Con questo articolo prosegue il dibattito sull’importanza della cultura umanistica  e il suo rapporto con i saperi scientifici, iniziato a proposito dell’appello pubblicato da Esposito, Della Loggia e Asor Rosa in cui si paventava un definanziamento e una emarginazione degli studi letterari ed umanistici. Con l’intervento di Gaspare Polizzi il discorso si allarga alle radici storiche di questo difficile rapporto. 

Redazione di Roars

 

L’articolo pubblicato su “Roars” il 17 dicembre 2013 – a proposito del “Manifesto” in difesa degli studi umanistici di Esposito, Galli della Loggia e Asor Rosa – da Francesco Coniglione mette in chiaro, con una ampia e documentata argomentazione, come la difesa degli studi umanistici sia giustificabile, ma parziale se non prende in considerazione la loro necessaria relazione con le scienze e la tecnologia, e la nuova centralità della “società della conoscenza”. Coniglione focalizza anche molto bene il carattere ‘italiano’ di tale discrasia, legato a “una compartimentalizzazione delle discipline in corsi di lauree caratterizzate dalla monocultura in un certo campo del sapere e dalla sempre maggiore specializzazione”. E propone per i saperi scientifici quel “pensiero divergente”, che solo può alimentare la vena creativa tanto degli scienziati, quanto dei letterati e degli artisti.

Per meglio considerare tale peculiarità italiana mi pare utile richiamare qualche aspetto della recente tradizione intellettuale, di quella storia degli intellettuali in Italia nel secolo scorso, tanto poco indagata nel suo insieme, quanto complessa e ricca di sfaccettature. E in particolare andrebbe descritta la presenza degli intellettuali di matrice scientifica nella storia della nostra cultura, per confrontarla con la storia culturale e politica italiana.

L’attuale carenza, se non mancanza, di una comunità scientifica nazionale e l’assenza di una classe dirigente composta anche da scienziati o connessa alla ricerca scientifica rinvia ad alcune  debolezze storiche italiane, prodottesi alla fine dell’Ottocento, quando ha prevalso un rapporto volontaristico tra la comunità scientifica e la struttura produttiva. Gli industriali non si interessavano di ricerca scientifica e gli scienziati non guardavano alle possibili connessioni delle loro ricerche con la tecnologia e con l’industria. In un recente incontro [1] Lucio Russo, a tal proposito, ha preso ad esempio il caso della nascita in Italia dell’industria elettrica. Da un lato si trovò Giuseppe Colombo, ingegnere convertitosi alla politica militante (fu anche Ministro delle Finanze nel 1891 e del Tesoro nel 1896), che comprese subito l’importanza industriale e produttiva delle ricerche di Thomas Alva Edison e favorì la costruzione dei primi nuclei dell’industria elettrica italiana con tecnici e brevetti provenienti dagli USA, dall’altro l’ingegnere Galileo Ferraris, inventore del primo motore elettrico asincrono e di ricerche che furono alla base di quelle di Edison, che però non brevettò il suo motore e lasciò così a Nikola Tesla e a Edison libero il campo per le applicazioni industriali. Russo ritrova casi simili anche nella chimica di fine Ottocento, con la disattenzione di Stanislao Cannizzaro, principale promotore dalla scuola chimica italiana alla fine del secolo, per l’industria chimica che nasceva parallelamente fuori dalle Università, e con la scoperta della nitroglicerina da parte di Ascanio Sobrero che, a differenza di Alfred Nobel, a lui debitore per la produzione della dinamite, non ne trasse nessuna applicazione industriale e nessun vantaggio pratico.

Vito Volterra (1860-1940)

Durante lo stesso incontro Angelo Guerraggio, autore, con Giovanni Paoloni, di una biografia di Vito Volterra (Muzzio ed., Roma 2008) e, con Pietro Nastasi, dell’accurata ricostruzione storiografica L’Italia degli scienziati. 150 anni di storia nazionale (Bruno Mondadori, Milano 2010), si è soffermato sul ruolo prevalente svolto dai matematici nella storia unitaria, innanzitutto nella battaglia politica che condusse all’unificazione nazionale e che contribuì allo sviluppo della scienza nei primi decenni del Regno d’Italia [2]. Guerraggio ha presentato in particolare la figura di Volterra, che esemplifica il difficile rapporto tra ricerca matematica e realtà politica italiana, soprattutto dopo l’avvento del fascismo. Volterra espresse da un lato la grande capacità dei matematici di inizio Novecento di costituire un riferimento scientifico e culturale complessivo, sviluppando un ruolo dirigente nella comunità scientifica italiana – basti ricordare la fondazione nel 1907 della SIPS (Società Italiana per il Progresso delle Scienze) e successivamente, nel 1923, la nascita del CNR – e mostrando come la matematica non sia solo calcolo, ma possa trovare importanti applicazioni (Volterra si dedicò molto all’economia e alla biologia), dall’altro testimoniò drammaticamente la contrapposizione di una parte, purtroppo piccola, della comunità scientifica con un regime fascista, che imponeva scelte ideologiche rigide: il matematico anconitano, già anziano, si rifiuterà coraggiosamente nel 1931 di giurare fedeltà al fascismo.

