Il contributo torna ad interrogarsi a tutto tondo sul sistema di accreditamento degli atenei in Italia, ripercorrendo criticamente l’involuzione che il sistema ha conosciuto a 10 anni dalla emanazione della legge Gelmini. Un sistema in cui ha trovato legittimazione un approccio burocratico sempre più spinto, manovrato da una casta di valutatori che, rivendicando la propria superiore competenza specialistica maturata nel mondo delle imprese, detta le regole della valutazione, le controlla e produce rapporti dai quali vengono determinate classifiche, rese pubbliche senza che ci sia preoccupati di chiarirne la reale utilità. Si pongono, in tale contesto, problemi di conflitto di interessi fra valutatori che erogano agli atenei la formazione necessaria per ottemperare alle regole che vanno sviluppando. La domanda di fondo a cui approda l’analisi resta inevasa: “quale scopo attribuiamo alla costruzione di un apparato di regole e di operazioni di verifica da cui esita un ranking degli Atenei italiani di assai dubbia significatività e costituzionalità?”

 

* La legge 240 del 2010 ha introdotto in Italia un sistema di accreditamento ministeriale degli Atenei, che ha comportato la creazione nelle Università italiane di sistemi strutturati funzionali all’Assicurazione della Qualità (AQ) delle attività di formazione, ricerca, servizio agli studenti e trasferimento dei risultati della ricerca alla società civile. Oggi, quindi, lo Stato richiede ad ogni Università che il complesso di attività che ne rappresenta la missione sia condotto coerentemente ad un sistema che ne assicuri la qualità. L’ANVUR definisce le modalità con cui gli Atenei devono contemplare il dettato legislativo e, dunque, strutturare i propri sistemi di Assicurazione della Qualità, e sovrintende all’esercizio attuativo della norma. In tale spirito, l’ANVUR ha promulgato, già nel 2014, le prime Linee Guida per la Autovalutazione, Valutazione e Accreditamento del Sistema Universitario Italiano, AVA, secondo cui l’esercizio dell’AQ in seno all’organismo universitario si dichiara basato su saggi principi volti a garantire agli studenti una formazione adeguata all’acquisizione delle competenze auspicate, e ai docenti la possibilità di esprimere le proprie potenzialità nelle attività di formazione e ricerca, a favore di un ottimale servizio da parte degli Atenei verso la società civile.

Per quanto i dettami applicativi dell’esercizio dell’AQ riportati nelle Linee Guida AVA dell’ANVUR possano essere o meno condivisibili, i principi cui queste sembrano ispirati si mostrano, a tutta prima, corretti e di buon senso, perché interpretano le aspettative della società rispetto all’operato delle Università. Essi, in sintesi, rimarcano che le Università devono garantire ai cittadini un diritto egualitario di formazione e di crescita culturale, che permetta ad ognuno di perseguire le proprie aspirazioni e di svolgere con competenza il lavoro per cui ha svolto la propria formazione, contribuendo al benessere della società. Ciò è possibile se è garantita la massima diffusione di una formazione universitaria di qualità, fonte della crescita culturale del paese, in Atenei ove si sostanzi il giudizio critico ed autonomo del corpo studentesco. Premessa dell’AQ è che le attività degli Atenei siano condotte in modo trasparente e abbiano obiettivi strategici definiti con rigore, in coerenza ad analisi di contesto e alle risorse disponibili.

Con questo spirito, le Linee Guida AVA hanno introdotto dei Requisiti cui tutte le sedi universitarie devono uniformarsi nell’esercizio delle proprie attività, con modalità che, secondo le Linee Guida, hanno (o meglio: avrebbero) la possibilità essere liberamente interpretate da ogni Ateneo, commisurandole alle proprie risorse e ai propri obiettivi strategici. Infatti, il D.M. 47 del 30/01/2013 (emanato ignorando le preoccupate raccomandazioni esternate dal CUN) e i successivi non hanno mai imposto prestabilite strategie di esercizio dell’AQ, auspicando che la libertà interpretativa possa stimolare le sedi universitarie a formulare la propria “assicurazione della qualità” in modo sinergico e virtuoso con le specificità proprie e del contesto socioeconomico in cui esse operano.

