Guglielmo Forges Davanzati, su «Micromega» del 15 novembre 2013, ha pubblicato un articolo dal titolo: “Più turismo, meno università“. Che la distruzione dell’università italiana corrisponda a una precisa scelta politica è una convinzione ormai sempre più condivisa. Quello che, però, stupisce è che non si consideri quanta ricerca scientifica sia necessaria a conservare, tutelare e valorizzare un patrimonio storico, artistico, naturale e paesaggistico. Qualcuno penserà: se si può guadagnare facilmente e velocemente vendendo Coca Cola al triplo del suo prezzo agli escursionisti di passaggio, perché spendere soldi e fatica per curare territorio e memorie? Ma il turismo non è necessariamente questo, così come l’heritage non è un giacimento petrolifero. Abbandonando il territorio allo sfruttamento si diventa senza dubbio un paese di camerieri. Ma anche perché si è stati il Paese dove nessuno ha avuto, e sostenuto, un’idea diversa.
Guglielmo Forges Davanzati, su «Micromega» del 15 novembre 2013, ha pubblicato un articolo dal titolo: Più turismo, meno università, del quale riporto l’abstract:
Da Giulio Tremonti a Mariastella Gelmini e a seguire, si è detto che i tagli al sistema formativo sono necessari per ragioni di bilancio. Si tratta di una tesi palesemente falsificata dal fatto che, nell’intero settore del pubblico impiego, le maggiori decurtazioni di fondi sono state subìte proprio da scuole e università. Si è, dunque, in presenza di una scelta di ordine puramente politico, non dettata da ragioni “tecniche”. Scelta di ordine politico che ha a che vedere con il modello di specializzazione produttiva al quale si intende portare l’Italia. Se è questa la linea che si intende perseguire, non sorprende che alla “desertificazione produttiva” del Paese (già in atto) debba far seguito la sua “desertificazione universitaria”. Ed è quanto, in larga misura, si è già realizzato.
Sono dichiarazioni che mi trovano completamente d’accordo. Non fosse che per il titolo dell’articolo e per l’affermazione secondo la quale questa “scelta di ordine politico” ha a che vedere “con il modello di specializzazione produttiva al quale si intende portare l’Italia”.
Che la distruzione dell’università italiana corrisponda a una precisa scelta politica è una convinzione ormai sempre più condivisa. Almeno da quanti – come me – lavorano e sono fieri di lavorare nell’università pubblica, considerandola nelle sue molte e diverse funzioni, non ultime quelle di permettere e promuovere la mobilità sociale e la crescita culturale complessiva del Paese. Che questa distruzione corrisponda a un’opzione a favore di politiche orientate al turismo, è cosa della quale mi permetto di dubitare. E anzi di controbattere. Tornando – come d’altra parte fa lo stesso Forges Davanzati – un po’ indietro nel tempo, e ricordando una famosa ‘uscita’ di uno dei più ascoltati economisti italiani, il prof. Luigi Zingales il quale, durante la puntata di Servizio Pubblico del 15 novembre 2012 aveva affermato:
Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo d’indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro nel turismo.
La posizione di Zingales, venne all’epoca giustamente e fondatamente attaccata da Marco Cattaneo – laureato in fisica con lode e stimatissimo giornalista scientifico – nell’editoriale del numero di «Le Scienze» del dicembre 2012. Nell’articolo Cattaneo rivendica l’eccellenza della ricerca italiana e del sistema di alta formazione che la sostiene. E, dunque, come già per l’articolo di Forges Davanzati, anche in questo caso non ho niente da eccepire.
Non fosse che per il titolo, richiamato anche nella “coda” dell’articolo, che qui riporto:
Perché c’è chi crede che sia un preciso dovere della politica dare risposte solide alla domanda di sviluppo. Perché c’è chi ancora non si rassegna a diventare un paese di camerieri.
Mentre Cattaneo pare dimenticare, o omettere, che i “camerieri” hanno purtuttavia una loro professionalità specifica e complessa (per raggiungere la quale esistono cicli di formazione specifici), Forges Davanzati, quantunque in nota e con un certo tono di riprovazione, sottolinea come la “scelta di ordine politico” relativa al “modello di specializzazione produttiva al quale si intende portare l’Italia” sia stata “assecondata da molte Università tramite il proliferare di corsi di laurea in Scienze del Turismo et similia“. Quello che, invece, evidenzia – ancorché, di nuovo, in nota – è che
Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassi tassi di crescita (http://www.rcfea.org/RePEc/pdf/wp41_09.pdf).
