderli meglio “appetibili” ai possibili “clienti”. Così, infine – come ha già sinteticamente ed efficacemente sottolineato lo storico Alessandro Barbero, in un articolo pubblicato su ROARS– «quando han cominciato ad andarci anche i figli degli operai si è cominciato a dire “ma appunto, in fondo in fondo siamo sicuri che tutto questo serve?” […] E si è arrivati adesso all’assurdità che si è tornati a dire ai ragazzi, come ai loro nonni analfabeti: “anche se avete soltanto sedici o diciassette anni o diciott’anni, però, un po’ di lavoro lo dovete fare. Che è questo lusso di passare quegli anni solo a studiare a scuola? No, no: alternanza scuola lavoro!”».
Sì è in tal modo avviato quel processo che in altri paesi, presi in Italia a modello, è già andato assai avanti: scuole pubbliche sempre più impoverite e prive di prestigio, frequentate solo da chi non si può permettere le ricche rette di istituzioni private, le quali ultime diventano via via il salotto pregiato della nuova e vecchia borghesia ricca, che non vuol vedere i propri rampolli mischiarsi a ceti popolari involgariti e ormai aventi in non cale, o addirittura disprezzano, cultura ed istruzione. In queste nuove, linde, eleganti scuole private si studiano tre lingue (o anche quattro!), si godono insegnanti educati e compiacenti, ci si assicura comunque una promozione perché si è “clienti”, e senza il pericolo di imbattersi in qualche docente riottoso o eterodosso dalle strane e sovversive idee; alla fine si può accedere in qualche prestigiosa università, anche essa privata e magari estera o in lingua inglese, che così completerà l’hortus conclusus di classi sociali benestanti e benpensanti che si autoriproducono in regime di imbreeding.
Il sogno illuministico e laico di una scuola concepita come ascensore sociale, come riscatto dei ceti popolari, come premiazione del merito indipendentemente dalla professione o dalla provenienza sociale dei genitori, si sta così estinguendo senza che nessuno ne abbia dichiarato esplicitamente l’obsolescenza o ne abbia firmato il certificato di morte. Paradossalmente – ma non a caso – ciò accade in un susseguirsi di riforme, regolamenti, programmazioni, valutazioni Anvur e Invalsi, tutte misure implementate allo scopo di migliorare la didattica, la qualità, la professionalizzazione, la “soddisfazione dei clienti” e così via. Perché si può ammazzare anche per troppe cure, per intossicazione farmacologica, esibendo le migliori intenzioni. E così la scuola italiana (e l’università, che l’ha seguita in questa terapia d’urto cominciata con il proto-riformatore Berlinguer e poi proseguita con la Gelmini e i corollari conseguenti) sta progressivamente allontanandosi da quell’idea che sembrava averne governato per una lunga fase l’evoluzione e via via scivolando sempre più verso il basso in un’orgia di riforme e di interventi tutti volti a migliorarne la qualità.
Vero, verissimo, purtroppo.
Lo stesso vale per le Università. Famiglie ingannate che fanno esodare i figli in sedicenti sedi prestigiose. E’ finita l’Università diffusa sul territorio.
Certo che i governi che ci siamo scelti negli ultimi vent’anni hanno accelerato il processo, in parallelo con l’allargamento della forbice sociale…. e il governo attuale con la flat tax e le strane idee della lega sulla scuola rischia di dare il colpo di grazia.
[…] via C’era una volta l’idea di una scuola… — ROARS […]
Quello espresso nell’articolo è un punto di vista. In parte lo condivido e in parte no. Opinione per opinione, non credo che la “Spectre” della reazione della nuova e vecchia borghesia ricca sia in grado di far tutto. Penso che un concorrere verso la situazione attuale di diverse dinamiche, anche in contraddizione tra loro, sia più rispondente alla realtà dei fatti.