A valle della definizione delle richieste normative appena ricordate, la stessa ANVUR è stata investita del compito di svolgere la valutazione delle attività di AQ degli Atenei italiani, con la finalità, dichiarata sin dal D.lgs n. 19/2102, di verificarne la compatibilità con un livello di qualità minimo richiesto per l’accreditamento e, altresì, di accompagnare gli Atenei in un processo di miglioramento continuo. Coerentemente a tale finalità, quindi, non è mai stato elaborata, quale obiettivo dell’esercizio AVA e delle attività di valutazione dell’ANVUR, la definizione di una classifica** della qualità degli Atenei italiani, che d’altronde non sarebbe evincibile dall’esercizio valutativo ed autovalutativo rappresentato nelle Linee Guida AVA. Infatti, è noto quanto la complessità degli organismi universitari, la cui conoscenza richiede analisi profonde ed onerose, abbia reso gli esercizi di ranking una sfida impegnativa e un tema di grande attualità per ricercatori e decisori pubblici.

A fronte di tali premesse, però, le attività di preparazione degli Atenei italiani alla verifica dei propri sistemi di AQ sono divenute col tempo sempre più complicate ed onerose, poiché si è verificata una continua crescita di richieste di cura di dettami formali da parte di ANVUR***. Gli Atenei sono stati progressivamente travolti da un affannoso esercizio di compilazione di un numero sempre maggiore di documenti, in cui dettagliati aspetti dell’esercizio dell’AQ devono trovare visibilità, secondo un approccio sempre più burocratico, caratterizzato da un bizantinismo che ha fatto via via perdere il focus degli obiettivi sostanziali dell’operazione AVA. Si è in pratica generata una preoccupante deriva del sistema, che dalla cura della sostanza, è stato sempre più indirizzato verso una eccessiva preoccupazione per gli aspetti formali. Con il complicarsi del telaio di Punti di Attenzione, per cui gli Atenei devono produrre documenti che rappresentino oggettivamente il loro operato per ogni Requisito AVA (oggi in numero di 34 Punti di Attenzione), gli Atenei oggi ottemperano a una enorme sequenza di operazioni tecniche di cui sfugge il senso, che devono essere illustrati in un amplissimo numero di documenti.

Nonostante questo deciso ampliamento dell’apparato documentale che ogni Ateneo deve preparare per la valutazione da parte dell’ANVUR, la valutazione viene svolta, in un tempo relativamente breve, da Commissioni di Esperti della Valutazione, CEV, composte primariamente da docenti, ma anche da personale amministrativo universitario e da studenti. I docenti componenti delle CEV, dunque, oltre a svolgere il lavoro ordinario di ricerca e didattica nel proprio Ateneo, scelgono di sobbarcarsi il compito di valutare l’operato di altri Atenei. La valutazione avviene attraverso un’analisi a distanza, basata sull’apparato documentale che l’Ateneo oggetto di valutazione sottomette nel contesto di un Prospetto di Sintesi, a seguito di una breve visita presso la sede valutata.

È ovvio che l’onerosa attività che i componenti della CEV devono profondere nella valutazione, a latere delle proprie attività ordinarie, impone limiti al tempo che questi possono dedicare all’analisi dei documenti prodotti dall’Ateneo oggetto di valutazione, nonché al tempo di visita dell’Ateneo, che solitamente dura pochi giorni. Si tratta, quindi, di tempi assai lontani da quelli che sarebbero necessari per una conoscenza approfondita di organismi complessi quali sono quelli universitari. Le CEV devono smaltire la lettura e, teoricamente, lo studio, di una mole di documenti che, pur se limitata dai dettami di compilazione del Prospetto di Sintesi, è enorme, soprattutto se si intende svolgere un minimo di approfondimento nell’analisi, essendo numerosissimi i documenti che nella loro connessione mirano a restituire una valutazione «oggettiva» dell’attività di ogni Ateneo. L’impegno richiesto da questo lavoro di valutazione è tale che, in una logica di ottimizzazione, nel corso del tempo è divenuto usuale che i componenti delle CEV seguano Corsi di Formazione**** dedicati all’insegnamento di metodiche di lettura e giudizio in tempi brevi dell’apparato documentale degli Atenei. Col tempo il sistema ANVUR ha inaugurato un sistema di reclutamento delle CEV, curandone la formazione, oggi erogata proprio da componenti CEV con maggiore esperienza, che sono diventati gli ideatori del sistema di regole promulgate dall’ANVUR, oggi divenute assai più complesse delle originali Linee Guida AVA*****. Accade, dunque, che alcuni esperti CEV siano gli ideatori del sistema di cui verificano l’applicazione in seno agli Atenei italiani, per cui l’interpretazione dell’esercizio dell’AQ da parte degli Atenei è diventata sempre meno libera, dovendosi adeguare a una forma precostituita, teorizzata dagli esperti di AQ.