Che un’opzione di sviluppo turistico-culturale non possa, da sola, sostenere l’economia di un territorio grande e complesso e garantire alti tassi di crescita e che – soprattutto – non possa rappresentare una accettabile alternativa alla desertificazione produttiva già in atto nel Paese è cosa che mi trova sostanzialmente d’accordo (fatta, forse, eccezione per quelle zone del Paese che sono sempre rimaste produttivamente deserte).
Quello che, però, mi stupisce è che né Cattaneo, né Forges Davanzati considerino quanta ricerca scientifica sia necessaria a conservare, tutelare e valorizzare un patrimonio storico, artistico, naturale e paesaggistico tale per cui “un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani (…) vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia”, né di come un sistema turistico oltre che di camerieri abbia bisogno di strategie (e, dunque, anche di ricerca). E non solo di ricerca umanistica, ma scientifica (comprese le biotecnologie, utilissime nella conservazione e nel restauro e anche – immagino – per la tutela dell’equilibrio ecosistemico).
E mi sorprende che non ricordino che, già oggi, moltissimi ricercatori si stanno dedicando a questo lavoro. Dall’Opificio delle Pietre Dure al Visual Computing Lab, dall’Enea, al CNR, all’Università, da molti anni, molte donne e molti uomini – incompresi, inascoltati, marginalizzati, mortificati, definanziati – cercano e trovano mezzi e soluzioni, spesso notevolmente all’avanguardia, per la conservazione, la tutela e la valorizzazione dei patrimoni artistico-culturale, naturale e paesaggistico che sono alla base dell’attrattività turistica del nostro Paese.
Quel che poi il nostro Paese riesca a fare (o, meglio, a non fare) di questi sforzi è altro discorso.
Anzi no. Probabilmente fa proprio parte dello stesso discorso: di un’impostazione culturale, di una lacuna critico-categoriale che non riesce a cogliere la complessità della direttrice economica turistica. E quanto essa sia profondamente intrecciata con la produzione artistica e culturale (basti qui ricordare i modelli ‘virtuosi’ di rapporto enumerati da Mossetto nel suo Economia delle città d’arte).
Evidentemente, si fa ancora fatica a riconoscere la qualità industriale – economica e produttiva, ma anche portatrice di nuova organizzazione del lavoro, di nuovi modi di produzione, di nuove figure sociali – delle industrie della cultura e del turismo. Che sono, invece, settori economici. E in quanto tali, e al pari di altri, necessitano di pensiero strategico e di politiche industriali. E di conoscenze quali solo l’università può formare.
Vero è che la creazione di componenti fondamentali del nostro prodotto turistico (ad esempio, tutti quelli legati alla cultura e alla comunicazione: immagine, notorietà, differenziazione, promozione) è avvenuta ed avviene grazie alla domanda e nei circuiti di produzione culturale legati a questa domanda: artistici, letterari, scientifici e, più recentemente, mediatici (dai rotocalchi, al cinema, alla televisione). La maggioranza degli imprenditori turistici (vi sono anche qui, come ovunque, lodevoli eccezioni) è salita e sale come free rider su questa valorizzazione sociale multilivello del prodotto turistico.
Che la valorizzazione turistica sia un problema dell’offerta è, infatti, pensiero recente in tutto il nostro Paese. Alcuni luoghi di grande interesse turistico hanno visto diventare il loro suolo prezioso più dell’oro soltanto perché gli abitanti avevano appreso a servire i capricci e le eccentricità di un popolo nomade di ricchi oziosi, i quali – molto spesso – hanno provveduto da soli a garantirsi il livello di confort al quale erano abituati. In gran parte delle nostre città d’arte e dei nostri litorali, in assenza di strategie e di politiche, comportamenti immediatamente redditizio e non sanzionati dal mercato (e poco dallo Stato), sono stati non solo ampiamente praticati, ma considerati razionali.
Se si può guadagnare facilmente e velocemente vendendo Coca Cola al triplo del suo prezzo agli escursionisti di passaggio, perché spendere soldi e fatica per curare un territorio e memorie che non interessano gli avventori? Se i villeggianti (anch’essi evidentemente “in debito” di cultura, di cultura civica, ma anche di cultura ambientale) accettano di pagare a un imprenditore privato il godimento di ciò che è pubblico – mare, cielo, paesaggio – e non boicottano comportamenti come abusivismo e inquinamento, perché meravigliarsi se l’imprenditore trova logico (oltre che conveniente) godere della rendita e sversare nel comune le esternalità negative?
