Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa replica a firma dell’Unione degli Studenti.
L’abolizione (parziale) della bocciatura alle elementari e alle secondarie di primo grado ha generato nelle scorse settimane un vivace dibattito teorico sul ruolo educativo della scuola, rispetto al quale in parte ci eravamo espressi, cogliendo gli spunti dati da Asor Rosa e De Michele. Il contributo più recente arriva da Francesco Coniglione su ROARS, il quale sostiene la necessità della bocciatura come strumento essenziale per stimolare la disciplina e l’attitudine allo studio. La misura messa in campo dal ministero, che “limita” ma ancora non abolisce la bocciatura, sarebbe dunque un passo ulteriore nei processi di dequalificazione della scuola e di “asinizzazione” degli studenti. Come nota Coniglione, di certo è mancata da parte della ministra una riflessione sull’habitus, ma questa non è una novità e di sicuro non stupisce. A nostro parere però a questo assunto non si può rispondere accettando il modello attuale, autoritario, meritocratico, frontale e verticale, che non lascia spazio nel suo ragionamento a modelli didattici alternativi e al tema della bocciatura come strumento repressivo. Rispetto alle alternative pedagogiche addirittura il Sole24Ore ha pubblicato un articolo interessante circa il Cooperative Learning, tuttavia su questo tema non mancano le esperienze di messa in pratica: in molti paesi europei, ad esempio la Finlandia, la lezione frontale occupa solo il 20% delle ore di didattica in classe.
Il punto è che l’attitudine allo studio non si viene a generare attraverso le coercizioni e le punizioni, anzi, questi strumenti si sono rivelati deleteri tanto da far pensare che potrebbero persino essere del tutto abbandonati. A tal proposito citiamo i dati Ocse 2015 che evidenziano come l’Italia sia il paese che boccia di più in Europa con una percentuale del 16% contro il 12% (media europea). Inoltre questo strumento pare venga utilizzato con maggiore frequenza negli istituti tecnici e professionali piuttosto che nei licei. Secondo queste stime ben il 26% degli studenti bocciati ha un reddito basso ed un consistente 30% sono studenti migranti, a confermare come la bocciatura riproduca disugualianze, per dirla con le parole di Don Milani “La scuola ha un unico problema: gli studenti che perde”. Ci sembra doveroso ricordare, inoltre, che il 16% degli studenti bocciati l’anno seguente non consegue ugualmente il successo formativo.
Ma da cosa dipende l’attitudine allo studio? Sicuramente da un insieme più complesso di fattori, dal metodo scolastico a tutto un insieme di campi che vengono attraversati e che formano l’habitus; per fare un esempio, in assenza di forme di reddito indiretto per gli studenti, la famiglia ha un ruolo centrale nella formazione e quindi nella possibilità o meno di accedere ai canali culturali. Si potrebbe citare Bourdieu, ma anche Gramsci che su questo aspetto anticipò il sociologo francese nei Quaderni dal carcere: “In una serie di famiglie, specialmente dei ceti intellettuali, i ragazzi trovano nella vita familiare una preparazione, un prolungamento e un’integrazione della vita scolastica, assorbono, come si dice, dall’”aria” tutta una quantità di nozioni e di attitudini che facilitano la carriera scolastica propriamente detta”. La scuola dunque dovrebbe essere quel luogo che sopperisce alle disuguaglianze di partenza, permettendo a tutti di formarsi accedendo all’istruzione tanto formale quanto informale.
Se è vero che Gramsci riteneva si dovesse porre un limite all’educazione libertaria, è altrettanto vero però che il filosofo sardo propose un modello educativo che passasse dalla “scuola attiva” alla “scuola creativa”, in cui l’insegnante altro non è che una “guida amichevole”. Un modello di scuola più creativa, più democratica e orizzontale, più interessante e con programmi didattici organizzati in modo differente, potrebbe di fatto stimolare maggiormente lo studio. Coniglione però, al contrario, propone la conservazione dell’esistente, con tutte le conseguenze annesse: la frustrazione, la rabbia, l’angoscia vengono accettate perché funzionali allo sviluppo dell’attitudine allo studio, e non ci si interroga se questi, raggiunto un limite, al contrario possano anche contribuire all’espulsione degli studenti dai luoghi della formazione. La scuola di oggi tende sempre più ad essere quell’ “istituzione totale” di cui parlava Goffman, ovvero un elemento che, partendo dalla necessità di disciplinare la società per ripulirla dagli “errori”, dal non- conforme, deve ordinare ogni passaggio della vita di un soggetto, in questo caso gli studenti. A questo scopo servono anche strumenti come il limite delle cinquanta assenze nelle scuole superiori ed il voto in “condotta”. Disciplina, intesa in termini gramsciani, come attitudine allo studio e non come educazione unilaterale è un concetto di cui riappropriarci con il fine di smantellare una divisione disuguale. L’emarginazione sociale, unita allo stigma della bocciatura sono, infatti, le culle dell’abbandono scolastico.