Dunque, i componenti delle CEV intraprendono un percorso di attività nel corso del quale adottano tecniche di lettura efficiente dei documenti conferiti nei Prospetti di Sintesi per verificare che i documenti si attengano a codici precostituiti, seguendo l’omologazione che l’AQ ha progressivamente imposto agli Atenei italiani. Seguendo questa impostazione, le CEV non hanno più né il tempo, né la libertà necessari per un’analisi critica profonda della realtà complessa e variegata dei diversi Atenei italiani, generalmente condizionata dal contesto e dalla storia. L’analisi dei troppi aspetti di dettaglio oggi posti sotto esame dal meccanismo di valutazione appare infatti richiedere la definizione di un vademecum di tecnicismi che, secondo logiche mutuate dalla certificazione di qualità in uso nell’industria e nelle imprese, sono oggi contemplati sia per la valutazione a distanza che per l’interrogazione del personale dell’Ateneo durante la visita.

La logica industriale delle verifiche per l’accreditamento degli Atenei italiani ha così reso sempre più distante l’esercizio di valutazione dalla conoscenza del vissuto reale, storico e territoriale degli Atenei, dalle loro concrete difficoltà e sfide nell’esercizio della formazione e nello svolgimento della ricerca, in contesti la cui problematicità appare oltremodo diversificata nel nostro Paese. L’esercizio della valutazione si è conseguentemente inaridito, riducendosi alla verifica dell’ossequio di una serie di regole astratte, sempre meno utili alla reale assicurazione della qualità delle attività degli Atenei.

Al contempo, però, nel contesto della docenza universitaria si è costituito un cospicuo gruppo di docenti che hanno sviluppato le regole per giudicare in maniera efficiente i sistemi di AQ degli Atenei. Un gruppo che ormai si configura come una Casta delle CEV, che elabora, implementa e valuta il metodo secondo cui va giudicato l’operato di migliaia di professori, ricercatori, tecnici, amministrativi e studenti, componenti l’organismo universitario. Il metodo permette di esprimere un giudizio suggellato da un voto che fa convergere l’Ateneo in una determinata fascia di valutazione, resa ormai pubblica nel contesto di un ranking nazionale, di cui, però, non è più noto l’obiettivo.

Ed è soprattutto con riferimenti ai casi di maggiore complessità – laddove le attività di AQ sono state articolate in seno all’Ateneo con maggiore autonomia di pensiero, onestà intellettuale e garanzia verso l’autenticità delle azioni poste in essere, per una reale soluzione dei problemi – che le tecniche di valutazione delle CEV vanno in sofferenza e, paradossalmente, tendono ad esprimere un giudizio negativo. Infatti, una attività di AQ robusta nella sostanza e volta al superamento di inerzie di sistema può non essere rappresentabile dalla serie di espressioni tecniche precostituite attese in sede di valutazione, che risultano riduttive rispetto alla complessità delle problematiche sociali, territoriali e politiche che l’Ateneo ha eventualmente cercato di affrontare. Ed in questi casi si verifica che i tecnicismi analitici adottati dalle CEV sacrificano la profondità del lavoro svolto, risolvendosi in giudizi che possono non cogliere le azioni di miglioramento sostanziali, per il sol fatto che esse non appaiono conformi al format di AQ precostituito che le CEV si attendono di riscontrare.

