La retorica della “casta dei professori universitari” combinata con la riduzione dei redditi delle famiglie e l’aumento delle tasse universitarie, ha ridotto in modo significativo le immatricolazioni alle Università. Inoltre, in una logica “di mercato”, le banche hanno convenienza a concedere finanziamenti a studenti che si iscrivono in sedi universitarie che danno maggiori sbocchi occupazionali. La svolta epocale del Ministro Gelmini – più che premiare il merito e combattere le baronie – sembra prefigurare un’Università a doppia velocità, nel quale gli studenti “capaci e meritevoli” tenderanno sempre più a disertare le sedi meridionali, rendendole ulteriormente sottofinanziate.
Il 21 gennaio 2011, a seguito dell’approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto sulle abilitazioni scientifiche nazionali, il Ministro Gelmini diramava – sul sito del MIUR – questo comunicato:
Il regolamento pone fine ai concorsi truccati e introduce l’abilitazione nazionale secondo criteri meritocratici e di trasparenza, i principi cardine del ddl Gelmini che vuole così colpire baronie, privilegi e sprechi.
Il 13 settembre 2013, il Ministero ha dato comunicazione di un’ulteriore proroga per la conclusione dei lavori delle commissioni, fissandola al 30 novembre. A due anni e mezzo dal primo annuncio, il Ministro potrebbe correggerlo scrivendo che quel regolamento non pone fine ai concorsi “truccati”, ma pone fine ai concorsi tout court, o – il che è lo stesso – che pone fine ai concorsi truccati perché pone fine ai concorsi.
Il blocco del turnover nelle Università italiane è dovuto fondamentalmente a tre fattori, il cui impatto era peraltro ampiamente prevedibile fin dall’approvazione della c.d. riforma Gelmini: la lentezza della procedura per l’attribuzione delle abilitazioni scientifiche nazionali, la decurtazione dei finanziamenti, l’introduzione della figura del ricercatore a tempo determinato.
Il risultato è che le Università italiane sono sempre più popolate da studiosi di età avanzata, demotivati, sui quali gravano norme vessatorie e talvolta del tutto incomprensibili, sempre meno produttivi sia per ragioni anagrafiche, sia per l’indisponibilità di fondi per fare ricerca. È lapalissiano il fatto che la ricerca scientifica richiede investimenti, in tutti i settori disciplinari: fondi per partecipare a convegni (possibilmente non attingendo al proprio stipendio, peraltro molto più basso della media europea e con scatti di anzianità bloccati), acquisto di libri e riviste, laboratori.
La domanda che occorre porsi è: chi trae vantaggi in questo scenario? Le ipotesi proposte per rispondere a questa domanda sono sostanzialmente due. In primo luogo, si sostiene che la c.d. riforma Gelmini si è resa politicamente fattibile per lo scambio riduzione dei fondi – più ampi poteri attribuiti ai Rettori e che, dunque, sono questi ultimi a ritenere desiderabile lo status quo. Si tratta di una congettura probabilmente verosimile in alcuni casi, ma opinabile se si considera che disporre di un elevato potere formale con pochi fondi (peraltro in costante riduzione) significa, di fatto, disporre, sul piano sostanziale, di poco potere.
In secondo luogo, è stato sostenuto che la “cura dimagrante” imposta alle Università italiane sia imputabile all’eccesso di offerta di forza-lavoro qualificata, in una struttura produttiva composta, salvo rare eccezioni, da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, che esprimono una domanda di lavoro rivolta prevalentemente a individui con più basso livello di scolarizzazione.
In più, una campagna mediatica molto efficace ha diffuso la convinzione che l’Università sia unicamente un luogo nel quale si sprecano risorse e si esercitano baronaggio e nepotismo. La ricerca scientifica è stata concepita come un puro costo, insostenibile in un contesto di “risanamento” delle finanze pubbliche, con l’esito inevitabile di una continua decurtazione di fondi nel corso dell’ultimo quinquennio. La retorica della “casta dei professori universitari” combinata con la riduzione dei redditi delle famiglie e l’aumento delle tasse universitarie, ha prodotto l’ulteriore effetto di ridurre in modo significativo le immatricolazioni alle Università.
Almeno nel breve-medio termine, l’obiettivo della chiusura o accorpamento di sedi universitarie – fatta propria dai principali ispiratori della “riforma” – appare impraticabile. Occorrerebbe – se ben si capisce – il licenziamento in massa del personale delle Università che si intendono chiudere: operazione politicamente inopportuna e tecnicamente infondata, dal momento che, se si vuole percorrere questa strada utilizzando le ben poco affidabili “classifiche” della VQR si incorrerebbe, come ampiamente documentato, in scelte assai discutibili.
Recentemente, sul blog “lavoce.info”, è stato proposto di favorire l’accesso all’Università a giovani meritevoli provenienti da famiglie con basso reddito attraverso prestiti bancari da restituire al termine del ciclo di studi, con tassi di interesse crescenti al crescere degli anni “fuori corso”. È interessante osservare che questo sistema è già in atto, almeno per alcune banche – Unicredit, in primis – e per alcuni Atenei: Bocconi, Luiss, Bologna, fra quelli italiani. Non è dato riscontrare dati ufficiali sul numero di studenti che hanno acceso mutui per finanziare gli studi.
