Roars con questo articolo intende portare il proprio contributo al dibattito sull’importanza della cultura umanistica e sui rischi che si corrono con un suo definanziamento; e questo non nell’ottica della svalutazione della cultura scientifica, ma piuttosto nella convinzione di una loro reciproca e necessaria fecondazione. Si apre pertanto un discorso – le cui coordinate di fondo sono poste nell’articolo qui pubblicato – che abbiamo intenzione di proseguire con ulteriori approfondimenti e contributi.
Redazione di Roars
A proposito del “Manifesto” in difesa degli studi umanistici di Esposito, Galli della Loggia e Asor Rosa
L’appello per gli studi umanistici scritto da Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia e Alberto Asor Rosa (pubblicato sull’ultimo numero de Il Mulino, e che ora sta circolando come documento tra le società scientifiche per sollecitare una vasta adesione da parte della comunità degli studiosi) giunge opportuno per richiamare l’attenzione della cultura italiana (non oso sperare in quella dei politici) sul deperimento che sta subendo da alcuni decenni un settore della cultura e della ricerca italiana che sinora ha rappresentato un asse portante dell’identità culturale della nazione. E in effetti si mette giustamente nella dovuta luce come grazie a questa specifica cultura – e non a quella scientifico-tecnica, di per sé universalizzante e quindi meno legata alle specifiche storie nazionali – venga ad edificarsi il senso civile e l’identità di una nazione, che altrimenti andrebbe smarrito insieme alla memoria del proprio passato e alle motivazioni che hanno fatto essere l’oggi quello che è. Considerazioni tutte da condividere, specie quando si rivolgono a stigmatizzare le più recenti tendenze espresse nell’ambito della politica universitaria, dove il concetto di valutazione – e le connesse procedure messe in atto dall’Anvur – hanno finito per mortificare la specificità della cultura umanistica; tendenze nella sostanza cablate su modelli procedurali tratti dalle scienze ingegneristiche e tecniche. E a ciò ha fatto da controcanto una generale svalutazione della conoscenza umanistica in quanto con essa “non si mangia”, ovvero non è foriera di quello sviluppo tecnologico ed economico cui anche la ricerca scientifica dovrebbe essere piegata.
Eppure questo discorso mi pare che colga solo metà del problema: esso si concentra sull’importanza delle scienze umanistiche in quanto tali, cioè in quanto cultura e formazione della coscienza civile e del tessuto sociale di una nazione, in quanto “attività dello spirito”, di per sé da coltivare, perché la loro valenza e significato consiste nel fornire all’uomo in genere la possibilità di dare senso alla propria esistenza, di cogliere il proprio posto nel mondo, di rispondere ai suoi interrogativi vitali ed esistenziali non immediatamente legati alla sfera riproduttiva (in senso lato), di farlo diventare ‘migliore’ (è anche il tema del recente bel libro di Nuccio Ordine sull’Utilità dell’inutile, Bompiani 2013, su cui avremo modo di tornare). È una ricerca di senso testimoniata da manifestazioni di successo in cui anche le discipline umanistiche dimostrano di ricevere un’attenzione e una partecipazione di pubblico inaspettata e significativa. Il gran numero di persone che accorrono ai festival di letteratura e di filosofia – che non sono certo tutti letterati, ma comprendono anche gente provenienti da professioni e attività in cui le scienze umane non sono praticate quotidianamente – testimonia di un bisogno, di un’esigenza di formazione e di perfezionamento ‘interiore’ o umana che non può essere soddisfatta da una mera attività di tipo tecnico o applicativo.
Ma – dicevo – questo discorso risulta monco, incompleto e per ciò stesso depotenziato nella sua capacità di cogliere in modo radicale il problema nella sua interezza, che non è solo quello del valore in sé della cultura umanistica, cioè di un discorso fatto dagli umanisti – dai filosofi, dai letterati, dagli storici – in difesa del proprio sapere o della propria categoria, in modo da preservare un territorio che si restringe sempre più: in spazi istituzionali (nelle università e nelle scuole) e in finanziamenti per la riccerca, sino al dileggio per la loro inutilità, come ha recentemente fatto il premier australiano: a che serve infatti una ricerca su “Il concetto di Dio nell’idealismo post-kantiano di Hegel”? [1]. Fa forse aumentare il Pil di un paese? Introduce nuove tecnologie nella produzione di microchip?
Mi sembra, in sostanza che sia un discorso parziale perché non prende in considerazione quella necessaria relazione che la cultura umanistica ha sempre avuto proprio con le scienze e la stessa tecnologia e perché non coglie affatto il significato di quella “società della conoscenza” che si va affermando sempre più su scala globale e la cui implementazione è – almeno a livello verbale – nelle intenzioni della nostra classe politica. E cominciamo proprio da quest’ultimo punto, per cercare poi di articolare anche l’altro.
1. Come ho già scritto altrove [2], la società della conoscenza nasce dalla consapevolezza sempre più diffusa della rilevanza crescente nella produzione dei beni economici assunta dalla scienza, per cui si parla più nello specifico di “economia della conoscenza”, caratterizzata dall’alta intensità di sapere immesso nei prodotti e nelle merci e dall’importanza sempre crescente del cosiddetto “capitale intangibile”. Nell’economia della conoscenza si ha infatti uno passaggio dall’importanza che gli input di carattere materiale hanno nei processi produttivi a quella assunta dagli input simbolici. E ciò in un duplice senso: come economia che incorpora sempre più conoscenza nei prodotti immessi sul mercato – sicché può esser affermato che oggi noi compriamo “sapere congelato” (è stato calcolato che il contenuto di conoscenza scientifica e ingegneristica dei prodotti industriali era di circa il 5% nel 1945, del 16% nel 2004, per arrivare a una previsione di circa il 20% nel 2020) [3]; e come economia in cui la conoscenza diventa progressivamente una merce, per cui l’attività economica è rappresentata in misura crescente dalla produzione e dal consumo di informazioni, ovvero da una produzione di informazione in forma di merce.