In breve, nelle località turistiche del nostro Paese, il principio secondo il quale chi beneficia gratuitamente di esternalità rimane sotto il livello di efficienza che raggiungerebbe se dovesse corrispondere un prezzo di mercato, viene ancor più enfatizzato da una propensione a godere delle rendite della natura e della storia derivata da un “modello di sviluppo” che ha consentito profitti molto alti a fronte di investimenti minimi (e, specialmente nel passato, a volte nulli).
Ma il turismo non è questo (o, almeno, non è necessariamente questo), così come l’heritage non è un giacimento petrolifero. D’altronde anche per i giacimenti petroliferi ci sono diversi modi di sfruttamento: si può fornire il greggio ad altri (cosa che richiede investimenti relativamente bassi), o si può raffinarlo. La seconda opzione innesta processi di crescita, la prima prospetta un esaurimento del “giacimento” che lascia alcuni molto ricchi e altri senza alcun mezzo di sostentamento. Temo sia chiarissimo quale è il modello che la nostra politica sta scegliendo o ha già scelto. Il che non vuol dire, però, che gli intellettuali e gli studiosi debbano (sia pure implicitamente) considerarlo l’unico possibile.
Abbandonando il territorio a questo tipo di sfruttamento, si diventa senza dubbio un paese di camerieri. Ma anche perché si è stati il Paese dove nessuno ha avuto, e sostenuto, un’idea diversa.
di Marialuisa Stazio – Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Cercando in giro tra le statistiche si nota che in Italia ci sono tante Università con pochi iscritti e tanti docenti.
Forse varrebbe la pena di fare qualche riflessione. Aggregando università forse si potrebbe risparmiare qualche euro da dedicare alla ricerca.
E’ vero che questo dispiacerebbe a qualche sindaco o parroco o segretario che vogliono fregiarsi del titolo ci città universitaria, ma…….
Attilio A. Romita: “Cercando in giro tra le statistiche si nota che in Italia ci sono tante Università con pochi iscritti e tanti docenti.”
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Sarebbe così gentile da dare qualche riferimento più preciso? Le statistiche OCSE mostrano che su scala aggregata solo 5 nazioni hanno un rapporto docenti/studenti peggiore del nostro. Se “ci sono tante Università con pochi iscritti e tanti docenti” vuol dire che ce ne sono poche con tantissimi iscritti e pochi docenti.
Per quanto riguarda i risparmi, sono sempre i dati ufficiali a mostrare che:


1. Ad eccezione di Repubblica Slovacca e Ungheria, l’Italia sè tra tutte le altre nazioni europee quella che spende di meno per l’istruzione terziaria (61% della media OCSE, 69% della media EU21).
2. Mentre la maggior parte delle altre nazioni hanno riconosciuto la natura strategica delle spese per istruzione, l’Italia, con la sola eccezione dell’Ungheria, è la nazione che ha effettuato i tagli più pesanti (il rapporto OCSE non fornisce il dato relativo alla sola spesa per università, ma un dato aggregato relativo all’intera spesa per istruzione).
In effetti farebbe piacere sapere quali… dopo anni di blocco del turn over che non ha guardato in faccia nessuno coinciso con il picco dei pensionamenti (pagina 31 della presentazione del prof. Rossi vorrebbe dire che o queste hanno subito un tracollo di iscritti o precedentemente erano dei veri mostri di docenza…
Comunque aggregando le università *forse* si risparmiano soldi sul lungo periodo, perchè sul breve si resta da una parte con edifici con cui non si sa bene cosa fare (che ad occhio e croce spesso non si riescono nemmeno a vendere bene), e dall’altra bisognerebbe espandere significativamente quelle che si vedono crescere gli iscritti con quindi costo di acquisizione o costruzione di nuove sedi… in breve al netto nel trasferimento ci si perde (a meno che lo scopo non sia diminuire il numero di studenti in quanto costo)
“…….in Italia ci sono tante Università con pochi iscritti e tanti docenti….” ??? Questa affermazione e’ totalmente falsa e a riprova di cio sono la miriade di corsi di Laurea di cui il DM 47 sta imponendo la chiusura. Non per mancanza di studenti ma di docenti ! Che poi in certi casi si tratti di laureifici, che se non si chiudono e’ certo meglio ridimensionare, e’ verissimo ma in ogni caso in Italia il rapporto Studenti/Docenti e’ tra i piu’ alti in Europa.