Ma, indipendentemente da questo, e probabilmente come effetto non previsto, il combinato della “riforma Gelmini” e della decurtazione di fondi può segnare il passaggio dalla “bolla formativa” dei primi anni Duemila a una nuova “bolla finanziaria”, sul modello anglosassone. In altri termini, la svolta epocale del Ministro Gelmini – più che premiare il merito e combattere le baronie – sembra prefigurare uno scenario nel quale è il sistema bancario a trarne benefici, influenzando, di fatto, le scelte di immatricolazione e reclutamento. In una logica “di mercato”, infatti, le banche hanno convenienza a concedere finanziamenti a studenti che si iscrivono in sedi universitarie che, tradizionalmente, danno maggiori sbocchi occupazionali, minimizzando, così, il rischio di insolvenza da parte degli studenti indebitati. E poiché queste sedi sono collocate nelle aree più sviluppate del Paese, la svolta epocale del Ministro Gelmini può facilmente tradursi nell’accentuazione del fenomeno – già in atto – di un’Università a doppia velocità, in uno scenario nel quale gli studenti “capaci e meritevoli” tenderanno sempre più a disertare le sedi meridionali, rendendole ulteriormente sottofinanziate e, dunque, con minori possibilità di reclutamento.
Veramente non capisco questa ostilita’ verso le banche italiane.
Al nostro gruppo di ricerca negli ultimi 4 anni una fondazione bancaria locale (la fondazione Cariparo, che ha circa il 10 per cento della proprieta’ della seconda banca italiana) ha assegnato, a seguito di concorso, circa 160 mila euro (80+70) per progetti scientifici.
La stessa fondazione bancaria ogni anno mette a disposizione circa 4 milioni di euro per progetti di ricerca (circa un terzo nel settore umanistico).
La stessa fondazione bancaria contribuisce al restauro di monumenti delle citta’ delle province di Padova e Rovigo. E finanzia varie attivita’ no profit.
ehm: 70+80 = 150.
In effetti, 82+76=158.
Ancora sbaglio. Per la precisione: 76+75=151.
Intesa SanPaolo sono già quattro anni che finanzia progetti di ricerca dell’Università del Piemonte Orientale (1 milione l’anno per il quadriennio 2012-2015). So che esiste un accordo simile anche con l’Università di Torino, il Politecnico di Torino e la Federico II di Napoli. In più finanziano borse di studio (dottorato, post-doc, master, scuole di specializzazione, …)
Sono cifre notevoli se le confrontate con i FIRB o i PRIN (38 milioni per l’ultimo triennio).
Risultano sempre più’ evidenti le problematiche legate alla riforma Gelmini. Aver calato le stesse procedure su Atenei di piccole e grandi dimensioni crea significative difficoltà’ organizzative. In molte sedi i processi di riorganizzazione
Si stanno attuando in modo confuso e sotto la pressione delle varie Ava, Teco, Riesame ed ora programmazione 13/15 in un contesto di forte riduzione di fondi e di mancata sostituzione del personale. Il ricambio e’ ridotto e le mitiche abilitazioni ancora al palo. Credo sia ora di un momento di serietà’ con rivisitazione della 240/2010.
Ben vengano le critiche alla farraginosa procedura dell’ASN. Non vorrei però che in nome di queste si voglia fare una difesa della “casta dei professori universitari” (che è poco retorica e molto concreta) e del vecchio sistema concorsuale, in quanto “quel regolamento non pone fine ai concorsi “truccati”, ma pone fine ai concorsi tout court, o – il che è lo stesso – che pone fine ai concorsi truccati perché pone fine ai concorsi”. E’ ingiusto affermare che, visto che l’ASN non funziona, il sistema precedente fosse migliore o addirittura perfetto. Come si vede nella stampa delle ultime settimane il problema dei concorsi era (ed è) reale. Alla base dell’ASN c’è dunque un’esigenza reale di oggettività della valutazione. Altra cosa è dire che, così come è stata realizzata, l’ASN non funziona.
In definitiva, non vorrei che Roars diventasse (o fosse sempre stata) una difesa del vecchio sistema dai toni gattopardeschi…
Concordo con l’ultima frase.
Pero’ e’ difficile parlare di “casta” per persone che guadagnano cifre tra i 40 mila lodi ed i 100 mila lordi (ma sono pochi) l’anno, ed in media sui 60 mila lordi. Forse in certe zone d’Italia con queste cifre si e’ “casta”, non certo qui da me.
Molto meglio (da un punto di vista economico) fare il funzionario di banca.
Per me la “casta” sono i commercianti che dichiarano 10 mila lordi e poi li vedi girare con il panfilo.
Da Treccani online:
casta s. f. [dallo spagn. e port. casta, propr. «(razza) casta, pura», che è dall’agg. lat. castus «casto»]. –
1. Gruppo sociale chiuso e per lo più endogamo, i cui membri sono uniti da comunanza di razza, di nascita, di religione o di mestiere; in partic., ciascuno degli strati in cui, fin dall’antichità, era divisa la società indiana.