L’origine di questa epocale trasformazione economica è comunemente individuata negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, in conseguenza del grande sforzo effettuato a seguito della competizione tecnologica con l’Unione Sovietica, quando il governo americano comprese l’importanza di investire in R&S per la sicurezza nazionale e per il primato economico e militare sulle altre nazioni. In questo contesto si inserisce l’azione dell’ingegnere elettrico Vannevar Bush, al quale fu affidato dal presidente Roosevelt con una famosa lettera del 17 novembre del 1944, l’incarico di fornire ‘raccomandazioni’ su come il governo federale avrebbe potuto incoraggiare lo sviluppo della ricerca nelle istituzioni pubbliche e private. Era in pratica un invito a presentare un piano per il sostegno pubblico alla ricerca universitaria. Lo storico rapporto scritto da Bush – Science The Endless Frontier (luglio 1945) – andò ben oltre le aspettative del presidente Roosevelt, in quanto non offrì solo delle soluzioni contingenti rispetto agli obiettivi specifici da lui indicati, ma «costituisce un’ampia ed attentamente ragionata giustificazione del ruolo chiave rivestito dalla scienza di base» [4] e, in particolare, dalla ricerca effettuata in college, università ed istituti di ricerca, ritenuta fondamentale per lo sviluppo economico, sociale e democratico del paese. Non ci interessa qui esaminare le conseguenze che questo rapporto ha avuto sulla politica della scienza degli Stati Uniti; ci basti solo osservare che fu dietro suo impulso che si ebbe lo straordinario sforzo che portò all’eccellenza le università americane e permise al paese di diventare leader nelle tencologie più avanzate.
Ad essere rilevanti – ai fini del nostro discorso – sono due punti, che poi strettamente si interlacciano e interessano il discorso che qui vogliamo fare. Innanzi tutto la tesi che il sostegno alla ricerca scientifica passa innanzi tutto per lo sviluppo della ricerca di base finanziata dal governo federale, in quanto Bush era ben consapevole che le industrie e l’apparato produttivo erano troppo legati all’immediato ritorno in profitto degli investimenti per effettuare piani di finanziamento di lungo periodo, dagli esiti incerti. E senza ricerca di base, la possibilità dello sviluppo tecnologico si inaridisce e finisce per disseccarsi. Come Bush scrive efficacemente nel suo rapporto, «la ricerca è l’esplorazione dell’ignoto ed è necessariamente speculativa. Essa è inibita dagli approcci, dalle tradizioni e dagli standards convenzionali. Non può essere condotta in modo soddisfacente in un’atmosfera dove è monitorata e controllata dai nostri standard produttivi. La ricerca scientifica di base non dovrebbe, pertanto, essere sottoposta al controllo di una agenzia operativa il cui interesse complessivo non sia esclusivamente quello della ricerca. La ricerca soffrirà sempre dall’essere messa in competizione con le esigenze operative» [5]. E ciò nella consapevolezza della imprevedibilità dei risultati e della inevitabilità di una certa dispersione di fondi: «Una delle peculiarità della scienza di base è la varietà di percorsi che portano a uno sviluppo produttivo. Molte delle più importanti scoperte sono arrivate come risultato di esperimenti intrapresi avendo in mente scopi molto differenti. Statisticamente è certo che scoperte importanti e altamente utili risulteranno solo da una frazione di iniziative della scienza di base; ma i risultati di qualsivoglia particolare indagine non possono essere predetti con accuratezza» [6].
In secondo luogo, in Bush – pur nel contesto di un discorso tutto dedicato all’importanza della cultura scientifica e molto segnato da preoccupazioni di natura militare – emerge la consapevolezza che la ricerca di base e lo sviluppo della scienza sarebbe impossibile senza una interazione con le scienze umane e sociali. In modo inequivoco e straordinariamente attuale egli fa un avvertimento (“A Note of Warning”): «sarebbe una follia intraprendere un programma nel quale la ricerca nelle scienze naturali e in medicina fosse estesa a discapito delle scienze sociali, di quelle umane e di altri studi così essenziali al benessere nazionale» [7]. Non solo, ma nel rapporto del comitato per la scoperta e lo sviluppo dei nuovi talenti scientifici (uno dei comitati creati da Bush per contribuire alla redazione del rapporto complessivo), diretto da H.A. Moe, si sottolinea l’importanza delle scienze umane affinché le stesse scienze naturali possano svilupparsi: una sproporzione negli investimenti a favore di queste ultime non solo sarebbe di danno alla nazione, ma “azzopperebbe” la stessa scienza, in quanto «Science cannot live by and unto itself alone» [8]. Infine Bush esprime la ferma convinzione del carattere unitario della ricerca, per cui una eccessiva specializzazione e separazione degli scienziati in compartimenti stagni è ritenuta assai dannosa: «la separazione delle scienze in ristrette compartimentazioni […] ritarderebbe piuttosto che far avanzare la conoscenza scientifica nel suo complesso» [9].