Avevo letto i report presentati da Giuseppe di Nicolao e, anche per rispondere alla giusta domanda dello stesso ho fatto un po di esplorazione in rete e ho pescato un po di numeri. Sono numeri complessivi, aggregati ed arrotondati presi da vari siti istituzionali. Può darsi che abbia fatto qualche considerazione errata e vi chiedo di segnalarmela.
Prima considerazione: in Italia ci sono circa 400000 studenti iscritti alle circa 80 università presenti sul territorio. Mediamente possiamo pensare che ogni università abbia 10 facoltà e che ogni facoltà abbia 10 indirizzi, quindi per ciascun indirizzo ci sono mediamente 50 studenti.
Seconda considerazione: In Italia ci sono circa 60000 docenti e quindi per ogni docente ci sono 400000/60000= 7 studenti.
Non so come accordare questi numeri totali con tutte le sequenze di numeri OECD, qualcuno può aiutarmi a capirlo?
I miei calcoletti hanno valore statistico e quindi vale “il pollo di Trilussa”, ma c’è qualcosa che non torna..
Attilio A. Romita: “Sono numeri complessivi, aggregati ed arrotondati presi da vari siti istituzionali. Può darsi che abbia fatto qualche considerazione errata e vi chiedo di segnalarmela.”

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In effetti ci sono diversi errori. Mi domando quali siano i “siti istituzionali” consultati. La prossima volta, sarebbe più cortese e corretto riportare i link per poter verificare i numeri. Vediamo di fare un po’ di ordine.
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Il conto basato su 10 facoltà ognuna con 10 indirizzi è troppo approssimativo. Meglio lasciar perdere.
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“in Italia ci sono circa 400.000 studenti”
In realtà gli studenti iscritti sono più di 1.700.000 (un milione e settecentomila) come desumibile dall’anagrafe nazionale degli studenti (http://anagrafe.miur.it/php5/home.php)
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“In Italia ci sono circa 60000 docenti”
In data 1.1.2013, docenti e ricercatori di ruolo sono un po’ meno di 55.000 (vedi slide 14, https://www.roars.it/andrea-lenzi-le-emergenze-del-sistema-universitario-e-della-ricerca/)
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Il calcolo del rapporto docenti/studenti viene fatto (per tutte le nazioni) utilizzando i “docenti equivalenti”. Infatti, l’OCSE distingue l’attività di ricerca da quella didattica. Riporto un estratto di un documento tratto dal MIUR dove una “Nota metodologica” (http://archivio.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2005/cifre_uni01.pdf) spiega che “mediamente la quota del tempo dedicato alla ricerca è del 56,8%, sia per i docenti che per il restante personale”.
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Chiedo la sua comprensione. Non possiamo impegnare il nostro tempo a mettere ordine nei numeri, più o meno casuali, postati dai lettori. Per rispetto nei confronti dei lettori seri, ci riserviamo di censurare i prossimi commenti che riportino numeri non documentati. Se li pubblichiamo, sentiamo il dovere di correggere gli errori per non diffondere disinformazione. Ma il tempo è quello che è e la soluzione più semplice è non pubblicare commenti che riportano dati errati o non verificati.
A Unipd gli studenti sono circa 60000 ed i docenti strutturati (in qualche modo) circa 2100, quindi il rapporto e’
60000/2100 = 28 studenti per docente.
Fonti:
http://www.unipd.it/universita/iscritti
http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/cerca.php
Caro De Nicolao, tu che sei sempre informatissimo sai se ci sarà un’altra proroga per la pubblicazione degli esiti dell’ASN? Se un sorteggio (quello per filosofia morale-11/C3) è stato fatto l’11 nov, ma come è possibile prevedere la pubblicità dei risultati in tempi brevi per tutti? Come fa il MIUR ha dire che i risultati saranno dati alla spicciolata se lo stesso MIUR aveva sempre sostenuto la necessità della contemporaneità degli esiti dell’ASN? Hai qualche notizia in merito? Inoltre, al MIUR non hanno ancora ben chiara una cosa: ovvero da quando decorre il quadriennio di durata dell’abilitazione. Nella legge si dice: dal conseguimento, ma non si fa alcun riferimento se a partire dalla pubblicazione dei risultati, e se questa avviene poi in periodi diversi da SC a SC, allora siamo veramente in un bel casino. Lo chiedo a te perché tra i collaboratori di ROARS mi sembri uno dei più aggiornati (e dei più educati).