La domanda allora è: in che modo un giudizio sulla qualità di un Ateneo, in poche settimane di lettura di documenti e con pochi giorni di visita, potrebbe essere espresso senza ricorrere a tecnicismi? Come potrebbero altrimenti i componenti di una CEV approfondire, in poco tempo, la conoscenza di organismi universitari cui sono estranei, che risiedono in contesti socioeconomici totalmente diversi da quelli di loro provenienza? Domande che ci si dovrebbe porre, se è vero che oggi la CEV si cala nella realtà dell’Ateneo con una visita spot, durante la quale gli ospitanti impauriti cercano di mettere in scena il repertorio di accoglienza migliore possibile, al termine di una forsennata corsa all’aggiustamento delle ultime carte, all’aggiusto degli ultimi servizi (bagni, insegne, proiettori nelle aule, laboratori in cui è prevista la visita) lungo i corridoi ed i viali che saranno percorsi dalla CEV durante la visita, realizzando una recita avvilente tanto per i padroni di casa, che per la CEV. Acme di questa realtà è il codice di distanziamento dalla CEV che gli ospitanti sono invitati a rispettare, affinché la CEV non venga infastidita da possibili richieste di compassionevole comprensione verso lacune o deficienze del sistema di AQ dell’Ateneo. Nel mentre, il comportamento dei componenti della CEV oscilla fra due poli: a quanti mal sopportano la fatica dell’oneroso tour ispettivo, mostrando consapevolezza per il carattere per molti versi grottesco della visita effettuata, si contrappongono quanti professano orgoglio per il proprio ruolo e si mostrano risoluti ad interpretarlo con severità, pur sapendo che il giorno dopo la fine della visita tutto nella sede verrà dimenticato e tornerà come prima. Se i bagni non funzionavano, torneranno a non funzionare; se le decisioni non erano collegiali e trasparenti, rimarranno tali; se le analisi di contesto erano epidermiche, rimarranno epidermiche, ecc. ecc. Uno scenario in fondo non così lontano dalle celebri ispezioni immortalate nel film Gli anni ruggenti.

A dispetto di queste consapevolezze, nella sua visita ispettiva la CEV interroga docenti, personale tecnico-amministrativo, il Rettore, il Direttore Generale e gli studenti, che sembrano imputati in un confronto che appare condotto secondo una rigida etichetta formale. Docenti con i capelli bianchi e di visibilità internazionale per le loro competenze, che farfugliano imbarazzati perché non ricordano il Descrittore di Dublino numero x, o sono rimproverati per non aver ben compilato la loro Scheda di Insegnamento, mentre la CEV non riesce ad avere alcun contatto con le problematiche reali dell’Ateneo, ossia con quegli aspetti che sarebbero determinanti per un giudizio critico e costruttivo, funzionale al miglioramento del sistema. La CEV conduce solo una verifica formale, in un’atmosfera che non permette alcun confronto libero, autentico, necessario per ricavarne Raccomandazioni davvero utili e coerenti con l’obiettivo originale dell’esercizio di valutazione, ossia: il miglioramento continuo. Nonostante ciò, al termine dell’esercizio la CEV giunge ad esprimere il suo giudizio, che contribuisce a suggellare una classifica pubblica.

Occorre porsi a questo punto due domande cruciali. La prima: qual è oggi la finalità dei giudizi espressi dall’ANVUR a seguito del lavoro delle CEV? La seconda: perché i giudizi delle CEV, poi ratificati e solo talvolta rivisitati dal Consiglio Direttivo dell’ANVUR, vengono adottati per definire un ranking reso pubblico sul sito ANVUR? La finalità di questo onerosissimo processo non appare più chiara (così come, in effetti, non appariva ai suoi primordi), nonostante questo processo assorba enormi energie ad Atenei già ingolfati da compiti molto più importanti, quali: l’orientamento nei confronti degli studenti universitari, in un paese nel quale la formazione scolastica si è fortemente indebolita e il tasso di formazione universitaria rispetto al totale della popolazione è tra i più bassi di Europa; l’attività di placement per aiutare i laureati a trovare lavoro; il supporto ad attività di ricerca avanzata che va condotto nonostante il finanziamento statale della ricerca sia il più basso in Europa. Come noto, l’impostazione di qualsiasi esercizio di valutazione dovrebbe dipendere dalla finalità della valutazione, che in questo caso non può essere la definizione di un ranking delle Università italiane, per diversi motivi.

Il primo è che le attività propedeutiche al giudizio dell’ANVUR sono totalmente inadeguate a produrre un ranking veritiero e affidabile delle Università italiane, anche se lo si voglia circoscrivere al sistema di AQ dell’Ateneo. Il secondo, ancor più importante, è che un ranking delle Università italiane fine a sé stesso contraddice il ruolo che la Costituzione assegna all’Università italiana, quello di fornire a tutta la popolazione, equamente, l’opportunità di acquisire formazione per svolgere un lavoro evoluto e contribuire allo sviluppo del Paese. In questo spirito, le Università sede di sistemi deboli di AQ andrebbero esaminate con maggiore profondità ed assistite, perché in esse si attivi un miglioramento del sistema. Viceversa, i giudizi dell’ANVUR sono spesso deboli proprio nelle Raccomandazioni, di frequente non pertinenti agli aspetti di maggiore criticità. Inoltre, la verifica nel tempo dell’ottemperanza delle Raccomandazioni dopo la visita è assai poco pregnante e spesso viene rimandata alla visita successiva: le valutazioni di norma vengono  portate a conoscenza degli atenei a distanza di un anno dalla effettuazione della visita. Si tratta, quindi, di una valutazione disallineata dal dettato costituzionale, atta a produrre solo una preoccupante classifica, decontestualizzata dalla realtà del «Sistema Paese».