Ma c’è un punto su cui, leggendo questo articolo, mi pongo una domanda: nell’ università siamo tutti innocenti vittime dei “cattivi” di turno (che si chiamino Moratti, Gelmini, Carrozza, Profumo, Fedeli o Bussetti o che siano incarnati nell’anvur) ?
Dove sono le proteste per la folle ed inutile burocrazia anvur? Quanti corsi di studio hanno affrontato costruttivamente le modifiche strutturali degli studi universitari, salvo lamentarsi della “decadenza” dovuta al 3+2 (strano che la stessa decadenza la lamentano le lauree magistrali a ciclo unico…)?
Io credo che dopo anni di denunce occorrerebbe trovare la forza per mettere in piedi un movimento per la ricostruzione organizzato attorno a proposte positive e non di restaurazione del bel tempo antico che poi tanto bello non e’ mai stato (neanche nei mitici anni ’70).
“Dove sono le proteste per la folle ed inutile burocrazia anvur?”
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qui:
https://www.roars.it/la-vera-primavera-delluniversita-inizia-con-le-dimissioni-del-direttivo-anvur/
https://www.roars.it/tag/ora-basta/
https://www.roars.it/tag/stopvqr/ (sono circa 100 post)
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“occorrerebbe trovare la forza per mettere in piedi un movimento per la ricostruzione organizzato attorno a proposte positive”
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Già fatto. Cito Salmeri e Semplici, per esempio:
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-Si deve tornare – e proprio con l’obiettivo di non consentire la sopravvivenza di Corsi di studio privi dei presupposti indispensabili – ad una indicazione semplice e chiara dei requisiti necessari di docenza e numerosità degli studenti. Per quanto riguarda in particolare i primi e la sostenibilità della didattica, non sono necessari complicati algoritmi e sarebbe molto più efficace limitarsi ad aggiungere a quella del numero totale dei docenti richiesti una inaggirabile indicazione della percentuale minima di copertura con docenti di ruolo degli insegnamenti di base e caratterizzanti per ogni corso di studio e una ugualmente inaggirabile indicazione del numero minimo e massimo di ore di didattica frontale obbligatorie per ogni professore universitario, quali che siano i suoi meriti sul piano della produzione scientifica. Ad ogni Ateneo spetterebbe ovviamente la responsabilità di assicurare il reale rispetto dei doveri minimi, prevedendo sanzioni quando necessario.
-I Requisiti di Assicurazione della Qualità, cosi come definiti nell’Allegato C al Decreto AVA, obbligano ad un inaccettabile sacrificio di tempo e di serenità per la redazione di documenti in cui si parla perlopiù di riunioni immaginarie con discussioni immaginarie su argomenti immaginari. La loro pura e semplice eliminazione, contestuale a quella dei Presidi di Qualità (basta e avanza il Nucleo di Valutazione) non sarà rimpianta da nessuno. Vale anche la pena di sottolineare che il Decreto Ministeriale 22 settembre 2010, n. 17, richiamato nel Documento su Autovalutazione, Valutazione e Accreditamento del Sistema universitario italiano approvato dal Direttivo dell’ANVUR il 9 gennaio 2013 come il riferimento normativo che richiede l’attività di un Presidio di Qualità, indica all’art. 4 proprio i Nuclei di Valutazione come gli organismi responsabili della verifica della sussistenza dei livelli di qualità, inserendo solo nell’Allegato A l’indicazione di un presidio d’Ateneo riconosciuto dall’ANVUR.