Qui più che De Nicolao, ci vorrebbe la Sibilla Cumana (non so se fosse educata o meno, ma credo fosse meno sibillina di ANVUR e MIUR).
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Nel DPCM (http://www.istruzione.it/allegati/cs280913_all1.pdf) che ha decretato la proroga al 30 novembre si richiama che l’art. 1, co. 394, l. 24 dicembre 2012, n. 228, prevede la possibilità di disporre, con uno o più DPCM, l’ulteriore proroga al 31 dicembre 2013. Anzi, ribadisce che “Resta ferma la possibilità già prevista dal co. n. 389 cit. di modulare la proroga entro la predetta data, tenendo conto delle domande presentate in ciascun settore concorsuale”.
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Per la pubblicazione dei lavori, citerei il comunicato stampa del 28 settembre 2013 (http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ministero/cs280913):
Dalla prossima settimana partirà l’invio di comunicazioni specifiche alle commissioni (incluse le 58 che ad oggi hanno già terminato i lavori) per consentire la verifica della congruenza dei giudizi rispetto agli ultimi aggiornamenti. Dopo un’attenta analisi dei verbali da parte del Ministero si procederà alla pubblicazione dei risultati dell’Abilitazione per ciascun settore concorsuale senza attendere che tutti abbiano terminato i lavori. Laddove saranno riscontrate anomalie rilevanti rispetto agli atti delle procedure, il Ministero le segnalerà alle commissioni in modo che l’esito finale del processo risulti corretto.
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Niente di nuovo, rispetto a quanto già si sapeva. Non avendo capacità divinatorie, non saprei dire altro, per il momento.
Vorrei aggiungere che anche il salomonico criterio del rapporto studenti/docenti andrebbe un po’ approfondito e calato nella realtà, altrimenti rimane una specie di letto di Procuste: infatti, oltre a selezionare baronali e asfittici feudi, quel rapporto seleziona allo stesso tempo le università di super-eccellenza (la Normale, o Harvard) che sono appunto caratterizzate da pochi studenti e tanti docenti e proprio in questo hanno uno dei loro punti di forza. Come minimo, servirà un qualche ulteriore parametro per separare i due mondi, o si spara a casaccio?
Un esempio diverso, ma valido in analogia: criteri simili si adottano per i corsi di laurea, dove pero’ un rapporto numerico non normalizzato a nulla e difficilissimo da rispettare – ad esempio – per corsi di laurea in fisica, ma più facile per ben più gettonati – sempre per esempio – corsi in giurisprudenza. E allora che si fa? Lungi dall’avere una risposta, segnalo solo i pericoli legati alla sovrasemplificazione dei criteri di valutazione che da più parti sono stati introdotti e spesso, purtroppo, accettati.
Esprimo la mia piena solidarietà a De Nicolao (i dati di Romita erano così sbagliati che mi ricordavano i compiti d’esame dell’appello per i fuoricorso) e suggerisco un emendamento al regolamento ROARS: tutte le opinioni sono accettate, ma i dati statistici sono pubblicati soltanto se è citata (ed è verificabile)la fonte. Applichiamo i criteri CUN di scientificità!
Comunque, per chi come Romita (e anch’io) preferisce un approccio alla Fermi (però con i numeri giusti, dati MIUR-CINECA): il numero (arrotondato) dei corsi triennali nel 2012/13 è circa 2000, quello dei corsi magistrali è quasi 2000, quello dei corsi a ciclo unico e’ circa 300.
Il conto “alla Trilussa” è quindi di circa 400 studenti per corso di studi.
Ovviamente la distribuzione reale è un po’ più complicata, e lo stesso MIUR riconosce che ci può essere fino a un fattore 4 nella numerosità “accettabile” di un corso di studi, a seconda delle tipologia (si va dai corsi a numero chiuso di medicina e dai corsi con laboratori impegnativi delle lauree “scientifiche”, per i quali una nunerosità di 50 studenti/anno è considerata normale ai corsi “a bassa frequenza” di giurisprudenza per i quali è “normale” una numerosità di 200 studenti/anno.