Come si vede, alla base del programma che inaugurò la società della conoscenza negli Stati Uniti v’è una convinzione di fondo: l’importanza della ricerca di base e la consapevolezza della sua “natura speculativa”, motivata solo dalla curiosità degli scienziati e non immediatamente subordinata alle esigenze produttive; ma accanto ad essa, e nonostante non sia questo il tema principale del rapporto di Bush, v’è anche l’idea della fruttuosità della interazione tra ricerca scientifica di base e scienze umane, che ha una sua concreta forma di attuazione in quell’originale ordinamento delle università americane che porta alla ‘graduation’ mediante due percorsi: il major, che è finalizzato alla specializzazione prevalente dello studente e il minor che può concernere altre discipline di natura diversa, sicché alla fine è possibile che uno studente sia laureato (‘graduate’) in, mettiamo, “fisica (major) e filosofia (minor)” o “archeologia e informatica”, e così via. Questa caratterizzazione – che ancora informa l’ordinamento universitario americano – è proprio il contrario di quanto si sta facendo e si è fatto in Italia: una compartimentalizzazione delle discipline in corsi di lauree caratterizzate dalla monocultura in un certo campo del sapere e dalla sempre maggiore specializzazione; e la pretesa di indirizzare la ricerca quasi esclusivamente a fini applicativi, anche nelle cosiddette scienze ‘dure’, sacrificando quella di base e quindi il loro versante ‘speculativo’, dettato dalla mera ‘curiosità’ degli scienziati.
2. Quanto detto ci porta a un discorso più complesso e più delicato, di cui oggi v’è una scarsa consapevolezza, anche se in passato non è stato così. Donde nasce, infatti la creatività, cioè la capacità di percorrere nuove strade, di inventare nuove teorie, di produrre quindi innovazione e ricerca non meramente ripetitiva o applicativa di cose già note? Insomma, donde nasce l’impulso per quella scienza ‘straordinaria’ che vada al di là dei ‘paradigmi’ consolidati, per usare una immagine invalsa nella letteratura epistemologica, dopo Kuhn?
Un sociologo americano, che ha avuto anche una discreta notorietà in Italia, Richard Florida, ha pubblicato numerosi studi (ad es. sulla Silicon Valley) in cui ha sostenuto che la creatività e l’innovazione sono maggiormente stimolate nelle regioni ricche di culture differenti: esiste infatti una correlazione positiva tra alti indici di sviluppo economico e tessuto sociale in cui esistano tolleranza, capacità di rottura delle convenzioni, apertura mentale. Come dice Florida, le aree di più intenso sviluppo, specie nell’high-tech, sono contraddistinte da alta qualità della vita, da ridotta diseguaglianza sociale e da assenza di discriminazione razziale. Un altro elemento decisivo per la creatività è la presenza di interessi culturali diversi e variegati, sicché egli ha proposto il cosiddetto “bohemian index”, «per misurare il numero di scrittori, designer, musicisti, attori, registi, pittori, scultori, fotografi, e ballerini in una regione». La sua tesi è che molte delle regioni che possiedono un alto “bohemian index” manifestano anche una concentrazione di industrie high-tech e un incremento della popolazione e dell’occupazione [10].
A sostegno della tesi di Florida è giunto anche un report del 2008 delle Nazioni Unite sulla Creative economy, in cui è evidenziata la nascita di un nuovo “paradigma di sviluppo”, che collega l’economia e la cultura, abbracciando l’aspetto economico, culturale, tecnologico e sociale dello sviluppo sia a livello macro che micro. Al centro del nuovo paradigma è il fatto che la creatività, la conoscenza e l’accesso alle informazioni sono sempre più riconosciuti come potenti motori trainanti della crescita economica, promuovendo lo sviluppo in un mondo globalizzato [11]. La “creative economy” è quindi un concetto olistico che comporta uno slittamento di accento dai modelli convenzionali ad uno multidisciplinare, che costituisca l’interfaccia fra economia, cultura e tecnologia e sia centrato sul rilievo dato ai servizi e ai contenuti creativi.
Ancora più recente è lo studio sull’importanza della cultura per la creatività effettuato dal KEA, un gruppo di ricerca di Bruxelles diretto da Philippe Kern e specializzato dal 1998 nel settore dell’industria creativa, che spesso compie ricerche per conto della Commissione Europea. Ebbene, esso sottolinea l’importanza della cultura in generale – intendendo con essa la musica, le arti visive, il cinema, la poesia – quale «motore di innovazione economica e sociale» [12]. Tale studio denunzia la scarsa considerazione del ruolo del settore creativo non legato alla R&S, che porta ad avallare l’idea assai diffusa per la quale arti e cultura siano più degli ‘ornamenti’ della vita umana che dei fattori essenziali alla sua crescita e al suo sviluppo; sono degli spazi ‘ricreativi’ utili a riposare la mente o a interrompere il lavoro e le attività veramente indispensabili con forme diverse di ‘intrattenimento’, per cui sono marginali in termini economici o addirittura settori in perdita, che abbisognano dell’intervento pubblico allo stesso modo di come la salute deve essere garantita dallo stato. Non solo, ma il KEA pone l’accento su «[…] come la cultura promuova l’integrazione europea e sia uno strumento chiave per integrare le varie componenti delle società europee in tutte le loro diversità, per forgiare il senso di appartenenza, nonché per diffondere valori democratici e sociali. La cultura può contribuire a ‘sedurre’ i cittadini europei all’idea di integrazione europea» [13].