Stesso discorso vale per l’università. Allora come non pensare ad un ragionamento complessivo per il mondo della formazione, slegato dalle logiche quantificative e competitive propinate da un modello come l’Anvur per le università e le Invalsi per le scuole? Accettare il voto asetticamente, così come la classificazione e la bocciatura, significa anche subire passivamente la valutazione dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca, metodo ampiamente criticato anche nella comunità accademica.
La bocciatura, come d’altronde anche i voti numerici, pesano nella relazione tra studente e docente. In questo rapporto, spesso si genera quella che Gregory Bateson avrebbe definito “tensione schismogenetica”, un rapporto conflittuale tra due soggetti che può ad un certo punto “esplodere”, e nel caso della relazione tra studente e docente ciò si traduce nel conflitto interpersonale, nella disaffezione e nella sfiducia tra i due attori, con ripercussioni gravissime sul processo educativo e formativo. Una scuola più accogliente e non autoritaria si realizza soltanto se lo studente può avere un rapporto orizzontale con il docente, in cui possano confrontarsi in serenità, senza “ansie da prestazione” per entrambi. Con voti e bocciature, tutto questo ovviamente non è possibile.
Se il Ministero ha deciso di abolire – o quasi – la bocciatura nella scuola primaria e secondaria di primo grado, non si può che rilanciare con una proposta di riforma complessiva. Rivoluzione, non conservazione, non restaurazione. Questo provvedimento, decisamente parziale e “di facciata” ha un pregio: inizia a mettere in crisi il peso del voto numerico nell’ambito del percorso formativo di uno studente.
Da oggi in avanti il voto perderà valore? Come sarebbe la scuola se si smettesse di bocciare e di utilizzare modelli repressivi? Nel ridimensionamento del voto numerico è possibile pensare all’introduzione di altri modelli valutativi come la valutazione narrativa, l’autovalutazione, la valutazione della classe e la valutazione reciproca, da studente a docente e viceversa. La classe divisa tra ciucci e secchioni è una fotografia delle disugualianze della società e, dunque le riproduce. Una scuola che boccia, allo stesso tempo, non è una scuola che funziona, dietro ogni studente bocciato non vi è una “colpa” intrinseca, un “asino”, bensì il fallimento dell’intero sistema formativo e della società come soggetto educante. Riprendendo un detto africano “per crescere un bambino serve un intero villaggio”: è necessario quindi ripensare non solo il ruolo della scuola rispetto agli studenti e rispetto al contesto in cui è inserita, al territorio di cui fa parte e cui dovrebbe aprirsi, ma anche immaginare delle città educative, che possano stimolare adulti, ragazzi, bambini e anziani.
Per concludere possiamo dire che la bocciatura altro non è che una delle espressioni più infelici ed escludenti della “meritocrazia”, neologismo coniato da Micheal Young (si veda anche, ad esempio, il suo articolo “Down with Meritocracy” uscito sul The Guardian nel 2001). Con tale parola “Meriticracy”, Young intendeva dare un’accezione negativa ad un modello di società distopico.
Di questa società, noi, possiamo farne a meno in quanto essa serve solo a mantenere lo stato di cose presenti. Anche la scuola può farne a meno, essa deve avere un ruolo trasformativo, non riprodurre le storture o preparare nuovi sfruttati e nuovi sfruttatori. Ciò che occorre è una vera redistribuzione della ricchezza e un investimento concreto sulla qualità dell’istruzione: un ripensamento radicale della scuola a partire dal suo ruolo di motore di cambiamento della società, mettere al centro chi la vive per cambiarla. Assieme.