Quando poi si calcola il rapporto studenti/docenti non si dovrebbe mai dimenticare (ma anche l’OCSE lo dimentica!) che i ricercatori NON sono tenuti a tenere corsi, e quindi il conto vero dovrebbe avere a denominatore i meno di 30mila “professori” (meno di 14mila ordinari e meno di 16mila associati) e non i 23.500 ricercatori, almeno finché non si riuscirà a promuoverne una buona parte (ASN permettendo). Un facile calcolo mostra che abbiamo meno di tre professori per anno di corso per l’insieme dei corsi indicati all’inizio. Ma se il numero dei corsi è “giusto” rispetto al numero degli studenti, ed è “sbagliato” rispetto al numero dei professori, che cosa dobbiamo fare, chiedo a Romita? Cacciare gli studenti dall’Università e chiudere i corsi o reclutare professori?
Come si fa ad avere il coraggio di commentare con dati così sbagliati, Romita! Senza poi guardarsi intorno. Quante Università ci sono in UK o in Francia? Quante in Germania? Se si considerano le Hochschule ce ne sono almeno 25 solo in Baviera! Poi in Italia c’è 1/3 del personale in ricerca che in altri paesi. D’accordo, c’è da considerare l’industria. Poi è del tutto off-topic. Si possono fare tutte le scelte politiche sui settori, e purtroppo in Europa c’è fin troppa influenza politica-industriale sulla ricerca, ma la distruzione in corso è un suicidio!
Ricordiamo gli scempi recenti operati in Spagna per attrarre turisti e mantenere in moto l’economia, con scarso successo, basandosi sull’edilizia e l’attrazione di fabbriconi di multinazionali straniere. Orrori pari alle vele di Scampia…
Senza scienza non c’è sviluppo e senza sviluppo non ci saranno risorse (economiche e umane) per infrastrutture e conservazione dei beni artistici. Conta molto l’amministrazione inefficiente, ma non è con l’assioma che “il governo non è la soluzione, ma il problema” che si vada lontano. Si va verso l’ignoranza e la povertà di massa, come gli USA.
Ottimo intervento. Che dire? Politiche del turismo e politiche della ricerca (connessa alle pratiche di “valorizzazione”) dovrebbero essere tenute vicine; ma un sistema di imprese che prospera nella rendita privilegia sbrigative iniziative di commercializzazione del “patrimonio” e non è interessato a progetti industriali di grande respiro. Ne ho scritto @ http://www.huffingtonpost.it/michele-dantini/in-che-senso-diciamo-patrimonio-tutela-ricerca-innovazione_b_3206791.html
Grazie. Ho visto il tuo intervento e sono lo trovo completamente condivisibile. Cominciare a trovarsi tra persone che la pensano allo stesso modo è già un risultato apprezzabile.
Chiedo scusa a tutti, nella fretta di rispondere ho confuso nuovi iscritti con iscritti che sono circa il quadruplo (1.700.000 nel 2009 in diminuzione, dati MIUR).
Io ho tratto conclusioni da un dato preso per errore.
Giustamente mi avete ripreso e qualcuno ha anche proposto di scacciarmi dal vostro consesso.
Allora pongo alla vostra attenzione un diiverso punto di vista basato su i dati dati ricavati dal prospetto statistico fornito dal MIUR per Tutte le Facoltà distinte.
Le conclusioni le lascio a voi, secondo me meritano attenzione se i numeri hanno un qualche valore. Qualcuno ha definito le mie statistiche alla Fermi, è per me un onore troppo grande; sono soltanto piccoli calcoli che fanno pensare.
Dalla statistica MIUR si ha che esistono 954 Facoltà e che le prime 100 hanno circa il 90% di studenti ed oltre 1000 studenti ciascuna, altre 140 facoltà hanno il 9% degli studenti con una media di 300 studenti ed infine oltre 700 Facoltà rispondono alle esigenze del 2% degli studenti italiani.
Riguardo i docenti si ha che 25000 docenti (escludendo i ricercatori dal totale 55000) sono distribuiti sulle 954 facoltà, non volendo pensar male, è accettabile dire che anche le facoltà più piccole occupano almeno 2-3 docenti.
Le spese per tutte queste oltre 500 facoltà “poco frequentate” non si potrebbero recuperare a favore delle Università vere.
Attilio Romita: “Dalla statistica MIUR si ha che esistono 954 Facoltà e che le prime 100 hanno circa il 90% di studenti ed oltre 1000 studenti ciascuna, altre 140 facoltà hanno il 9% degli studenti con una media di 300 studenti ed infine oltre 700 Facoltà rispondono alle esigenze del 2% degli studenti italiani.”