2. Per estens., spec. con senso spreg., classe sociale, ordine di persone che si considera, per nascita o per condizione, separato dagli altri, e gode o si attribuisce speciali diritti o privilegi: la c. degli aristocratici, la c. sacerdotale, la c. militare; ritenersi appartenente a una c. privilegiata.
Non si tratta di quanto guadagni, ma del modo con il quale entri a farne parte (cooptazione) e della condizione in cui ti trovi facendone parte
Roars non ha mai auspicato il ritorno al vecchio sistema dei concorsi locali e nemmeno si è pronunciato contro le abilitazioni in sé. Come giustamente osservato, il problema è la modalità con cui l’ASN è stata realizzata.
Sono sicuro che Roars non auspica un ritorno al passato. Ma forse, tutto sommato, qualcuno preferirebbe lasciare tutto come sta(va). Il problema dell’ASN non è nell’idea di Valutazione (come spesso sembra evincere dagli articoli di Roars). La valutazione è assolutamente necessaria, se non si vuole lasciare il sistema all’arbitrio. E’ chiaro poi che ogni sistema di valutazione può essere migliorato, che si basa sempre su indicatori che devono essere perfezionati, che viene applicato da uomini che hanno i loro limiti e defaillances. Mi pare che su Roars prevalga sempre la pars destruens, condita da una forte ironia. Ma a quando la pars construens? E’ chiaro che quella universitaria è una casta, che va a braccetto con le altre caste e corporazioni italiane. Il punto è capire come sostituire al vecchio sistema della cooptazione – basata sulle affinità di casta, sui favori reciproci, sulla progressiva adesioni ai valori della casta stessa, fino al momento in cui si è giudicati degni di entrarvi a farne parte – con un nuovo sistema che garantisca la trasparenza, l’equità, la meritocrazia. Ora il sistema dell’ASN, che io stesso critico profondamente, ha il merito di aver posto il problema. E’ la sua applicazione che non funziona perché: 1. è avvenuta sostanzialmente secondo le vecchie categorie logiche dello scambio, della discussioni al di fuori della procedura, della pressione corporativa; 2. ha tecnicamente una procedura – come sempre in Italia: v. recente articolo di Severgnini sui Komplicatori – farraginosa e sostanzialmente inapplicabile nel suo spirito originario.
Sarebbe dunque necessario tornare a un sano spirito meritocratico, in cui la valutazione ha una parte preponderante. Marginalizzare sempre più atteggiamenti e comportamenti che nascano dalle logiche di potere, invece che dalle logiche dell’equità (se io ho davanti un candidato, non penso di chi è figlio ma quanto vale). In altre parole (per ribaltare vecchie categorie marxiste) il mondo non si cambia cambiando le strutture (o non solo) ma cambiando le persone, il modo di pensare.
Il commmento di Augusto Cosentino fornisce l’occasione di sgombrare il campo da un equvoco che temo sia relativamente frequente, ovvero che Roars spari a zero su ogni forma di valutazione senza offrire alternative praticabili. Le proposte pubblicate sulle nostre pagine credo abbiano pochi uguali per numero e per qualità rispetto al resto del panorama italiano. Di volta in volta le abbiamo sottoposte al dibattito con i lettori, all’ANVUR, al ministro in carica o a chi sembrava destinato a guidare il governo del paese:
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Università e Ricerca: prime proposte ROARS per una discussione
https://www.roars.it/universita-e-ricerca-prime-proposte-roars-per-una-discussione/
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Sette proposte per la VQR
https://www.roars.it/sette-proposte-per-la-vqr/
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Caro Profumo, ecco dieci proposte per l’Università
https://www.roars.it/caro-profumo-ecco-dieci-proposte-per-l%e2%80%99universita/
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Lettera aperta al Segretario del PD, Pierluigi Bersani, candidato alla Presidenza del Consiglio per la coalizione di centrosinistra, e alle forze politiche e sociali che lo sostengono
https://www.roars.it/lettera-aperta-al-segretario-del-partito-democratico-on-pierluigi-bersani-candidato-alla-presidenza-del-consiglio-per-la-coalizione-di-centro-sinistra-e-alle-forze-politiche-e-sociali-che-lo-soste/
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Entrando nelle questioni specifiche, oltre ad evidenziare gli errori italiani, nei nostri post cerchiamo anche di spiegare come si muovono le altre nazioni:
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No bibliometrics please, we’re British.
https://www.roars.it/no-bibliometrics-please-were-british/
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Per giustificare le “riviste pazze” l’ANVUR paragona Suinicoltura al Caffè di Pietro Verri
https://www.roars.it/per-giustificare-le-riviste-pazze-lanvur-paragona-suinicoltura-al-caffe-di-pietro-verri/
(“ecco una cogente definizione di pubblicazione scientifica, quella della Norwegian Academy of Science and Letters, adottata nella classificazione delle riviste del governo finlandese”)
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Sulla valutazione delle scienze umane che è tema scottante e non facile, alcune proposte sono reperibili nei seguenti post:
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La sfida della valutazione nelle scienze umane e sociali
https://www.roars.it/la-sfida-della-valutazione-nelle-scienze-umane-e-sociali/
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Da dove si parte? I dati sulla ricerca nelle aree 10-14.