È ai fini del discorso che intendiamo svolgere qui di particolare importanza il fatto che nei vari rapporti pubblicati dal KEA venga sottolineata l’importanza che hanno le cosiddette discipline umanistiche. Non è infatti possibile una efficace politica per l’innovazione e la crescita economica se si mette da parte questo ricco patrimonio che è il deposito della cultura umana, il frutto della sua creatività secolare: «La creatività basata sulla cultura è un potente strumento di rovesciamento delle norme e delle convenzioni che permette di emergere nel mezzo di una intensa competizione economica. Le persone creative e gli artisti sono essenziali perché sviluppano le idee, le metafore e i messaggi che aiutano a guidare le interazioni e le esperienze sociali. Il successo di Apple è intrinsecamente legato alla visione del fondatore per la quale la tecnologia, il marketing e le vendite da soli non sono sufficienti a garantire il successo aziendale. Un fattore chiave è quello di avere persone che credono fortemente nei valori dell’azienda e che si identificano con essa quali creatori e innovatori – la campagna pubblicitaria “Think different” che ha utilizzato Picasso, Einstein, Gandhi è stata descritta da Steve Jobs come un modo per la società di ricordare chi sono gli eroi e chi è Apple. Apple è riuscita a creare quell’empatia verso la tecnologia che altre aziende tecnologiche non sono riuscite a procurare. L’estetica della gamma dei prodotti, attraverso un design innovativo, è stato anche all’origine del successo» [14].
Non è un caso che gli “ambasciatori dell’anno creativo”, lanciato dall’ EU nel 2009, abbiano ritenuto importante sottolineare il ruolo decisivo dell’arte in stretta connessione con la filosofia e la scienza [15]. Infatti i saperi scientifici, se vogliono alimentare la propria vena creativa, dovrebbero attingere la forma mentis corretta da quelle discipline che si sono distinte nel “pensiero divergente”. E non è un mero caso che la Finlandia – uno dei paesi che negli ultimi anni si è affermato per la sua maggior capacità innovativa scalando i vertici dei ranking mondiali ed europei – abbia operato un progressivo riorientamento, passando «dalla innovazione guidata dalla tecnologia verso una innovazione più centrata sull’uomo» [16].
Ma basta scorrere un po’ la letteratura sulla società della conoscenza, sui problemi dell’innovazione, sulla creatività e così via, per avere una chiara consapevolezza di quanto sia importante l’interazione tra scienze umane e scienze naturali di base. Per cui, se è vero che le industrie ad alta intensità di conoscenza rappresentano sicuramente un importante motore di sviluppo nella società della conoscenza, tuttavia non è possibile pensare che l’economia creativa sia solo un loro appannaggio, cioè una questione da risolvere all’interno del settore produttivo. È indispensabile porre anche l’accento sul contesto formativo e di istruzione nel quale la persona è inserita, che costituisce (insieme alla competenza tecnica e alle capacità personali) uno degli elementi fondamentali affinché essa possa aver luogo.
3. Del resto anche una riflessione di carattere storico sullo sviluppo della cultura umana e della scienza non può che confermare questa stretta interrelazione. E di essa i grandi scienziati ne hanno avuto sempre consapevolezza. Ad es. Werner Heisenberg ha più volte sottolineato lo stretto nesso tra fisica e filosofia e come «certi sviluppi erronei nella teorie delle particelle elementari […] dipendano dal fatto che i loro autori sostengono di non volere occuparsi di filosofia, mentre in realtà partono inconsapevolmente da una scadente filosofia e quindi, a causa di pregiudizi, cadono in domande prive di significato. Esagerando un po’ si può forse affermare che la buona fisica è stata involontariamente corrotta dalla cattiva filosofia» [17]. Ma con lui, tutta la grande generazione dei fisici che hanno edificato la scienza contemporanea ha di ciò avuto profonda consapevolezza; essi erano lungi dal coltivare in modo monomaniaco i propri interessi di fisica, ma cercavano di trarre ispirazione da concetti e prospettive più ampie, ad es. frequentando anche i corsi di filosofia durante la propria formazione accademica (nelle università tedesche di stampo humboldtiano del ’900 ciò era possibile).
Non parliamo di un passato archeologico, ormai definitivamente tramontato; tale consapevolezza è anche presente nelle odierne ricerche di punta. Ad es. il fisico statunitense Lee Smolin, discutendo di quello che a suo avviso è il fiasco rappresentato dalla teoria delle stringhe (e della fisica dagli anni ’80 in poi), afferma: «I think the problem is not string theory, per se. It goes deeper, to a whole methodology and style of research. The great physicists of the beginning of the 20th century – Einstein, Bohr, Mach, Boltzmann, Poincaré, Schrodinger, Heisenberg – thought of theoretical physics as a philosophical endeavor. They were motivated by philosophical problems, and they often discussed their scientific problems in the light of a philosophical tradition in which they were at home. For them, calculations were secondary to a deepening of their conceptual understanding of nature. After the success of quantum mechanics in the 1920s, this philosophical way of doing theoretical physics gradually lost out to a more pragmatic, hard-nosed style of research. […] It was felt that while a philosophical approach may have been necessary to invent quantum theory and relativity, thereafter the need was for physicists who could work pragmatically, ignore the foundational problems, accept quantum mechanics as given, and go on to use it» [18]. E il fisico giapponese Michiu Kaku ha recentemente sottolineato come sia stato l’utilizzo dei testi filosofici di Hegel ed Engels da parte del gruppo di fisici giapponesi intorno a Shoichi Sakata a suggerire loro la teoria della materia come un insieme infinito di sottolivelli o mondi dentro mondi (teoria a cipolla) [19].