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Le facoltà sono state abolite dalla legge 240/2010. La riforma Gelmini ha abolito le facoltà sostituendole con strutture di raccordo la cui istituzione è peraltro opzionale (Legge n. 240/2010, art. 2, comma 2: “previsione della facoltà di istituire tra più dipartimenti, raggruppati in relazione a criteri di affinità disciplinare, strutture di raccordo, comunque denominate, con funzioni di coordinamento e razionalizzazione delle attività didattiche“).
http://www.camera.it/parlam/leggi/10240l.htm
Chiedo per l’ultima volta la sua comprensione. Non ha senso impegnare il tempo dei redattori per correggere più volte al giorno commenti del tutto naive.
Mi scusi dott. Romita, ma quello che lei dice non è semplicemente possibile. Mi accorgo che lei – al contrario della maggior parte degli universitari italiani – non ha passato gli ultimi anni a lottare con i cosiddetti ‘requisiti minimi’, che prescrivono i massimi e i minimi di docenti e discenti. ‘Facoltà’ con 2-3 docenti non sono mai esistite. E la informo che la riforma Gelmini ha del tutto eliminato le Facoltà, inducendo gli Atenei a istituire dipartimenti con un numero minimo di 40 docenti.
Quanto allo ‘scacciarla dal nostro consesso’ ci scusi, ma preferiremmo non essere costretti a continuare a contestare dati e informazioni infondati e incompleti, invece di dire e fare cose più produttive. D’altro canto, le assicuro che venire qui a cercare di convincerci della nostra inutilità è perfettamente inutile. Come saprà sicuramente non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E noi, da questo orecchio, non ci sentiamo proprio! Molto cordialmente.
„Abbandonando il territorio a questo tipo di sfruttamento, si diventa senza dubbio un paese di camerieri. Ma anche perché si è stati il Paese dove nessuno ha avuto, e sostenuto, un’idea diversa.“
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Ma come e perché ci stiamo riducendo un popolo di camerieri lo si può ben ricostruire leggendo dei libri come quelli che cito qui sotto.
A mio avviso più che un paese di camerieri direi che il nostro paese é già per sua origine culturale, purtroppo…… un paese di „servi“ e quello che sta succedendo non é che lo specchio di questa triste verità. Essere servi è una virtù intrinseca nel genoma italico, anche se “donne e uomini che hanno saputo dire NO alle convenzioni sociali e soprattutto ai potenti ce ne sono stati e ce ne sono. Ma la forza delle loro parole e delle loro azioni viene rapidamente e spietatamente attenuata e spenta da legioni di miserabili specialisti dell´arte di abbassare, sporcare, deturpare le grandi figure e di dimostrare che gli sforzi nobili sono vani: ….”
E ancora… “Eppure, nonostante l`esempio di uomini come don Milani, la secolare inettitudine alla discussione intellettuale seria, rigorosa e rispettosa vive e prospera anche ai giorni nostri e pare, anzi, conoscere una stagione di particolare rigoglio e splendore. A incoraggiarla è in primo luogo la formazione di quello che in LA LIBERTÀ DEI SERVI ho definito il sistema di corte: i servi, per natura, non sono in grado di condurre una discussione; sanno adulare, accondiscendere, compiacere il signore e i potenti o offendere, insultare, deridere i nemici della corte o gli umili; ma non sanno neppure da che parte si comincia un dialogo né in che cosa consista e che valore abbia uno scambio di idee. Ama e sa coltivare la discussione intellettuale chi ha rispetto per se stesso e gli altri, due qualità che non albergano nell´animo dei servi. Ma attorno ai servi veri e propri è cresciuta la vasta boscaglia dei critici misurati, accorti, esitanti, la folta schiera di chi non ha voluto e non ha potuto farsi servo e non vuole e non sa essere oppositore intransigente”…. Dal libro di Maurizio Viroli, “l´intransigente”, Laterza.
http://www.youtube.com/watch?v=AK9UGt9xHfo
Questa attitudine dei “servi e accomodanti” incancrenisce il sistema e impedisce lo sviluppo di qualsiasi strategia volta al bene comune di breve e lungo periodo. Bene comune che esigerebbe maggiore investimento nella scuola, ricerca, cultura e rispetto del territorio e dei beni comuni, maggiore “intransigenza” morale e politica. Rimane oramai sul piatto che ogni giorno mangiamo, che siamo incapaci di fare squadra di essere solidali e “Senza tutto questo non si esce dalla palude dei servi e degli accomodanti”! Non si sfugge al destino dei “camerieri e lâche”!