https://www.roars.it/da-dove-si-parte-i-dati-sulla-ricerca-nelle-aree-10-14/
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A proposito di liste e rankings di riviste nelle scienze umane
https://www.roars.it/a-proposito-di-liste-e-rankings-di-riviste-nelle-scienze-umane/
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Più in generale va detto che di fronte ad un veicolo avviato a precipitare nel burrone, è più urgente evitare la catastrofe piuttosto che confrontare diversi itinerari panoramici. Primum vivere. Va anche detto che, mentre un errore è un errore, non è detto che esista una soluzione unica ai problemi dell’università e della ricerca. In una situazione normale il dibattito pubblico sarebbe centrato sulla maggiore o minore preferibilità di diverse politiche accademiche, ognuna con i suoi pro e i suoi contro. In un contesto di “run to fail” è comprensibile una maggior enfasi sulla pars destruens, per quanto (come dìmostrato dalle precedenti citazioni, incomplete e raccolte in una decina di minuti) lo sforzo costruttivo di Roars non è stato per nulla trascurabile.
Un’ultima notazione culturale. Spesso si ha l’impressione che la valutazione abbia assunto una valenza taumaturgica, la ricetta magica che ripulirà d’incanto l’università da inefficienze e nepotismi (biologici e accademici). Se l’ANVUR ha fallito per incompetenza tecnica, deve pur esserci da qualche parte la ricetta giusta. Perché Roars non ce la rivela? Credo che una parte importante della missione di Roars sia aiutare l’accademia italiana a ritornare al principio di realtà. Desiderare l’esistenza della ricetta magica non significa che questa esista (e nemmeno che sia così salvifica, aggiungerei). La politica universitaria, come pure la valutazione e la bibliometria, sono soggette ai vincoli del mondo reale. Bisogna sobbarcarsi la fatica di studiare e di capire cosa si può misurare quantitativamente, che significato abbia e quali margini di incertezza ci siano. Ma è altrettanto vero che ci sono aspetti che sfuggono alla misurazione quantitativa e che sono non meno importanti. Volete una ricetta? Eccola: meno magia, più scienza, ma senza riduzionismi ingenui, più trasparenza e responsabilità. Concordo con lei: “il mondo non si cambia cambiando le strutture (o non solo) ma cambiando le persone, il modo di pensare.”
Resta però quella (sgradevole) sensazione che talvolta, nello sparare a zero sull’ASN, si vagheggi un ritorno all’antico… Il punto è continuare sulla strada meritocratica (@ Stefano: mi spiace che la parola non sia di tua gradimento), affinando gli strumenti della valutazione
Caro Cosentino, questo modo dietrologico di ragionare può pure applicarlo alla stampa. Noi non facciamo giornalismo, cerchiamo di essere seri e documentati. Quanto alla meritocrazia, se questo Paese vi fosse anche solo lontanamente vicino, tutti quelli che hanno messo in piedi ASN e VQR sarebbero a spasso. O sulla panchina ai giardinetti.
Le assicuro che siamo del tutto favorevoli a seri meccanismi di valutazione, c’è anche chi ce lo rimprovera quasi ogni giorno.
“Il problema dell’ASN non è nell’idea di Valutazione (come spesso sembra evincere dagli articoli di Roars).”
La palese falsità di questa frase mi fa capire che o Augusto Cosentino non ha mai fatto la fatica di leggere i documentatissimi articoli pubblicati su Roars (che è evidentemente tra i pochissimi paladini della valutazione in Italia), limitandosi al massimo a leggerne i titoli spesso ironici, oppure è in malafede.
Il fatto che tutti mi diano addosso mi fa pensare di aver toccato qualche tasto dolente. Non credo che tutto Roars sia contrario alla valutazione. Credo che però si faccia una crociata (giusta e sacrosanta) contro l’ASN, senza vedere che il sistema precedente (di cui poco si parla) era marcio del tutto. Certo, la cura non è efficace, bisogna aumentare la dose, forse cambiare le medicine. Però non si poteva certo restare con un sistema di cooptazione (torno a ripetere: illegale, in quanto in Italia – per legge – si entra per concorso). Io sarei pure d’accordo a passare ad un sistema di cooptazione puro, come c’è in altri paesi. A patto che sia 1) trasparente; 2) controllato nei risultati; 3) efficace.
Ripeto: non sono mai stato contrario all’abilitazione. La parola cooptazione sembra una parolaccia, ma l’accesso ad un ruolo di ricerca comporta inevitabilmente una forma di cooptazione da parte della comunità scientifica, almeno fino a quando non verrà ideato il meccanismo che permette di giudicare i candidati attraverso un algoritmo. I precedenti concorsi locali erano strutturalmente più esposti a forme di “cooptazione malata” e il passaggio ad un sistema di reclutamento “a due stadi” stabilisce delle regole del gioco un po’ meno esposte a degenerazioni. Fermo restando che le regole da sole non bastano, ci sono regole un po’ peggiori ad altre un po’ migliori.
Io sono per il concorso.
Una volta definito il profilo del candidato, da esplicitare nel bando, deve vincere la persona bibliometricamente piu’ qualificata.
L’unica questione e’ quanto esplicito deve essere il profilo. Secondo me se un dipartimento vuole crescere il profilo NON deve essere troppo esplicito.