Intervento serio e ponderato: bene hanno fatto gli autori a richiamare modelli virtuosi, come quello finlandese, e benissimo a richiamare la lezione di Don Milani. Serve una scuola che, specie nell’età dell’obbligo, sia inclusiva al massimo grado. Questo, ovviamente, passa per una riqualificazione costosa (che è il contrario di “a costo zero”, formula che tanto piace ai nostri Governi quando si parla di scuola e università) delle strutture e degli attori, e per una riforma vera della didattica. Il mondo è cambiato.
Con tutto il dovuto rispetto per il precetto originale, direi di non nominare il nome di Don Milani invano. Infatti, Don Milani era un Maestro, ed è chiaro che chi ha scritto questo testo non ha mai avuto un Maestro. Infatti, chi ha avuto almeno un Maestro in vita sua, non parla di ”modello verticale” [in negativo] e di ”scuola orizzontale” [in positivo], e di ”relazione tra studente e docente” come ”rapporto conflittuale”, e non parla, in questo contesto, di ”conflitto interpersonale” . Non è colpa sua se non ha mai avuto l’esperienza di avere un Maestro, ma è colpa sua se fa della sua condizione il punto di partenza per una discussione grottesca, e non capisce che la sua condizione è segno della avvenuta distruzione della scuola.
Chi ha scritto questo testo si stupisce che ”addirittura il Sole24Ore [abbia] pubblicato un articolo interessante circa il Cooperative Learning”. Non è così stupefacente. Le Confindustrie europee (e non solo quella italiana, come viene ripetuto anche da osservatori attenti) sono da anni interessate all’impresa di sussumere la scuola sotto il concetto di azienda, e quindi distruggerla. Ci sono riuscite.
Chi ha scritto questo testo confonde le cause con gli effetti, suggerendo che la scuola italiana funziona male perché boccia troppo, quando tutti sanno e tutti vedono che nella scuola italiana di fatto non si boccia più.
Chi ha scritto questo testo confonde in modo ricattatorio le dinamiche sociali con quelle che dovrebbero essere proprie di una scuola, e parla impropriamente di ”repressione”, ”autoritarismo”, eccetera.
Molte altre cose vorrei dire, ma non è facile parlare di polli con qualcuno che non ha mai mangiato un pollo allevato a terra, nutrito in modo sano e naturale, che è stato libero di beccare in giro per la campagna. Similmente, non è possibile parlare di scuola con qualcuno che non ha mai avuto un Maestro, però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba.
Fonti:
”L’agonia della scuola italiana” di Massimo Bontempelli.
”Un pensiero presente”, di Massimo Bontempelli.
”Chi sono i nemici della Scienza?” di Giorgio Israel.
”Segmenti e bastoncini”, di Lucio Russo.
”Metamorfosi della scuola”, nn 1/2 Gennaio/Giugno 2000 di Koiné (periodico culturale, editrice C.R.T Pistoia).
”Visioni di scuola”, Koiné quaderni, supplemento a Koiné, Anno X n.1 Gennaio 2013.
Sottoscrivo.
Questa della scuola italiana che non boccia va a braccetto con l’ordinario che non ha mai scritto una riga e l’università gratis.
Leggo nell’articolo: “A tal proposito citiamo i dati Ocse 2015 che evidenziano come l’Italia sia il paese che boccia di più in Europa con una percentuale del 16% contro il 12% (media europea). Inoltre questo strumento pare venga utilizzato con maggiore frequenza negli istituti tecnici e professionali piuttosto che nei licei. Secondo queste stime ben il 26% degli studenti bocciati ha un reddito basso ed un consistente 30% sono studenti migranti”.
Leggo nella replica di Fausto di Biase: “tutti vedono che nella scuola italiana di fatto non si boccia più”.
Comprendo che ognuno la pensa come gli pare, ma almeno sui dati bisognerebbe intendersi.
Lapo, non si sopprime la causa occultandone gli effetti. Se smetti di bocciare non hai ipso facto reso la scuola funzionante.
Vero, Di Biase. Ma occorre anche non minimizzare gli effetti, specie quando gli effetti sono perniciosi.
Chi ha diffuso l’idea che tutte le ultime cosiddette riforme di università e scuola sarebbero state al cosiddetto costo zero, ha mentito sapendo di farlo. Quanto costa tutta la ricerca e la certificazione del merito algoritmizzato, possiamo calcolarlo con molta approssimazione, perché le fonti ufficiali sono lacunose sull’argomento o latitanti o silenti.