A queste riflessioni e ricerche aggiungerei il tentativo di dare una risposta all’interrogativo di matrice gramsciana sugli intellettuali scientifici come intellettuali ‘organici’ e la presentazione della figura di Federigo Enriques, come “case study” sul rapporto scienza, cultura, politica.

Sarebbe certo da segnalare quanto sia stata politicamente importante la presenza

Orso Maria Corbino (1879-1937)

 degli intellettuali scientifici nel Regno d’Italia, rappresentati con alcuni ministri – oltre al ricordato Colombo, anche il matematico Luigi Cremona, il fisiologo Carlo Matteucci e il fisico Orso Mario Corbino – e sottosegretari, come i matematici Francesco Brioschi ed Enrico Betti, e molti senatori, come Brioschi, Betti, Cremona, i fisici Giovanni Cantoni, Augusto Righi, Galileo Ferraris, Antonio Garbasso, Corbino, i chimici Raffaele Piria, Stanislao Cannizzaro, i fisiologi Matteucci, Jacob Moleschott, Giulio Bizzozero, Camillo Golgi. Richiamando qualche aspetto della teoria gramsciana degli intellettuali, proposta in passi degli Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura, raccolti nel Quaderno 11 del 1932/33, e nella classica definizione consegnata al Quaderno 19 del 1934/35, si può meglio comprendere il quadro nel quale andrebbe collocato il concetto di “intellettuale organico”, che si connette a quello di “intellettuale tradizionale”, sullo sfondo della crisi dello Stato-nazione. L’intellettuale ‘organico’ lo è rispetto all’imprenditore capitalistico nella sua funzione di economista, giurista e scienziato, e si configura come una ridefinizione dell’intellettuale tradizionale.

In questa prospettiva appare emblematico lo “studio di caso” sulla figura di Enriques. Il matematico livornese non è soltanto un matematico e un epistemologo di rilievo internazionale, ma anche il promotore di una politica culturale che vede nell’integrazione tra filosofia e scienza e nell’unità storica del sapere le basi per una riforma dell’insegnamento superiore e universitario. La sua iniziativa si espresse nella rivista «Scientia» e nella Società Filosofica Italiana, entrambe fondate nel 1906. Nello stesso anno Enriques instaurò un legame organico con la Casa editrice Zanichelli di Bologna, ispirandone molte scelte nel campo dell’editoria scientifica. In quegli anni la battaglia, nel breve termine perduta, di Enriques investì – in sintonia con quella di Volterra – la questione della funzione pubblica, pedagogica e culturale della scienza nella società in via di rapido sviluppo dell’Italia giolittiana e non trascurò una riflessione sul ruolo della politica e dei partiti nella nuova società democratica di massa.

Federigo Enriques (1871-1946)

Enriques fu l’ultimo protagonista della battaglia culturale, pedagogica e politica dei matematici e degli scienziati italiani, prima che la Grande Guerra portasse con sé, insieme alla distruzione e alla morte, il trionfo del nazionalismo, del populismo e della “mistica fascista”. Enriques combatté apertamente per la democrazia e per la cultura, non solo scientifica. Il matematico livornese individuò presto, nelle relazioni tenute nel 1906 e nel 1907 al primo e al secondo Congresso della Società Filosofica Italiana, che contribuì a fondare e diresse fino al 1913 (la storia della SFI è ancora da fare), il ruolo della scienza per la costruzione di una società democratica e intese proporlo nel momento in cui divenne centrale in Italia il problema della costruzione di un ordinamento didattico coerente con lo sviluppo della società di massa. Egli sostenne la via di una concreta unificazione del sapere su basi scientifiche, nella quale diventasse centrale il ruolo della storia e della filosofia della scienza. Da matematico, promosse una società di filosofia, che si distingue ancora per essere l’unica in Europa a riunire docenti universitari e liceali: la SFI è giunta al suo XXVIII Congresso (Catania, 31 ottobre – 2 novembre) e ha eletto a Presidente proprio Francesco Coniglione, storico della filosofia ed epistemologo.