Due esempi:
a) profilo piu’ esplicito: “esperto in esperimenti con semiconduttori estrinseci”;
b) profilo meno esplicito: “esperto in fisica sperimentale della materia”.
Nel caso a) probabilmente c’e’ gia’ un laboratorio che fa quelle cose e si vuole una persona che lavori in esso. Nel caso b) la persona potrebbe realizzare un nuovo laboratorio con nuove tematiche.
@ Cosentino:
non mi pare che nessuno su questo sito faccia una crociata contro alcunché, men che meno contro l’ASN. Ci si limita, di fronte alle manifeste assurdità che quotidianamente o quasi tale procedura mette sotto gli occhi di tutti, a esercitare lo spirito critico – cosa che, del resto, dovrebbe rappresentare la forma mentis normale in chi come noi lavora nel campo della scienza: ma questo, purtroppo è sempre meno vero.
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/09/30/news/concorsi_truccati_all_universit_due_docenti_ai_domiciliari-67564334/
La Gelmini ha messo in ginocchio l’universita’ con la scusa dei professori corrotti e ladri. E i professori che fanno? Continuano a rubare. Coperti dall’omerta’ di tutta la classe. Come si fa’ a non parlare di casta? I primi colpevoli sono proprio quei docenti che piangono per la fame ma non hanno mai avuto il coraggio di denunciare i, o dire no ai furti nei CDD (Consigli di Dipartimento), dove ognuno continua (come sempre) a farsi i cavoli suoi.
(P.S. scusate la franchezza e i termini crudi).
Tre considerazioni:
i) A Messina i soldini da docente univ. di ruolo sono piu’ che sufficienti per vivere bene.
ii) L’omessa denuncia del pubblico ufficiale
(o incaricato di pubblico servizio) e’ un reato penale.
iii) Io, per fortuna, avevo il nonno ed in padre che lavoravano in banca (mio nonno ha contribuito a creare la banca che recentemente e’ risultata molto indigesta a MPS).
Il sistema e’ alla frutta, il futuro dell’ASN e’ incerto, l’AVA una tortura medievale, la vqr ha trasformato il sistema in un immenso campionato tra università, dipartimenti e SSD, ma una nuova legge di riforma no, non reggeremo, vi prego teniamo ci la Gelmini e cerchiamo la riduzione del danno attraverso un uso ragionevole delle norme, l’impegno negli organi di governo centrali e periferici, modifiche delle norme ed eventualmente di singoli aspetti della legge. Una riforma no. I have a dream… Non voglio ministri dell’Universita riformatori
Non ho espresso giudizi di valore sul sistema bancario italiano. Quello che mi preme sottolineare è che i) l’indebitamento degli studenti, come documentato in altri articoli pubblicati su ROARS, può prefigurare una nuova “bolla finanziaria”; ii) l’erogazione di prestiti agli studenti è strutturata in modo tale da favorire le immatricolazioni in alcune sedi, che si presume diano maggiori sbocchi occupazionali; iii) le sedi alle quali si fa riferimento sono tutte collocate al Nord. Si determina una condizione per la quale le scelte di immatricolazione e le possibilità di reclutamento, almeno in parte, dipendono dalle scelte delle banche in ordine alle sedi da finanziare: cosa che prescinde del tutto dalla qualità della didattica e della ricerca scientifica. Di fatto, sono le sedi meridionali a essere penalizzate, in uno scenario (fonte SVIMEZ) nel quale la divergenza fra Nord e Sud è in costante crescita.
Mah, il ragionamento non mi convince molto.
Qual’e’ la percentuale degli studenti universitari italiani che fa ricorso a prestito bancario?
Piuttosto, ci sono citta’ universitarie medio-piccole del centro nord fatte apposta per gli studenti: Bologna, Pisa, Padova, Pavia e Trento.
In queste citta’ il costo degli alloggi e’ sicuramente inferiore a quello di grandi citta’ quali Roma e Milano. E sono citta’ facilmente raggiungibili in aereo, treno e automobile.
Inoltre gli studenti si trovano in una atmosfera “da luna park” dove ogni sera ci sono
numerose occasioni di svago, raggiungibili in bici.
Gli enti locali (regione, provincia, comune) e fondazioni bancarie di queste citta’ universitarie contribuiscono economicamente alla riuscita di questo “enorme business dell’apprendimento”.
Infine, e non e’ poco, queste citta’ sono “accademicamente vicine” alla Francia, all’Austria e alla Germania.
Ah, dimenticavo. Sono citta’ medievali con dei centri storici favolosi (come in tutta Italia, del resto).
@Cosentino
“E’ chiaro che quella universitaria è una casta”
Chiaro a chi? Invece di filosofeggiare spiegami che “casta” è quella che accetta retribuzioni mediamente penose e poi ne subisce passivamente non solo il blocco ma addirittura una riduzione del valore nominale (e sì, le addizionali locali IRPEF riducono il netto in busta).
E tralascio la diffamazione pressoché quotidiana.
Quanto alla “meritocrazia mancante”, il tuo argomento emergenziale è stato definitivamente ridicolizzato proprio su queste pagine. Nel campo dei numeretti a te tanto cari, l’Università italiana, cooptativa e in mano alle caste, riesce ancora (o riusciva) a far le nozze coi fichi secchi.