Anche in questo campo gli esempi potrebbero essere moltiplicati a dismisura, per cui evitiamo di insistere ulteriormente, rinviando all’ampia letteratura esistente in merito. Ciò che invece vale la pena di osservare è che questo processo di interazione non deve essere considerato in modo unidirezionale, come un guadagno che le scienze naturali acquisiscono dalla loro fecondazione con quelle umane. Infatti vale anche il contrario e vi sono stati parimenti filosofi e umanisti che in vari momenti storici lo hanno sottolineato. Per restare alla cultura italiana, basti pensare a come Giovanni Vailati già all’inizio del ’900 avesse ritenuto impossibile «che la filosofia possa essere coltivata con profitto e con decoro da chi non sia stato prima assoggettato a una severa disciplina scientifica e non si sia personalmente esercitato in qualche speciale indagine positiva» [20]. Un’idea condivisa anche dal marxista Antonio Labriola, in favore dell’integrazione nello studio universitario tra discipline scientifiche e filosofiche, in quanto lo studio meramente letterario e filologico della filosofia porta al suo decadimento e ad esser preda delle ‘razzie’ pseudoscientifiche di filosofi digiuni di scienza. Una tematica che è stata in tempi più recenti uno dei cavalli di battaglia di Ludovico Geymonat e di molti altri filosofi e scienziati italiani.
Ma in Italia ha prevalso – più che in altri paesi – una cultura della separazione, l’idea che la commistione dei linguaggi fosse nociva sia agli umanisti che agli scienziati: la filosofia (ma questo discorso si potrebbe estendere facilmente anche alle altre scienze umanistiche) doveva essere insegnata solo nelle facoltà di lettere e doveva essere tenuta distinta dalla scienza in modo netto, perché essa aveva una sua peculiarità (la “coltivazione dell’anima”) e una vocazione al sapere dalla quale si riteneva fossero escluse le scienze naturali e sperimentali (la chiusura del fascismo e l’egemonia della cultura umanistica di impianto crociano e gentiliano non sono state irrilevanti per questo esito). E da parte loro gli scienziati – anche per preservare la propria autonomia dalle possibili invasioni di campo dell’ideologia, specie durante il fascismo e nel fosco periodo dello stalinismo culturale (non si dimentichi il caso Lysenko) – si sono rinserrati nel loro specialismo, ritenendo tutte le altre discipline un coacervo di chiacchiere retoriche che poco o nulla potevano insegnare allo scienziato pensoso sui propri apparati tecnici. E così allo scienziato non restava poi che cercare delle compensazioni alla ‘aridità’ del proprio lavoro al di fuori del laboratorio, quando ne chiudeva le porte alle proprie spalle: andando a sentire un concerto, godendosi di una rappresentazione teatrale, leggendo un romanzo e immergendosi nella letteratura di qualche classico dell’antica romanità o grecità. Per contro l’umanista – del tutto digiuno di qualsiasi competenza tecnica e scientifica – poteva accedere alle mirabolanti scoperte dalla scienza attraverso la letteratura divulgativa e spesso sensazionalistica o poteva cercare uno suo paradossale surrogato tra le pagine della Settimana Enigmistica.
Sicché il pericolo oggi viene da due opposte retoriche: quella ‘umanistecciante’ e quella ‘scientizzante’. Per la prima esistono problemi e ambiti dell’umano per le quali la scienza non solo non potrà mai fornire risposte, ma la cui conoscenza si dimostra del tutto inutile all’operare del filosofo e dell’umanista, che nulla ha da apprendere da essa se non un’arida tecnica priva di spessore significativo; perché – si sa – le scienze “non pensano”, secondo la famosa affermazione di Heidegger. Per la seconda retorica, invece, la scienza nel corso del suo progresso non solo sarà in grado di rispondere a tutti i problemi dell’uomo, ma anzi farà questo tanto meglio quanto più non si lascia inquinare dalle scienze umane e dalle loro connesse ‘ideologie’, che nulla hanno da apportare di positivo se non confondere le teste con una massa di chiacchiere prive di rigore e di metodo.
4. Si capisce allora, dopo quanto detto, dove sia la parzialità (ma non la inesattezza) di un Manifesto quale quello firmato dai tre illustri studiosi: esso trascura il fatto che le scienze umane non sono solo importanti di per sé, in quanto ‘cultura’, e per i loro riflessi che hanno sul tessuto civile di un paese – aspetto sacrosanto e che non voglio qui mettere in dubbio; ma ancora più sono importanti per la stessa scienza e per lo sviluppo tecnologico di quella società della conoscenza che si vorrebbe – almeno a parole – promuovere: recidendo l’albero della cultura umanistica, la scienza fa cadere l’appoggio sul quale essa stessa è assisa, perché solo da un più ampio contesto di idee, da un mischiarsi di linguaggi e prospettive, da un intersecarsi di competenze, può trarre alimento quella creatività, si possono formare quelle menti aperte e plastiche che conducono all’innovazione e all’invenzione scientifica e quindi al progresso economico della medesima società della conoscenza.