La seconda domanda riguarda le motivazioni che muovono molti docenti oggi ad ambire di entrare a far parte della Casta delle CEV, per contribuire a questo processo valutativo così oneroso per il sistema universitario. A fronte di moltissime giornate di lavoro, il compenso dei componenti delle CEV è irrisorio. Tuttavia, l’incarico di componente CEV è ambito, probabilmente poiché permette di entrare a far parte della Casta dei docenti che esercitano il giudizio, il che consente di esercitare una forma di potere. Dunque, a quanti aderiscono in maniera intellettualmente onesta a questa Casta andrebbe chiesto: siete consapevoli degli effetti che l’esercizio che conducete sta generando negli Atenei italiani? Siete consapevoli di come le vostre fatiche possano indurre gli Atenei italiani in maggiore difficoltà ad abdicare al proprio ruolo di propulsore dell’emancipazione dei territori di influenza da uno status di debolezza culturale e dal ruolo di traino dello sviluppo socioculturale e produttivo del paese? Siete consapevoli di quanto siano pericolosi i ranking che conseguono ai giudizi di cui siete artefici? Siete consapevoli di come la Casta di cui fate parte stia imbrigliando il sistema universitario in un onerosissimo sistema di codici, che come tale non può più essere fonte di reale crescita della qualità delle attività degli Atenei? Siete consapevoli di come tale sistema si mostri ormai squilibrato rispetto ai reali problemi affrontati dagli Atenei nei propri territori di influenza?

Un esempio pregnante dei tanti dettami formali di cui le CEV verificano l’attuazione nel contesto della valutazione è offerto dal caso delle Schede di Insegnamento, cui molte CEV prestano grande attenzione durante la valutazione dell’AQ della didattica (Requisito R3). Col tempo sono state infatti introdotte regole che i docenti devono rispettare nello stilare i propri programmi di insegnamento, a garanzia di una omogeneità di presentazione dei contenuti degli insegnamenti e della corrispondente organizzazione didattica. Tali schede impongono, inoltre, che si esplicitino gli aspetti dell’insegnamento coerenti con i Descrittori di Dublino. L’aspetto positivo di tale operazione è stato quello di fare in modo che i docenti definiscano i contenuti e le metodologie di insegnamento coerentemente all’intera filiera formativa del corso di studi in cui l’insegnamento è inserito, secondo un senso di responsabilità del proprio ruolo all’interno dell’intero progetto formativo del CdS. L’articolazione espositiva delle Schede di Insegnamento è però progressivamente diventata piuttosto complicata, tanto da rendere detti contenuti poco limpidi agli occhi degli studenti. Inoltre, tale articolazione richiede di chiudere la scheda indicando dei ‘Requisiti Minimi’, che spesso le CEV hanno ritenuto erronei, come verificabile nelle loro Relazioni. L’enfasi spesso attribuita alla verifica di tale aspetto appare tanto più paradossale se si considera la dubbia liceità della richiesta di esporre nelle Schede di Insegnamento dei ‘Requisiti Minimi’ per il superamento di un esame, dato che esporre tali requisiti in poche righe è assai poco educativo per gli studenti ed è offensivo verso i docenti. Infatti, nella definizione dei Requisiti Minimi è presupposta una mancanza di fiducia nei confronti della capacità di giudizio e valutazione della preparazione dello studente da parte del docente, un elemento che, se preso sul serio, dovrebbe indurre a mettere in dubbio l’intero meccanismo di reclutamento della docenza. Inoltre, la definizione dei requisiti minimi implicitamente presuppone una formazione nozionistica, la sola che può permettere di definire un numero minimo di nozioni che lo studente deve conoscere per superare l’esame. L’assunzione implicita che la formazione universitaria debba essere nozionistica è un dato molto grave, per quanti concordino nel ritenere che la formazione universitaria dovrebbe essere funzionale allo sviluppo di una capacità critica, che non è rappresentabile in termini quantitativi, nel contesto di una assai breve descrizione. Infine, la definizione dei Requisiti Minimi sembra implicare che l’appello di esame sia oggetto di una sorta di contrattazione tra il corpo docente e quello studentesco per il superamento dell’esame, in una Università cui sembra imposto di assomigliare sempre più a un esamificio, invece che a un luogo di crescita del pensiero, ove gli studenti investono per lo sviluppo della propria formazione. È assai triste, dunque, constatare che dopo i decenni di battaglie contro la formazione nozionistica in sede scolastica, cui i nostri predecessori si sono dedicati nel XX secolo, si sia oggi giunti, nel 2020, ad imporre normativamente passi indietro di questa portata in sede universitaria!