-La scheda SUA ha mostrato la sua inadeguatezza. Essa deve essere sostituita da un semplicissimo modulo in cui poter inserire le informazioni fondamentali riguardanti il corso di studio. Le sue dimensioni devono essere ridotte di almeno i 2/3 rispetto a quelle attuali. Ogni Dipartimento o Consiglio di corso di studio deve essere tenuto ad approvare il proprio piano di studio, insieme con una breve esposizione discorsiva dei criteri che lo ispirano, degli sbocchi professionali, dei programmi delle discipline e di tutte le indicazioni utili per gli studenti. Ogni volta che il piano di studio viene modificato deve essere assicurato il diritto a proseguire con l’ordinamento con cui si è iniziato il corso ed eventuali norme di transizione devono essere chiaramente formulate: in questo modo si sopprimono tutti i bizantinismi sulle «coorti» e sulla «didattica erogata» e «programmata». Va soppresso, in quanto mostratosi fallimentare e controproducente, l’obbligo di specificare gli sbocchi professionali tramite i codici ISTAT e di indicare le finalità dei corsi di laurea (o tanto peggio dei singoli insegnamenti) facendo ricorso ai «descrittori di Dublino». Ogni corso di laurea deve assicurare la pubblicizzazione di tutte le indicazioni utili per l’anno accademico successivo entro tempi che consentano ai futuri studenti una scelta informata. L’Ateneo deve vigilare sul rispetto di tale obbligo e il Ministero conserva gli usuali poteri di controllo e vigilanza.
-La scheda di riesame deve essere considerata “assorbita” nella relazione annuale sullo stato del corso di studio, preparata dalla Commissione paritetica.
-Deve essere dato immediato seguito alla richiesta avanzata nella mozione approvata dal CUN il 9 aprile, risolvendo una volta per tutte il problema del coordinamento delle banche dati RAD e SUA-CdS e garantendo la possibilità di modificare gli ordinamenti didattici secondo tempi e modalità ragionevoli.
L’elenco è ovviamente aperto. Si tratta però di chiedere al Governo, con tutta la forza necessaria, di cambiare finalmente rotta. Non è sufficiente – come ha fatto il Ministro Giannini qualche settimana fa rispondendo a chi gli domandava come intervenire contro la burocrazia nelle università – dire che ci vorrebbe il machete. La verità, purtroppo, è che molto si è parlato e scritto e sono anche state costituite commissioni ad hoc con autorevoli componenti di Crui e Cun, ma nulla è accaduto. Non è dato neppure sapere se il lavoro di quelle commissioni sia mai stato letto o considerato nelle sedi competenti. Anche per questo sarebbe bello se Rettori e Cun trovassero finalmente il coraggio e, arrivati a questo punto, la dignità per annunciare che l’Università si fermerà se non sarà fermata questa opera di devastazione. Forse hanno bisogno di una spinta dal basso, perché da soli non ce la fanno. Cerchiamo allora di aiutarli, perché davvero ORA BASTA!
https://www.roars.it/al-governo-e-allanvur-ora-basta/
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Ma non solo:
https://www.roars.it/analisi-e-proposte-cun-su-dipartimenti-di-eccellenza-tasse-universitarie-e-quota-premiale/
https://www.roars.it/proposte-per-la-prossima-vqr/
https://www.roars.it/sulla-revisione-dellasn-alcune-proposte/
https://www.roars.it/semplificare-ava-le-proposte-del-cun/
https://www.roars.it/proposte-del-cun-per-la-revisione-dellasn/
https://www.roars.it/non-ce-piu-tempo-10-proposte-per-il-diritto-allo-studio/
https://www.roars.it/universita-e-ricerca-prime-proposte-roars-per-una-discussione/
https://www.roars.it/proposte-per-la-riforma-universitaria/
https://www.roars.it/sette-proposte-per-la-vqr/
https://www.roars.it/caro-profumo-ecco-dieci-proposte-per-l%e2%80%99universita/
e poi, diciamocelo, questa accusa di desiderare la restaurazione del bel tempo antico è veramente inascoltabile. Soprattutto alla luce di innumerevoli articoli (non solo nostri) di analisi puntuale e circostanziata che hanno denunciato ogni sorta di paradosso e di “folle e inutile burocrazia anvur”. Ma anche di innumerevoli articoli (non solo nostri) con proposte positive relative ad ogni possibile aspetto della vita universitaria, dal diritto allo studio e il finanziamento fino a valutazione della ricerca, accreditamento e reclutamento. Fare finta che siamo all’anno zero e che fino ad ora ci si è limitati a rimpiangere la restaurazione del bel tempo antico significa essersi svegliati ora da un letargo di almeno otto anni. Nulla di male se qualcuno ha dormito, ma abbia la cortesia di mettersi in pari con quello che è stato scritto e detto prima di sparare nel mucchio.