Se si trascura tutto ciò, se si perde la consapevolezza di questa indispensabile e reciproca integrazione si finirà – da un lato – per essere filosofi e umanisti che si autoelidono da quei territori della conoscenza in cui dimostrano la loro efficacia e validità le scienze, nella loro accezione più ampia, così insterilendosi in una vacua coltivazione di meri discorsi su un “mondo di carta”, come avrebbe detto Galilei, dando quindi quell’impressione di inutilità e inclinazione alla retorica loro rimproverata; ma si finirebbe anche per essere – dall’altro lato – scienziati che, inconsapevoli di come la propria pratica e le proprie visioni del mondo affondino le loro radici in un contesto più ampio segnato dalle scienze umane e filosofiche, corrono il rischio di diventare ciechi consumatori delle filosofie alla moda e di cattivi saperi umanistici; o, peggio, credono di fare scienza laddove invece non fanno che riciclare o riproporre, con la spocchia di chi scopre il vero sapere, l’acqua calda già lungamente utilizzata e dibattuta nei saperi da loro disprezzati.
Un esempio paradigmatico di quanto può accadere in questo caso ci può essere fornito dall’illustre e molto mass-mediatico matematico Piergiorgio Odifreddi che tempo fa nel suo blog – nel criticare le lamentele degli umanisti per la non inclusione nel Consiglio direttivo dell’Anvur, l’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca, di rappresentanti delle proprie aree – ha fatto una tirata contro le scienze umane, contro le lingue morte (che appunto in quanto defunte a che serve ancora studiarle?), e contro la lobby umanistica nella scuola che, insieme alla cultura da essa rappresentata, «sta per finire inesorabilmente nel “cestino dei rifiuti della storia”» [21]. Un esempio tipico di cecità concettuale, questo. Infatti viene spontaneo domandarsi: quando Odifreddi scrive i suoi libri su argomenti non strettamente scientifici, tanto apprezzati e venduti, li riempie forse di simboli matematici e di formule? Sfogliamo ad esempio il suo Il Vangelo secondo la Scienza; scopriamo innanzi tutto che non vi sono formule matematiche, né leggi scientifiche o teoremi logici; constatiamo anche che tutte le sue argomentazioni fanno uso di studi e libri che appartengono alla tanto disprezzata tradizione umanista: ricerche di storia, di filosofia, di religione, di antropologia; sono citati Jung, Jean Guitton, il Dalai Lama, Dante, Kant e così via. Non mi risulta che siano utilizzati i teoremi e i risultati di Euclide, di Eudosso o di Hilbert per sostenere le tesi che stanno care a Odifreddi. Si veda ancora l’altro suo libro Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici): in esergo citazioni di Diderot e Saramago; quindi tutta l’argomentazione è costituita da una analisi storico-esegetica della Bibbia, che si appoggia alla letteratura critica su di essa. Anche qui niente formule né leggi scientifiche.
Che ‘mestiere’ dunque fa Odifreddi (o meglio, scimmiotta), quando scrive questi suoi volumi, se non quello dell’umanista? Di quale cultura si serve per sostenere le proprie tesi se non di quella umanista? Che tipo di argomentazione utilizza se non quella propria di ogni opera avente carattere umanistico? È appunto questo il destino di tutti gli scienziati miopi, degli ingegneri e dei tecnocrati ciechi: la filosofia e la cultura umanista si vendicano di loro, perché quando ambiscono di uscire fuori dallo specialismo rinserrato nelle formule e nel linguaggio tecnico specializzato e vogliono rivolgersi all’uomo in generale, e non al proprio collega di laboratorio, per discutere di tematiche che fuoriescono del loro esclusivo campo di ricerca, allora non possono far a meno di diventare filosofi, letterati, storici o antropologi; insomma non possono fare a meno di immergersi nella cultura umanista, attingendo da essa tesi, riflessioni, inflessioni di pensiero, stili argomentativi. È la vendetta di Giovanni Gentile, quando ammoniva: «[…] ogni uomo, lo scienziato compreso, è filosofo [ed] anche dal puro matematico, prima o poi si vedrà scappar fuori il filosofo. Intanto si abbia pazienza: calcoli egli e costruisca e si dilunghi come pare, dalla filosofia. Questa può aspettare, non ha fretta».
Ma anche senza indulgere in posizioni neoidealiste (per le quali la scienza è tout-court assorbita nella filosofia), è a mio avviso innegabile che solo la cultura umanistica è in grado di fornire un significato all’opera specialistica della scienza, non in quanto la sostituisce, ma perché la immette nel complesso della cultura umana, senza la quale non resterebbero che monconi di sapere privi di connessione e senza valore, incapaci di fruttificare e di incidere veramente sul destino dell’uomo. I grandi scienziati, come abbiamo visto, questo lo sanno bene. Solo i praticoni, gli apprendisti stregoni della tecnologia, i divulgatori scientisti, ciechi e abbacinati dalla supponenza per la propria eccellenza, dalla pretesa di essere i soli produttori di cultura ‘utile’, solo essi sono ignari di tutto ciò e propongono alla classe politica una visione del sapere che quest’ultima – a sua volta sempre più digiuna di ogni cultura, scientifica come anche umanistica o addirittura politica – finisce per far propria e su di essa orientare la politica della ricerca in tutti i campi, umanistici e scientifici. Ma costoro non sono né grandi scienziati né grandi politici: sono, ciascuno nel proprio campo, una ulteriore e forse terminale incarnazione di quel plebeismo cognitivo dell’Italia di oggi che sta per portare alla sua espulsione non solo dalla società della conoscenza, ma da ogni dominio culturale, visto che anche i suoi patrimoni cognitivi più celebrati e ammirati (si pensi solo al caso di Pompei), frutto di lunghi secoli di accumulo, vengono ormai sempre più dissipati nell’incuria e nell’indifferenza.