A fronte di ampie discussioni su aspetti di dettaglio, sono invece generalmente molto limitate le verifiche che le CEV svolgono sui Piani Strategici degli Atenei italiani, dedicando spesso limitata attenzione a come siano state condotte le analisi del contesto socioeconomico cui la strategia di sviluppo della formazione dell’Ateneo ed i filoni di ricerca sono rivolti. È noto quanto sia difficile svolgere analisi di contesto capaci di fornire un indirizzo alle scelte di pianificazione degli Atenei. Si tratta di analisi che dovrebbero condurre gli Atenei ad individuare le aree tematiche verso cui veicolare le proprie energie di formazione e ricerca, per il progresso della società, integrando la visione locale con quella globale. I Piani Strategici delle Università Italiane, ormai di frequente piuttosto schematici e concisi, sono invece il più delle volte simili nello stile e nell’indice dei contenuti, tesi a mettere in evidenza aspetti formali di efficienza, di competitività e di adesione a un modello omologato di formazione e produzione scientifica, auspicabilmente utile a scalare graduatorie internazionali delle strutture accademiche, ma disconnesso dai bisogni del paese reale con i suoi problemi di sviluppo.

Nel complesso, dunque, gli esercizi di valutazione per l’accreditamento inducono le Università italiane ad abdicare al ruolo di luogo di elaborazione di un pensiero critico che possa essere motore di politiche di salvaguardia e miglioramento del benessere della società civile. Appare urgente tornare alla domanda che si è già formulata:

qual è il fine di questa valutazione? Quale scopo attribuiamo alla costruzione di un apparato di regole e di operazioni di verifica da cui esita un ranking degli Atenei italiani di assai dubbia significatività e costituzionalità?

ANVUR e il Ministero non possono più ritardare questo chiarimento, poiché le crescenti richieste dell’ANVUR e l’inarrestabile complessità che le metodiche di verifica di cui si è detto hanno finito per imprimere a questo sistema di valutazione appaiono ormai lontanissime dal perseguire l’obiettivo del miglioramento della qualità del sistema universitario italiano che la legge Gelmini aveva enfaticamente sbandierato. Se gli obiettivi non sono più quelli iniziali e non sono oggi dichiarati, è inevitabile che i risultati delle valutazioni si prestino ad essere strumentalizzati, per classificare le Università in Atenei di serie A, B e forse C, in una tassonomia che non ha alcun ancoraggio nella normativa vigente e che se mai fosse recepita dal legislatore andrebbe incontro a gravissime censure di incostituzionalità.

Quel che si può dire con ragionevoli margini di certezza è che il sistema della valutazione venutosi a creare nel decennio trascorso dalla emanazione della legge Gelmini oggi è funzionale ad alimentare il ruolo della Casta delle CEV. Infatti, non solo la dinamica della casta, ufficializzata dalla creazione di un apposito albo sovrinteso da ANVUR, garantisce ai suoi componenti un ruolo, ma è ormai sotto gli occhi di tutti che tra i componenti più esperti della Casta vi sono quelli che definiscono le regole cui gli Atenei devono attenersi per l’accreditamento. A questi vengono quindi rivolte, da parte degli Atenei italiani, innumerevoli richieste di spiegazioni e, finanche, di formazione per la preparazione dell’Ateneo all’accreditamento. Una formazione conferita attraverso corsi, spesso amministrati in seno alla fondazione CRUI,  cui quasi tutti gli Atenei italiani non rinunciano, investendo cospicue risorse dai propri bilanci. La dinamica dell’accreditamento dei corsi di studio prevista dall’AVA, che è in gran parte coincidente con quella prevista per alcune forme di accreditamento di corsi di studio a livello europeo, è anche diventata in alcuni casi oggetto di formazione in seno ad Associazioni o Agenzie, che talora includono nella direzione, o nel contesto della docenza, anche componenti delle CEV. L’ANVUR dovrebbe dunque, fornire urgentemente un chiarimento a livello nazionale su cosa rappresenta la verifica per l’accreditamento degli Atenei italiani, pubblici o privati, e dovrebbe definire procedure che dirimano i conflitti di interesse che appaiono emergere nel contesto delle dinamiche di formazione degli atenei per l’accreditamento, portando trasparenza nell’esercizio di valutazione degli Atenei, al momento ingolfato da dubbi, contraddizioni e gravi delusioni.