Ah, una notazione: all’estero si coopta.
PS a proposito dei recenti scandali: a quando lo scorporo delle Facoltà di Medicina dagli atenei? Se poi oltre alle Medical schools o come si chiamano creassimo anche delle Law schools la questione sarebbe in larghissima misura risolta o meglio esternalizzata, parola che piace tanto agli economisti e ai meritocrati.
(Devo l’idea a un commentatore del Fatto Quotidiano, che si firma modestamente ‘eulero’)
Caro Stefano L.
1. le retribuzioni sono penose forse in raffronto con gli omologhi europei, ma non in raffronto con le retribuzioni di altri settori.
2. Non ho capito il tuo pensiero sulla meritocrazia.
3. E’ vero che all’estero si coopta, ma è proprio questo il punto: in Italia si coopta ma in un sistema dove, in teoria, non si dovrebbe. Inoltre all’estero non sempre si coopta con gli stessi criteri con cui avviene in Italia (tanto è vero che tanti italiani che in Italia non trovavano spazio, lo hanno trovato all’estero)
1. “Altri settori”: non credo proprio, a meno non parliamo di sottooccupazione. Altrimenti, le retribuzioni sono sicuramente penose (sono ingegnere, i miei ex-allievi lavorano tutti e di fatto dopo qualche anno prendono tutti più di me; non parliamo dei miei compagni di corso all’università).
2. “Meritocrazia” è oggi solo uno slogan di facciata per non pagare la gente per quanto lavora, declinato ai gonzi con “puniremo i fannulloni”. I quali -happy few- peraltro continuano a prosperare.
3. “Cooptazione”: per valutare uno studioso servono altri studiosi dello stesso campo, che si tratti di un colloquio o di un concorso. La numerologia dell’ASN non può minimamente sostituirsi a una valutazione.
Il sillogisma dell’estero è penosamente fallace (in Italia il dottorato è inutile fuori dall’Univ. e i posti all’Univ. sono ovviamente pochi: settori che sfornano molti Ph.D validi all’anno di fatto lavorano per l’estero).
Essere docente universitario di ruolo e’ “economicamente appagante” solo in certe zone d’Italia.
Forse adesso che c’e’ “la crisi” sono guardato con un po’ di rispetto dai miei amici ma fino a qualche anno fa sicuramente no.
I miei studenti di fisica scappano all’estero appena possono (per fortuna per ora li prendono). Ed i postdoc italiani li trovo solo se faccio una richiesta che si estende su almeno 1000 Km.
Va notato che nel passato si diventava PO (che e’ l’unica posizione, per i miei standard, con uno stipendio almeno dignitoso) molto molto prima. I matematici addirittura verso i 30 anni (e spesso senza pubblicazioni su riviste internazionali). Bei tempi…
Mi dicono che nel CNRS francese l'”incaricato di ricerca senior” (che e’ piu’ o meno equivalente al PA) prende inizialmente
2.3 kEuro netti al mese (per 12 mensilita’).
Questi soldi sono da confrontarsi con gli iniziali 2.5 kEuro netti al mese (per 13 mensilita’) del PA post Gelmini.
Quindi non e’ male rispetto alla Francia. Ma i miei amici bancari viaggiano sui 3.5 kEuro netti al mese (per 14 mensilita’).
Sul punto ho la seguente opinione. Non c’è forma di concorso (nazionale o locale) e valutazione che tenga se non si passa per un rafforzamento della (1) responsabilità individuale dei commissari per le scelte che fanno e e della (2) trasparenza. Paradossalmente credo che il sistema attuale da questo punto di vista peggiori molto la situazione.
Infatti abbiamo commissari nazionali delle asn deresponsabilizzati dalle mediane di ANVUR; e commissari locali (in qualsiasi modo siano scelti) deresponsabilizzati alla fine dalla ASN.
In un commento di molti mesi fa che non riesco a ritrovare avevo scritto che una soluzione possibile per aumentare trasparenza e responsabilità potrebbe consistere in questo:
1) Per tutti i candidati dei concorsi non solo è pubblico il cv, ma viene predisposta dal MIUR/ANVUR una scheda contenente dei ragionevoli e “corretti” indici bibliometrici certificati e standardizzati (non entro nei dettagli);
2) Anche cv e gli stessi indici sono pubblici per i commissari. Nella scheda dei commissari c’è anche l’elenco delle commissioni di cui hanno fatto parte, e l’elenco dei vincitori dei “loro” concorsi (con aggiornate informazioni bibliometriche sui vincitori)
A questo punto i commissari determinano l’esito del concorso. E ne sono responsabili. Se mettono in cattedra un asino, sarà nel loro curriculum.
Sarò ingenuo, ma credo che non ci siano procedure o ingegnerie legislative che non passino attraverso trasparenza e responsabilità della comunità accademica.
Condivido perfettamente la frase: “Paradossalmente credo che il sistema attuale da questo punto di vista peggiori molto la situazione.” A tre anni della riforma Gelmini l’università e’ migliore o peggiore di quella che c’era prima ?