5. La rinascita della cultura e della ricerca in Italia non necessita di egoismi disciplinari, di discorsi alla “Cicero pro domo sua”, di esaltazione della indispensabilità di un settore a scapito di un altro; ha piuttosto bisogno di una visione del sapere più articolata, più complessiva, più adeguata alla sfida che la globalizzazione e i nuovi tempi pongono; una visione in cui i linguaggi specialistici abbiano la possibilità di interagire in tutta la loro ricchezza e molteplicità, in modo da reciprocamente fecondarsi, e in cui lo scienziato possa trovare ancora nutrimento nel leggere la Metafisica di Aristotele, La Repubblica di Platone o anche Verità e metodo di Gadamer e la Divina Commedia di Dante; in cui anche l’umanista possa apprezzare il rigore e la bellezza di un teorema matematico e quindi sia in grado di capire l’austero linguaggio dell’analisi e della logica, apprendendone lo stile di pensiero e il rigore, e così coltivando quell’amore per la precisione e la conseguenzialità che lo liberino dai discorsi fumosi e vaghi, retorici e fatui. Non è necessario essere specialisti in tutto, l’importante è, come in musica, “acquisire l’orecchio” e quindi essere in grado di intendere ed apprezzare la ‘musica’ suonata dagli altri. Perché solo ascoltando musiche diverse, interpretate da molti direttori d’orchestra, la mente umana sarà spinta alla creatività e potrà concepire quelle idee nuove e feconde che possono ancora aiutare l’umanità a superare quei problemi per i quali non bastano una tecnica disumanizzata o una cultura umanistica senza alcuna cognizione scientifica. E dove può tutto questo trovare il proprio luogo naturale se non nelle istituzioni educative, nei licei e soprattutto nelle università?
[1] Cfr. E. Delany, “Humanities Studies Under Strain Around the Globe”, The New York Times, 1 dicembre 2013.
[2] Cfr. F. Coniglione, Maledetta università. Fantasie e realtà sul sistema della ricerca in Italia, Di Girolamo, Trapani 2011. Ma una più articolata e complessiva esposizione dei temi legati alla società della conoscenza e a quanto è necessario per la sua implementazione in Europa la si può trovare nella ricerca effettuata per la Commissione europea: F. Coniglione et al., Through The Mirrors of Science, New Challenges for Knowledge-based Societies, Ontos Verlag, Heusenstamm 2010 (ed. it. Scienza e società nell’Europa della conoscenza. Nuovi saperi, epistemologia e politica della scienza per il terzo millennio, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2010).
[3] Cfr. Manufuture High Level Group, A Vision for 2020, European Commission, Luxembourg 2004, p. 13.
[4] R.L. Geiger, Research and Relevant Knowledge. American Research Universities Since World War II, Oxford University Press, New York and Oxford 1993, p. 15. Il rapporto di Bush è stato ora pubblicato in italiano con un’ampia e accurata introduzione di Pietro Greco: V. Bush, Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita, introd. di P. Greco, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
[5] Bush, Science the Endless Frontier, National Science Foundation, Washington 1960, p. 32 (trad. it. cit. p. 132 – preferisco citare e tradurre dall’edizione americana).
[6] Ivi, pp. 18-9 (trad. it. p. 107).
[7] Ivi, p. 23 (trad. it. p.117).
[8] “Report of the Committee on Discovery and Development of Scientific Talent”, in op. cit., Appendix 4, pp. 142-3. Questa appendice non è stata inclusa nella trad. it. cit.
[9] Ivi, p. 32 (trad. it. p. 133).
[10] Cfr. R. Florida, Cities and the Creative Class, Routledge, New York and London 2005, passim.
[11] Cfr. United Nations, Creative Economy, Report 2008. In http://www.unctad.org/creative-economy.
[12] KEA European Affairs, The Impact of Culture on Creativity. A Study prepared for the European Commission, June. In http://www.keanet.eu/2009review.pdf.
[13] Ivi, p. 1.
[14] Ivi, p. 5.
[15] AA.VV., Manifesto for Creativity and Innovation in Europe, in http://www.create2009.europa.eu. Gli ‘ambasciatori’ sono 27 scienziati di tutti i campi, tra i quali figurano noti scienziati e artisti (a rappresentare l’Italia la sola Rita Levi-Montalcini), tra i quali il menzionato Florida, come anche dirigenti di aziende innovative (come Nokia e Microsoft).
[16] KEA European Affairs, op. cit., p. 9.
[17] W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, Garzanti, Milano 1982, p. 85.
[18] L. Smolin, “A Crisis in Fundamental Physics”, in The New York Academy of Sciences Magazine, January-February 2006.
[19] Cfr. M. Kaku – J. Thompson, Oltre Einstein. La nuova fisica, l’indagine cosmica e la teoria dell’universo, Castelvecchi, Roma 2006, p. 73.
[20] G. Vailati, Scritti, a cura di M. Quaranta, vol. I, A. Forni, Sala Bolognese 1987, p. 224.