Caro De Nicolao, il mio era un commento ad un articolo a firma Coniglione e pertanto pensavo fosse lui a prendersi la responsabilità di quanto ha scritto, eventualmente reagendo a quanto ho scritto io, se si sentisse messo sotto accusa. Capisco che sia membro della redazione ROARS, nonche’ cofondatore. Ma trovo un po’ esagerata questa difesa d’ufficio di ROARS che non mi sembra di aver accusato di nulla.
Se ci si rilegge l’articolo, di tutte le proposte avanzate da ROARS (volendo limitarci a queste, ma il mondo della protesta e delle proposte alternative al main-stream dominante non si esaurisce con ROARS) e che conosco benissimo, non vedo traccia. Se mi è sfuggito qualcosa accetto con piacere l’ indicazione di quale punto ho omesso di leggere con attenzione. Mi sembrava che larticolo fosse di denuncia di come siano stati modificati certi meccanismi. E su questo, io penso di aver letto un discorso che in parte condivido (la neutralizzazione dell’ascensore sociale) e in parte no. La parte che non condivido è legata al limitare le responsabilit`del processo identificato al solo ambito esterno all’ università, vista unicamente come vittima che subisce. Questo è molto lontano dalla mia esperienza personale. Accanto a persone che hanno ancora l’ idea di un servizio di formazione aperto, che deve funzionare prima di tutto nel formare giovani e competenze utili al Paese, vedo anche tanti colleghi che si sono prontamente adeguati al nuovo corso e sguazzano nella burocrazia anvur, trovando imbarazzante anche solo aderire ad una mozione di dipartimento contro lo scempio che ci circonda. E trovo anche allarmante che l’ unico movimento di protesta che e’ riuscito a creare una mobilitazione quantitativamente significativa (sempre che non venga vista come un’accusa a ROARS) ci sia riuscito solo sulla questione recupero degli scatti stipendiali mancati e con modalità di protesta estremamente soft (non dimentichiamo che la protesta no-VQR non è riuscita a sfondare).
Per me questi sono dati di fatto e non credo di vivere nel peggiore ateneo italiano. Di sicuro il tempo per dormire non lo ho da un pezzo.
@Pastore: Condivido. Molte volte ho sottolineato come nel complesso NOI Universitari siamo stati nello stesso tempo complici ed artefici della deriva anvuriano-burocratica che ci perseguita. Regolarmente mi prendo le risposte piccate e puntuali di DeNicolao che cerca di dimostrarmi il contrario. So bene che lui è incolpevole, ROARS è incolpevole, alcuni sono incolpevoli, ma quello che cerco di dire, sostenuto da dati di fatto, è che il sistema in cui viviamo e che alla fine si identifica con tutti NOI, non solo è colpevole, ma correo. In questi giorni, in virtù di una decisione del mio Senato (immagino che la stessa cosa capiti in ogni università) è stata avviata la procedura di certificazione da parte del Rettore dei requisiti di chi vuol fare il Commissario ASN. Su istanza di ciascuno, il Rettore certificherà l’avvenuto rispetto delle soglie ed il possesso di alcuni requisiti del tipo essere nel comitato editoriale di una rivista. Burocrazia inutile. Ma l’aspetto burocratico è il meno di fronte alla banale considerazione che al posto dei requisiti richiesti ciascuno di noi potrebbe aver fatto altre mille cose altrettanto qualificanti e prestigiose. Il sistema però (cioè NOI) esige che tu abbia fatto obbligatoriamente quelle cose lì. Perlomeno il Fascismo ti richiedeva ‘solo’ una preliminare adesione al regime, poi ti lasciava libero di lavorare come credevi. Questi (cioè NOI) ti dicono anche cosa devi fare quando lavori. La cosa è palesemente anticostituzionale e vuole determinare chiaramente una pulizia etnica del corpo docente. Scommetto che nessun consesso proverà ad opporsi, anche timidamente. Se così sarà vorrà dire che ogni consesso condivide quello che si richiede. E’ vero, l’unica protesta è stata quella per gli scatti ed era basata sul fatto che la VQR è talmente importante che io la sospendo finchè non mi dai gli scatti. Diciamo che alcuni erano disposti ad accettare tutto in cambio di soldi e la stragrande maggioranza invece lo ha fatto gratis, forse perchè lo condivideva.