La scuola è allo sbando, e in questo contesto l’argomento della non bocciatura sollevato dal ministero serve soltanto da cortina stordente di fumo tossico che nasconde i veri problemi. Potrebbe essere discusso in una scuola che funziona e il cui funzionamento è ritenuto soddisfacente dalla società. Proprio ora al TG regionale si parla di decisioni TAR per il ritorno di docenti nei posti di origine. Quanto sono costati alla società questi maxiconcorsi mostruosi quanto a svolgimento e risultati? Ma riesce qualcuno a raccontare una giornata di un docente di scuola, persino se egli non è stato sottoposto alle angherie degli ultimi concorsi? E del problema dei cd 24 cfu universitari necessari per l’insegnamento, cosa significano e come devono essere ottenuti, qualcuno riesce e vuole parlare, dopo però aver letto il relativo documento verboso rilasciato dal MIUR?
Gli studenti non hanno capito innanzi tutto quello che ho scritto. Già il fatto di affermare che io sostengo che l’eliminazione della bocciatura sia «un passo ulteriore nei processi di dequalificazione della scuola e di “asinizzazione” degli studenti.» travisa quanto da me affermato. Io infatti avevo scritto che «La più parte delle reazioni critiche alla notizia…» mette in luce questo aspetto. Ma poi avevo nel periodo successivo affermato: «Si è fatta invece poca attenzione ad un altro fattore che non ha attinenza con i contenuti appresi o meno, ma con l’habitus», e mi ero concentrato solo su questo aspetto. Invece gli studenti riferiscono il mio discorso all’intero spettro delle attività scolastiche, compreso il profitto degli studenti, che non c’entra nulla col discorso da me fatto.
Mi stupisce un intervento così denso e argomentato su un articolo in cui il tema della bocciatura, impiegato dall’autore a cui si replica metaforicamente e trasversalmente, viene “impugnato” dagli studenti come rivendicazione di emancipazione nei confronti di una Scuola autoritaria, classista e diseguale. Studenti e Insegnanti, a mio avviso, hanno ben altre battaglie da compiere insieme, in una fase di deriva della Scuola come Istituzione pubblica e libera. Libera nei suoi fini e percorsi, che non sono quelli del “territorio” e delle realtà produttive (come suggerisce l’alternanza scuola lavoro). Libera nelle scelte metodologiche, nella modulazione sui tempi lunghi dell’apprendimento dei singoli, in percorsi che garantiscano personalizzazione ed inclusione autentiche, non disbrigo burocratico di etichette “mediche” (BES, DSA etc) . Una scuola equa, inclusiva e attenta alla persona non è la scuola della standardizzazione e della misurazione degli apprendimenti ad opera di agenzie esterne (INVALSI) . Pensare che l’eliminazione (de facto) della “bocciatura”sia la vittoria del decreto 62, è ingenuo e riduttivo. Lo stesso decreto (e i successivi e recentissimi DM di ottobre) riscrive la valutazione e certificazione delle competenze, oltre che le modalità di svolgimento degli Esami di Stato. Cosa pensa l’UdS in proposito? Sostituire i voti numerici con “livelli” (sempre numerici, non narrativi) di preconfezionate “competenze di cittadinanza” europea é un passo avanti verso una valutazione autentica e discorsiva? Misurare e certificare la competenza di “spirito di iniziativa e imprenditorialità” in un tredicenne é un passo avanti nella demolizione del modello “repressivo” della scuola attuale? Non mi pare che si colgano, nell’intervento studentesco, le contraddizioni che proprio quel decreto a cui si riferisce, lasciano irrisolte, se non Incrementate. Il discorso sulla bocciatura,l’eliminazione dell’INVALSI dall’esame delle medie o della terza prova alle superiori non sono vittorie di una scuola libertaria. Sono la facciata dietro la quale, per la prima volta nella storia della scuola pubblica, la valutazione formativa degli studenti ( che rimane NUMERICA) viene espropriata agli insegnanti, capricciosi, autoritari ma in relazione educativa con gli studenti, ed affidata ad un’agenzia “terza”, l’INVALSI. Dalla seconda elementare in poi INVALSI esprimerà i livelli di competenza degli studenti in maniera asettica e “scientifica” in un “libretto di competenze” che rappresenterà il loro biglietto da visita all’ingresso del mitico mondo del lavoro. Valutazione fatta con uno “strumento universale”, con la pretesa di fornire uno “strumento di equità” per la scuola. Alla maturità, poi, anche le imprese e i tutor di alternanza avranno voce in capitolo nella valutazione finale. Perché non scrivere, insieme ai vostri docenti, un documento congiunto sulla distorsione di un simile meccanismo? Su queli scenari si prefigurano? E, infine, visto che voi studenti citate l’Europa e il caso Finlandese (a proposito, avete letto “il bluff della Matematica finlandese” di G Israel?) quali riflessioni fate sul ruolo di EU ed altri organismi sovranazionali (vedi OCSE) rispetto alle politiche scolastiche italiane? Sarebbe davvero bello poter discutere e lavorare fianco a fianco con ragazzi attenti, consapevoli e non strumentalizzabili su temi cruciali per la nostra società e democrazia: quale idea di Scuola vogliamo, quali i suoi fini, dove vogliamo andare.