Aggiungo poi che per quella che risulta la mia esperienza in altri paesi non è necessario scegliere tra turismo e ricerca tecnologica ma le due cose possono convivere perfettamente insieme anche con molte sinergie…. soprattutto in quei paesi dove per loro grande fortuna possono permettersi di avere entrambe….. e in questo l`Italia potrebbe, volendo, competere benissimo!
Brava la Stazio e grazie Roars. Forse De Nicolao (grazie!) non ha perso del tutto il suo tempo a confutare il Romita perché di tali preconcetti, sostenuti su dati sballati, ne siamo fin troppo pieni.
L’affermazione finale del Romita “Le spese per tutte queste oltre 500 facoltà ‘poco frequentate’ non si potrebbero recuperare a favore delle Università vere” sia rivelatrice.
E mi scuso se dirò cose fin troppo note o ovvie alla redazione, ma il problema è proprio che i pregiudizi sull’università che continuano a circolare sia dentro che fuori, vanno giustamente confutati, anche se questo sottrae tempo prezioso.
Quel “poco frequentate” pare implicare che una “grande frequentazione” coincida a priori con un bene e una “bassa frequentazione” coincida a priori con un male.
Ora è esattamente questo tipo di logica neodarwinana, in chiave economica, a dover essere combattuta perché è alla radice di scelte di politica non solo universitaria che stanno devastando temo irreversibilmente il paese.
Anche senza considerare che le diverse discipline non possono essere valutate con la stessa metrica, o che la conoscenza procede anche grazie a pochi individui, è evidente che la logica del confronto grande/piccolo non può essere applicata in questo modo all’università, perché l’università non è un’azienda, ha una missione diversa e fondamentale (anche per le aziende), e imporvi tale tipo di logica porta a chiudere corsi di laurea, a frustrare ricercatori validi, a buttare i soldi già investiti in passato e naturalmente a danneggiare gli studenti, ossia il paese futuro.
Vi è poi un corrispettivo geografico di tale logica: il binomio centro-periferia. Seguendo lo stesso tipo di logica sarebbe bene tagliare il piccolo e periferico a favore del grande e centrale.
Così si ottiene un duplice danno: si perderanno i piccoli atenei periferici e si intaseranno ulteriormente quelli grandi e centrali, in un paese come il nostro dove metà della popolazione vive attualmente a più di due ore di treno dai nodi dell’alta velocità.
E il tutto naturalmente calato nella retorica dell’austerity.
Cara Marialuisa, ho apprezzato molto il tuo intervento. Per quanto mi riguarda, sono assolutamente consapevole che la ricerca scientifica è necessaria per conservare, tutelare e valorizzare il patrimonio artistico, storico, naturale. Ma (al di là di Zingales e altri), la Legge di Stabilità prevede uno stanziamento di 25milioni di euro per “contratti di sviluppo in ambito turistico” per il biennio 2014-2015, e 50milioni per il 2016.
Caro Guglielmo,
come spero di aver ben espresso sono assolutamente d’accordo con te su tutto, tranne che sul mettere in contrapposizione Università e turismo (ma potrebbe essere Università e…qualsiasi altro settore produttivo) Come è chiaro a tutti noi, in una politica sana e in un Paese ‘normale’, una buona Università è indispensabile allo sviluppo e alla crescita di ogni settore produttivo.
Sono contraria al contrapporre ciò che viene definanziato (nello specifico l’Università, ma potrebbero essere la Sanità, o la scuola) a quanto viene finanziato (turismo, ma potrebbero essere acquisto di armamenti, banche…) perché potrebbe essere fuorviante, e distogliere dal guardare al preciso disegno di impoverire il pubblico (qualsiasi settore pubblico, se ci pensi) finanziando soltanto quanto possa permettere al ‘privato’ di lucrare, magari usando soldi pubblici. Come dici tu, sono precise scelte politiche. Ma, ahinoi, ben più ampie che la questione fra turismo e università.
Che, poi, le politiche pubbliche in materia di turismo siano dissennate, che gli stanziamenti non rispondano a strategie o che, in generale, i nostri politici e amministratori non sappiano di cosa parlano e su cosa legiferano è cosa che mi pare abbastanza acclarata. Anche se fai sempre bene sottolinearla.
[…] Guglielmo Forges Davanzati, su «Micromega» del 15 novembre 2013, ha pubblicato un articolo dal titolo: “Più turismo, meno università“. Che la distruzione dell’università italiana corris… […]