Ciò che molti (tutti in fondo) avranno visto, sentito, vissuto, negli ultimi lustri, era l’adesione giorno per giorno, minuto per minuto, alle imposizioni ministerial-burocratiche-anvuresche. Le piccole follie e idiozie quotidiane, a piccole dosi all’inizio, che non dovevano allarmare più di tanto perché in teoria erano rimediabili. La pressione aumentava piano piano, complici i cosiddetti uffici kafkiani (che sono l’apparato trasmettitore), e tutta la burocrazia accademica, sia quella silente che quella attiva. Togli di qua, togli di là, aggiungi di qua, aggiungi di là, norma in più norma in meno, di solito in più, continuo rifacimento degli statuti e dei regolamenti in nome dell’autonomia, lenta metamorfosi sostanziale, corrosiva, con l’apparenza della normalità di superficie e della consuetudine. Se tutto cambia a questo mondo, questo cambiamento, che è sociale, doveva essere attentamente seguito e monitorato per evitare tracolli e disastri. Non significa che quel che c’era prima andasse bene, sempre. Lontana da me quest’idea. Ma non posso togliermi dalla mente che il caso del ponte Morandi sia quasi un’allegoria, nel momento giusto (sarà un caso?), di ciò che succede in molti reparti della società italiana. Fatto il ponte, ceduto ai privati quando bisognava alleggerire il bilancio, arriangiatevi gente. Prevedo una specie di trasformazione dell’università in call-center. In parte è già così, tutti davanti ai programmi nei computer, riempire moduli su moduli, lezioni in distanza o in differita, materiali trasmessi on line. Ogni tanto una riunione dalla democrazia fasulla. In quei pochi edifici malmessi che rimarranno. Basterà qualche stanza. L’idea di campus universitario è la sua realizzazione è per i ricchi.
Il vero guaio, secondo me, sta nel fatto che il processo di impoverimento della scuola pubblica avviene con l’acquiescenza della maggior parte dei docenti, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado. I governi sono certamente responsabili ma noi docenti siamo colpevoli di ignavia, indifferenza e opportunismo, naturalmente con le dovute eccezioni ma la via è tracciata dalla massa. Questa professione, ormai, sembra essere diventata un misto tra pubbliche relazioni e imbonimento “culturale” e perciò la preparazione, che un tempo si chiamava disciplinare, diventa spesso inopportuna, anzi, un vero e proprio ostacolo. E noi docenti stiamo zitti, tanto, con la scusa che abbiamo un posto “fisso”, non possiamo lamentarci. Di questo passo non tarderà il momento in cui ci toglieranno pure quello e noi non avremo né la forza né la coscienza di reagire.
Vorrei rispondere a Pastore, che si lamenta per il fatto che io ho ignorato i suoi commenti e che in mia difesa sia sceso invece Giuseppe De Nicolao. Innanzi tutto, in genere io seguo poco i commenti agli articoli: è un mio difetto, lo so, ma preferisco intervenire in modo più veloce su FB; sicché solo ora mi sono accorto del suo commento e delle relative risposte. Mi scuso pertanto per la mia pigrizia.