Consapevole del ruolo civile della formazione scolastica e universitaria, Enriques giocò la sua battaglia per stabilire l’orientamento di fondo della politica scolastica in Italia, in contrasto con Benedetto Croce e Giovanni Gentile, un contrasto che investì – come ha ricordato Michele Ciliberto  (Scienza, filosofia e politica: Federigo Enriques e il neoidealismo italiano, in Federigo Enriques. Approssimazione e verità, a cura d O. Pompeo Faracovi, Belforte 1982) – il terreno stesso dell’egemonia, in senso gramsciano. Nel mutato ambiente post-bellico sul progetto di Enriques prevarrà, nel 1923, la riforma scolastica promossa da Gentile.

Enriques rivendicò con convinzione un ruolo democratico per la nuova filosofia della scienza; scrisse in una lettera del 9 febbraio 1908 a Giovanni Vailati, altra figura di matematico-filosofo impegnato nel medesimo progetto: «la battaglia contro le divisioni artificiali della scienza, mostra che, in questo caso, ‘democrazia’ non significa certo un concetto meno alto della scienza».

Una funzione significativa nella direzione del nesso scienza-democrazia svolse la rivista «Scientia», stampata a Bologna nel 1907 da Nicola Zanichelli sotto la direzione di Enriques e di Eugenio Rignano, ingegnere milanese. La rivista diffuse in Italia la più recente cultura scientifica internazionale e fu riconosciuta nei centri europei di filosofia della scienza. Vi collaborarono i matematici Vito Volterra, Giuseppe Peano, Guido Castelnuovo, Giovanni Vailati, Henri Poincaré, i fisici Enrico Fermi, Werner Heisenberg, Albert Einstein, i filosofi della scienza Bertrand Russell, Rudolf Carnap, Moritz Schlick. E vi scrisse anche Sigmund Freud.

Enriques integrò la sua visione di una scienza come elemento propulsivo della nascente democrazia con un’articolata riflessione sulla democrazia in Scienza e razionalismo (1912). La democrazia rappresenta per il matematico livornese il punto di arrivo dell’evoluzione istituzionale e va preferita per il suo equilibrio tra «aspirazione egualitaria» e «ambizione dei cittadini». Le forme della rappresentanza devono rispondere alla prima esigenza democratica: «creare gli organi capaci di formare e di esprimere la volontà generale». In una prospettiva democratica parlamentare è centrale la funzione dei partiti, «organi formativi della coscienza politica». Nei partiti Enriques ritrova la «funzione più alta del governo democratico», temperata da due «forze moderatrici che tendono ad impedire gli abusi del governo di partito»: la presenza di «un gruppo abbastanza numeroso di neutri che viene a decidere della vittoria»; la «possibilità pratica di governare» conciliando interessi di parte ed «esigenze del pubblico». «Il retto funzionamento delle democrazie parlamentari» si basa sulla selezione dei più idonei, confermata dal consenso dei ‘neutri’ e dalla pratica di governo. Il cattivo funzionamento della democrazia è invece dovuto al prevalere degli interessi di parte e alla riduzione dei partiti a strumenti di clientele e di ambizioni personali. Qualcuno oggi può smentire quest’analisi? In definitiva, Enriques propone «un governo democratico più o meno temperato», lanciando una scommessa sul futuro morale civile dell’Italia: «la democrazia più larga e più libera non crea ma suppone nel popolo la coscienza e l’aspirazione al progresso nazionale».

La concezione politica di Enriques espresse un secolo fa un’armonia nascosta tra filosofia, scienza e democrazia, a garanzia dello sviluppo culturale e civile dell’Italia. Una scommessa da rilanciare anche oggi, nella speranza – non saprei quanto fondata – che in Italia la politica e la cultura possano rigenerarsi.

 



[1] Mi riferisco alla tavola rotonda “Storia della scienza e Italia unita”, organizzata dalla “Biblioteca Filosofica” (sezione fiorentina della Società filosofica italiana) e dall’Istituto Gramsci Toscano in occasione della rassegna curata dalla Regione Toscana “Pianeta Galileo 2011”, tenutasi il 10 novembre 2011 nel complesso di Santa Maria della Scala di Siena. Cfr. il mio resoconto sul sito www.scienzainrete.it all’indirizzo  http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/rapporto-incrinato-fra-scienzati-e-societa-italia.

[2] Su questo tema vedi ora anche il volume di Umberto Bottazzini e Pietro Nastasi La patria ci vuole eroi. Matematici e vita politica nell’Italia del Risorgimento, Zanichelli, Bologna 2013.

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