Concordo sul criterio della responsabilità. Il problema è che il CV non basta: c’è una dose di soggettivismo nelle valutazioni che, se mal usata, può distorcere i risultati. Se ad esempio due candidati hanno scritto lo stesso numero di monografie e hanno titoli simili, il punto è di stabilire quali lavori siano migliori. E’ chiaro che, se i commissari sono assolutamente onesti dal punto di vista intellettuale, faranno la migliore scelta (il che non esclude che possano sbagliare). Ma se tengono in considerazione altri fattori (peso del candidato, pressioni ambientali ecc.) sbaglieranno di certo. La bibliometria voleva in qualche modo superare tale incertezza valutativa. Ma chiaramente non funziona. Contare soltanto il numero di pubblicazioni può non dire nulla. Valutare le pubblicazioni solo in base alla rivista che le ospita può essere fuorviante. C’è dunque sempre un margine di soggettivismo. Occorre allora chiedersi: come superarlo? Come far sì che un commissario sia incentivato a fare la scelta migliore e a non mettere in atto tattiche atte a far vincere un candidato preordinato?
Il mio punto è proprio questo: siccome si tratta di scelte di commissari (cioè di umani) si deve far sì che prevalga l’onesta intellettuale.
Per questo non vedo altro che trasparenza e responsabilità: che i “banditi” siano riconoscibili. [E se hanno commesso reati siano perseguiti]
Scusate, ma questa cosa della “responsabilizzazione” non mi convince.
Posso fare un esempio concreto personale (come sempre): alcuni anni fa ho fatto un conc. per RU. Ero incredibilmente l’unico candidato. Mi hanno bocciato. Nonostante quasi 50 pubblicazioni, di cui 20 a singolo autore.
A pochi anni di distanza divento PA nello stesso settore.
Nel frattempo cosa e’ successo ai 3 commissari di quel concorso? Il PO ha cambiato univ. ed e’ diventato direttore di un prestigioso laboratorio, il PA e’ diventato PO e l’RU e’ diventato PA.
Non c’e’ nessuna verifica a posteriori da fare. Bisogna invece controllare IN OGNI MOMENTO che le cose siano fatte bene. E secondo LA LEGGE VIGENTE, senza interpretarla.
Naturalmente conosco bene la legge non scritta “degli scambi accademici”. Ma NON essendo LEGGE DELLO STATO per me NON VALE NULLA.
Quindi, ripeto, se si vuole un preciso profilo lO SI DEVE INDICARE NEL BANDO, altrimenti quel profilo NON C’E’, punto e basta.
D’accordo con Salasnich. Passare da un sistema come il nostro a uno basato sulla responsabilità ex post mi parrebbe un salto nel buio non da poco. Almeno adesso, a frenare certi comportamenti poco onesti, ci può essere lo spettro dell’intervento dell’autorità giudiziaria; se si dice: fate quel che volete, poi ne pagherete le conseguenze in termini di “curriculum”, temo che le cose potrebbero radicalmente peggiorare. I boss dell’università italiana hanno ampiamente dimostrato che del “curriculum” e della “reputazione” se ne fregano.
Mi sembrava di averlo scritto. Invece è rimasto nella tastiera. Ho scritto “i commissari determinano l’esito del concorso. E ne sono responsabili. Se mettono in cattedra un asino, sarà nel loro curriculum”. Avrei voluto scrivere: “Se commettono reati nel corso delle procedure concorsuali sono perseguiti dalla magistratura”.
Per (Luca Salasnich): “Quindi, ripeto, se si vuole un preciso profilo lO SI DEVE INDICARE NEL BANDO, altrimenti quel profilo NON C’E’, punto e basta.” Peccato che la legge lo vieta. Poi tutti li mettono e nessuna che controlla. Tutti non rispettano la legge e nessun la fa rispettare.
@ Baccini:
Però l'”onestà intellettuale” non si può prescrivere per legge; per questo motivo sarei favorevole a un sistema che riduca al minimo l’appello all'”onestà intellettuale” e a alla “responsabilità” ex post.
A partire dall’esistente, una posizione pragmatica a mio avviso potrebbe essere:
1) una procedura di abilitazione nazionale INFINITAMENTE più seria e semplice, con commissioni sorteggiate annualmente e un mix di criteri quantitativi (NON mediane, ma indicatori fissi, come quelli a suo tempo proposti dal CUN) e qualitativi (invio non di decine di titoli, ma di max 2/3 titoli, i MIGLIORI, per ogni candidato, sul modello della qualification francese). Tutto ciò dovrebbe dare garanzia dell’eliminazione dal sistema degli “impresentabili”.
2) concorsi riservati agli abilitati. io non vedrei male concorsi nazionali, ma se proprio si vuol far ricorso a quelli locali trovo che il sorteggio delle commissioni non sia il migliore dei criteri, per i motivi più volte citati.
Dopo aver letto per mesi le opinioni espresse sul sito vorrei fare alcune considerazioni. Premesso che l’università è espressione del paese, ritengo che sia meglio un meccanismo di progressione legato a verifiche (concorsi o abilitzioni) che un meccanismo automatico come avviene a esempio in magistratura, avvocatura dello stato ecc.