In secondo luogo, vorrei precisare che io condivido del tutto quanto detto da De Nicolao, per cui la sua risposta può anche essere mia. Però posso aggiungere qualcosa d’altro. Innanzi tutto, ciò che sempre dico ai miei interlocutori che mi rimproverano di non aver detto questo o quell’altro: non si può dire tutto in un articolo, altrimenti si trasformerebbe in saggio e diventerebbe illeggibile in uno strumento veloce come un sito web. Se si vogliono conoscere le mie opinione più ad ampio spettro, sempre nelle risorse web c’è ampio materiale.
Vorrei a ciò aggiungere, in merito al rimprovero specifico per cui ci lamentiamo (quelli di ROARS) o mi lamento sempre ma non metto in luce le colpe di noi docenti o non facciamo proposte in positivo, che se si vanno a vedere gli articoli da me scritti (per gli altri di ROARS ha già risposto De Nicolao), su ROARS e FB, si vedrà non solo che ci sono anche feroci critiche ai colleghi pusillanimi che nulla hanno detto in questi anni, ma anche ai rettori che hanno accettato quanto accaduto (anche se a volte tali editoriali sono anonimi, perché condivisi dall’intera redazione), ma anche che vi sono anche proposte in positivo su valutazione e altri punti caldi dell’attuale politica universitaria. Invito solo a leggere qualcuno degli articoli elencati in https://www.roars.it/author/coniglione/, perché non è sempre possibile ripetere in ogni occasione e in ogni cosa che si scrive le cose che si sono già dette.
Forse abbiamo idee diverse sul senso di un blog con commenti. Troverei improprio commentare su FB un articolo che appare altrove.
Concordo sul fatto che non si possa ripetere in ogni occasione cose già dette. Ma proprio per questo non vedo motivo per considerare una messa sotto accusa di ROARS quello che era un commento sullo stato di fatto dell’accademia “in media”. Se era fraintendibile me ne scuso.
Su quanto scritto e fatto da ROARS non ho nulla da dire, anzi, vi ringrazio pubblicamente di esistere e rassicuro la redazione tutta sul fatto che tutti gli articoli citati li avevo letti con attenzione a suo tempo. Non penso che questo impedisca di avere delle sensibilità diverse su alcuni punti e immagino che lo scopo di un blog con commenti sia proprio quello di permettere un confronto su questo.
Tornando nel merito dell’articolo, trovavo e trovo una semplificazione eccessiva quella di additare come unici responsabili della fine del ruolo di ascensore sociale della scuola “.. i ceti privilegiati e abbienti, che …. si sono accorti del pericolo che stavano correndo e hanno preso le contromisure. “.
Concordo che questa e’ una delle componenti importanti. Ma non l’unica. E se non si tiene conto della co-presenza di altri fattori, penso che si rischi di non risultare convincenti se non entro una ristretta cerchia di persone che la pensano in partenza allo stesso modo.
Di altre con-cause sinergiche ne vedo almeno due. Una l’ho già citata: la acquiescenza di molti e il “collaborazionismo” di alcuni dei diretti interessati (nella scuola e nell’ università). L’altra è quell’utilizzo della scuola come bacino di consenso da parte della politica che almeno dagli anni ’70, e ad opera anche di forze politiche non direttamente espressione di ceti privilegiati, tanto ha fatto per svuotare la capacità di formazione della nostra scuola. La qualità della formazione, che è poi il vero motore dell'”ascensore sociale”, non penso derivi tanto dal mantenere strutturazioni o contenuti tradizionali o dal rifiutare uno strumento in sé neutro come i “crediti”, quanto dalla capacità del sistema di mantenere alti standard di preparazione della classe docente. Ma su questo occorrevano e occorrono risorse e la convinzione che una classe docente preparata e motivata ha anche in sé le capacità per contribuire attivamente al buon funzionamento del sistema di istruzione, senza dover attendere le riforme epocali dell’ illuminato di turno.