[21] http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/01/
Mi sembra che questa discussione sulla chiarezza, sull’esigenza di un di un sapere non specialistico nelle humanities ecc. vada spesso fuori bersaglio. Richiedereste a un matematico o a un fisico che fa ricerca di scrivere i suoi articoli in modo che li comprenda anche un semplice laureato in fisica (non diciamo un uomo comune, che sarebbe pretendere troppo)? Lasciate allora che gli umanisti scrivano difficile rivolgendosi ai loro simili, agli specialisti: non è compito loro essere chiari e divulgativi. Lo devono fare ovviamente quando si rivolgono ai comuni lettori sulle pagine di un quotidiano. E in ogni caso il loro sapere specialistico ricade poi a cascata su quello di altri che lo riprendono, lo semplificano, lo fanno proprio e dopo averlo metabolizzato lo ripropongono al loro pubblico e così via sino alla divulgazione più banale, più radiotelevisiva. Ma pensate che senza quel sapere specialistico, quel parlare difficile, astruso, complesso, ci potrebbe poi essere una tale ricaduta a cascata verso i saperi meno specialistici, più comprensibili che da essi si generano? No, io penso che il sapere non solo è fatto di linguaggi diversi che tra loro devono fecondarsi, ma anche di livelli di complessità differenti, ciascuno dei quali è adeguato a una certo tipo di fruitori. L’importante è non interrompere con misure amministrative di valutazione centralizzata e ottusa o con miopi politiche legate al “sapere utile” questi circuiti. Altrimenti muore la cultura a tutti i livelli, si orizzontali che verticali.
Norberto Bobbio scriveva in italiano con rigore e chiarezza e non era un divulgatore. Si può approvare o disapprovare ciò che scrive, ma non accusarlo di non essere chiaro.
Veramente, non discutevo di saperi non specialistici o della chiarezza della ricerca umanistica (qualunque cosa ciò significhi), ma della chiarezza degli appelli e degli argomenti da addurre al dibattito politico. Mi pareva che la qualità dell’istruzione scolastica, per esempio, fosse un buon argomento, a tutti comprensibile, e che si possa sostenere che la formazione degli insegnanti, dal maestro della scuola d’infanzia al professore di liceo, passi in larga parte dalle facoltà umanistiche. Perciò il livello culturale di una nazione dipende sensibilmente dall’attenzione e dai finanziamenti indirizzati ANCHE alla ricerca e alla didattica umanistica – oltre che, è bene aggiungere, alle strutture e alle risorse propriamente scolastiche. Ma è ovvio che la ricerca, in campo umanistico più che mai, deve restare libera e autonoma, specialistica e specializzata quanto è necessario, col massimo rigore scientifico; che c’entra, qui, la divulgazione? Formare dei laureati di buon livello, con percorsi di studio di eccellenza, non è certo una questione di divulgazione o di semplificazione culturale. Il mestiere dell’insegnante è uno dei più difficili, richiederebbe anzi maggiore specializzazione, sia curriculare che metodologica. Ed è esso stesso un proseguire la ricerca con altri mezzi. Difficile pensare che, senza la dovuta attenzione alle facoltà umanistiche, si possa andare lontano.
Su quanto dice sono d’accordo; io mi riferisco a chi invece sostiene (e/o contrappone) gli studiosi che nelle loro opere scrivono in maniera chiara e coloro che invece scrivono in modo oscuro. Benché io preferisca la prima modalità (per formazione e indole), penso però che non si debba criticare solo in base a questo elemento un autore, ma cercare sempre di vedere se dietro l’oscurità e la difficoltà ci sta qualcosa di valido e significativo; e criticare il pensiero, quando lo si trova. Lei sa bene che il Tractatus di Wittgenstein è stato ritenuto una delle opere più difficili da comprendere; eppure ci guarderemo dal dire che per questo motivo non vale nulla. E sa bene anche che la polemica sulla chiarezza ha interessato anche intere scuole filosofiche (ad es. Twardowski e la filosofia scientifica polacca sostenevano che chi non scrive chiaramente, allora non concepisce chiaramente), ma non mi sembra che tale punto di vista possa essere ancora oggi generalmente condiviso. Tolleranze e pluralismo, anche in questo campo!
Intervento del tutto condivisibile. Importante, in particolare, dal mio punto di vista di storico dell’età contemporanea (quindi umanista lato sensu), la puntualizzazione (e critica) implicita circa l’arretratezza della posizione di Esposito/GallidellaLoggia/AsorRosa: non si tratta di difendere le discipline umanistiche perché su di esse si fonda la consapevolezza di essere nazione (prospettiva francamente ottocentesca che la triade porta avanti) nei confronti delle Naturwissenschaften che sarebbero oggettivamente ed ontologicamente universalistiche, quanto piuttosto di sottolineare l’intreccio e la costante dialettica tra Geistwissenschaften e Natirwissenschafren come fonte dello sviluppo di entrambe. E ciò al di fuori di ogni spazio (gabbia?) nazionale, oggi come oggi un freno pure per le prime.
Errata corrige: leggasi Naturwissenschaften
[…] […]
[…] pp. 1076-1085, leggibile on line qui. È tuttavia circolata in rete (ad es. su “ROARS”, qui) una versione diversa, che appare essere una prima bozza nella quale, pur in presenza delle tre […]
La ringrazio infitamente dott. Coniglione, finalmente un articolo ben scritto, completo e onesto, che difende degnamente e una volta per tutte le scienze umane dalle approssimative accuse che gli vengono fatte con l’unico scopo di difendere un tecnicismo cieco e impazzito. Come possiamo migliorare il mondo se strada facendo perdiamo di vista il motivo percui lo stiamo facendo?
Gli studi umanistici concorrono alla formazione della persona, rispettata nella sua unicità e irripetibilità. E’ molto.