La semplicità dovrebbe governare il mondo (e le menti). Devi fare una cosa (studiare) e non la fai? Devi bocciare. Anche solo per rispettare chi la fa. Anche nella scuola dell’obbligo. In quella secondaria ed università la bocciatura dovrebbe essere un pilastro senza di cui non si può sostenere un livello decente degli studi. Pochi laureati qualificati sono meglio di molti ignoranti. Il fatto che i nostri ‘cervelli’ siano in qualche modo appetibili all’estero deriva da quello che ancora rimane della qualificazione della nostra Università, che via via sta sempre più diminuendo. La scuola, per essere democratica e fungere da ascensore sociale, non può essere per tutti. Deve essere per tutti i meritevoli. Per come sta diventando è sempre più una scuola classista che distribuisce titoli spazzatura, che solo i ricchi ed i privilegiati possono valorizzare. Se non ci si libera da questi insopportabili cascami di ‘sinistra sessantottina’ non si va da nessuna parte. Ed infatti non si va da nessuna parte!
Sì, in teoria il ragionamento non fa una piega ed è molto à la page. In pratica io manderei Braccesi a farsi un due settimanette di supplenza di matematica in una prima media di Scampìa (o di Bari vecchia, come me) poi ci aggiorna.
Dopo aver letto quello che scrive Braccesi rimango perplesso e trovo che il richiamo a Don Milani sia non solo appropriato, ma anche attuale. Per come la vedo io, la scuola, e specialmente la scuola dell’obbligo, non dovrebbe produrre (troppo precocemente) disuguaglianze; dovrebbe invece aiutare e non lasciare indietro i ragazzi che, per ragioni diverse (e non per colpa loro), sono i più deboli e i più soggetti a bocciature. Parlo di ragazzi che vorrebbero studiare, ma che avrebbero bisogno di didattica speciale, di tempi diversi, di docenti (meglio pagati) ben formati non solo sui contenuti ma anche sui modi con cui trasmetterli, quei contenuti. Tutto questo non lo vedo nella nostra scuola o, meglio, non lo vedo diffusamente. Forse Braccesi ha la fortuna di non avere un figlio che ha perso ogni autostima e si sente stupido perché un insegnante delle medie così gli ha fatto credere: magari un insegnante che entrava in classe, chiedeva di aprire il libro alla pag. XY e di leggere a voce alta, salvo poi lamentarsi che gli studenti di oggi non sanno esporre, senza porsi il problema di come ci si arriva a esporre bene dei contenuti se nessuno te lo insegna. Io queste cose e altre molto peggiori le ho toccate con mano. Continuare a ragionare sulla scuola italiana avendo a mente il bel tempo che fu non porta da nessuna parte: il mondo è cambiato, la società è cambiata, i ragazzi sono cambiati. Quello che sogno io è una scuola che sia diversa sin dagli arredi, dove i soffitti non crollino né concretamente né metaforicamente.
Tutta la mia solidarietà ad Eriberto. Capisco e conosco il suo problema. Certo che che le istituzioni dovrebbero aiutarlo, ma si guardano bene dal farlo. Per quanto riguarda Lapo, ha ragione anche lui. Alcuni insegnanti sono incapaci e/o demotivati. Il mio ragionamento può funzionare solo se gli insegnanti sono mediamente bravi e sostenuti dalle istituzioni. E così si ritorna ad Eriberto!