Si è insistito molto sulla parzialità dei criteri di valutazione. Anche qui una premessa è d’obbligo soprattutto perchè non tutti mi sembrano cmpetenti in teoria della misura e della scelta. Ogni sistema di valutazione è soggettivo e quindi risente o meglio è detrminato dall’ordimnamento delle preferenze. Tralasciamo il tema della formazione delle preferenze e limitandoci al solo problema della loro aggregazione si pone il problema della ponderazione. Da decenni l’analisi multiattributo o multicriteriale si dibatte sul tema della rilevanza, dell’indipendenza e della trasformazione quantitativa dei criteri (giudizi). Per farla breve, e breve purtroppo non è, anche le teorie più recenti sull’aggregazione basate sulle misure di etropia non estensiva (di molto successo in fisica e meccanica statistica) o su generalizzaioni di misure non additive o fuzzy, non sono in grado di risolvere il problema preliminare della rilevanza ordinale dei criteri. Tutto ciò per dire che la soggettività/parzialità dei criteri è INELIMINABILE. Si possono avere idee diverse sull’ordinamneto, ma alla fine ogni criterio sarà criticabile in varia misura per gli stessi motivi.
Sulla scelta delle riviste mi sembra che ci sia dentro quasi di tutto, ma anche questo a meno di errori marginali, fotografa o stato dell’arte: l’Accademia è divisa verticalmente, basta guardare ai cv dei docenti. Personalmente credo che la cesura sia rappresentata dall’isttuzione dei dottorati di ricerca nei primi anni novanta. Prima di alora solo in pochi accedevano a corsi postuniversitari e all’abitudine/necessità di pubblicare su riviste internazionali.
Sul valore relativo delle riviste, mi sembra che non si possa fare a meno di prendere atto dello stato delle cose, quello cioè che ci comunica la realtà. Sarebbe interessante capire quanto questo metodo di comunicazione della ricerca sia distorsivo, per esempio vorrei capire quanto le relazioni di network siano rilevanti nell’accesso non casuale ai top journal (che per inciso volenti o nolenti tutti e per ogni disciplina sappiamo quale siano): personalmente ritengo siano determinanti e non sussistano più di due gradi di separazione (nodi) tra un editor e un pubblicato.
Circa l’abilitazione nazionale trovo l’ennesima proroga inqualificabile. I numeri erano assolutamente prevedibili (elechi docenti strutturati + % di non strutturati) suprattutto considerando l’assenza di tornate di concorsi accetabili nell’ultimo decennio e quindi l’impreparazione e superficialità con cui è stata affrontata la questione rimanda solo all’inadeguatezza dei mezzi rispetto ai fini.
Il punto che veramente non capisco è perchè mettere in piedi una giostra come questa se poi si torna a parlare di concorsi. L’abilitazione dirà chi è elegibile e chi no, perchè è necessario un ulteriore concorso? L’abilitazione, a mio modo di vedere, dovrebbe esser la condizione necessaria e sufficiente per essere nominati, lasciando poi ai dipartimenti la scelta di chi nominare. Ovviamente nel caso di non strutturati dovrebbero essere previste delle valutazioni integrative legate a competenze specifiche, es lezione.
Se sono abilitato come commercialista, avvocato, ingegnere, ecc è poi chi mi assume che sceglie sula base di suoi criteri. Personalmente ritengo meno influenzabile un dipartimento di decine e decine di membri che una commissione di concorso. I concorsi nazionali sono stati aboliti a vantaggio di quelli locali perchè producevano distorsioni. I conocrsi locali saranno aboliti perchè producono distorsioni. Ritornare ai concorsi nazionali semplicemente non ha senso. Pensare che l’estrazione a sorte possa risolvere il problema è un’ingenuità che stento a pesare che possa essere presa sul serio.
E allora?
Ripartiamo da queste abilitazioni e lasciamo ai dipartimenti, che nel frattempo sono diventati molto più numerosi e meno facilmente controlabili visto il costo di coordinamento, il compito di scegliere e lasciamo stare i ritorni al passato.
@ marcello: non ci ho capito nulla, ma mi sembra tutto molto interessante.
Certo il nostro approccio alla questione è molto meno scientifico, ma anche un po’ di (sano) buonsenso non guasta. Mi piace la proposta di Fausto. Non ci sarà mai il ‘concorso perfetto’. 1. Certo il criterio della responsabilizzazione (che – attenzione – non è passato in Italia in nessun ambiente: v. manager o magistrati) è interessante, ma come applicarlo?
2. Una massiccia dose di osservatori o commissari stranieri potrebbe aiutare (v. esempio dei costituzionalisti e del commissario spagnolo), ma anche questa non è una panacea. Certo, più sono lontani dall’ambiente, più possono essere neutrali. Ma si deve tenere conto anche delle scuole ecc.
3. Buono anche il “mix di criteri quantitativi (…) e qualitativi”. Il punto però è sempre quello: quali indicatori? E stabiliti da chi? Ed è ammissibile che gli indicatori siano stabiliti posteriori (v. caso delle riviste di fascia A: se io sapevo prima quali erano, avrei scelto solo quelle)?
Sì, ma quando in un dipartimento prevalgono i professori di un settore fanno avanzare solo i loro cocchi o il cocco di un collega a cui devono favori.
e invece in un concorso nazionale o in uno locale cosa succede? E’ comunque sempre più costoso nella pubblcità di un consiglio di dipartimento che nel segreto di una stanza