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* Questo articolo è stato redatto da qualcuno che ha maturato una lunga esperienza nelle procedure di valutazione degli atenei italiani, svolgendo le funzioni di componente di un CEV e che per motivi di opportunità e per non danneggiare l’Ateneo nel quale presta servizio ci ha chiesto l’anonimato.

** La legge prevede delle fasce di valutazione, cui le Linee Guida, evolutesi nel tempo, hanno fatto riferimento, enunciando gli intervalli di voto per ogni punto di attenzione (in base a come viene ottemperata dall’ateneo la richiesta esposta nel punto di attenzione), che vengono fatti rientrare nelle fasce di valutazione. Il voto finale complessivo, a due decimali, e la fascia di valutazione alla fine della visita, sono pubblicati sul sito ANVUR, per tutti gli atenei visitati. Ciò che non è stato mai scritto, nella legge e nelle linee guida, è che il voto e la fascia sarebbero stati pubblicati e, quindi, che ne sarebbe conseguita una classifica pubblica.

*** Questa evoluzione e queste richieste sono spesso conseguite a valutazioni di ‘Buone Pratiche’, analizzate in seno all’ANVUR ed al suo Consiglio Direttivo, supportato dal know-how di Esperti di Valutazione di AQ, “sistemisti”, che in molti casi sono anche docenti della materia, che rientra nell’ambito dell’ingegneria meccanica e industriale, o gestionale. Molti di questi docenti sono poi anche nei CEV, e spesso ricoprono la carica di Presidenti della CEV che deve essere guidata da un esperto di sistema.

**** Si tratta dei Corsi di Formazione dei componenti delle CEV, organizzati dall’ANVUR, i cui docenti sono gli “Esperti di Sistema AQ”. I Corsi sono pubblicati sul sito ANVUR e sono gratuiti per chi si iscrive. Forse perché l’albo dei valutatori CEV è stato creato, questi corsi negli ultimi tempi non sono stati più tenuti. E’ in questi contesti che è stato generato il “metodo” cui devono aderire le università, senza che tale metodo sia citato però nelle Linee Guida.

***** Queste “regole” sono frutto di aggiustamenti di dettaglio, di cui le Università sono edotte attraverso Corsi di Formazione cui sono invitati a partecipare docenti, amministrativi coinvolti nelle sedi universitari per curare il sistema di AQ. In questi corsi si illustrano le buone pratiche e si introducono le istruzioni per elaborare matrici, analisi, schede di insegnamento, ecc. L’ultimo di questi eventi si è tenuto presso ANVUR nel 2018. I corsi sono principalmente erogati dall’ANVUR o dalla Fondazione CRUI. Ne sono docenti gli esperti di sistema e membri di CEV. I corsi sono a pagamento; vi si iscrivono singoli o gli atenei a beneficio dei propri dipendenti.

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7 Commenti

  1. Articolo importante per farci riflettere sul da farsi in futuro per migliorare le università nell’interesse dei giovani di tutto il Paese.
    Bene l’assicurazione di qualità, ma con procedure snelle, senza bizantinismi, con contenuti chiari e volti a migliorare le università senza metterle in competizione fra di loro!

  2. Non si capisce tutto questo darsi da fare per valutare gli atenei, quando, dal punto di vista didattico, la primaria funzione ad essi attribuita è quella di esamifici. Il Decreto 3 novembre 1999, n.509, all’articolo 12, comma 2e, stabilisce che i regolamenti didattici di corso di studio determinino, tra le altre cose, “le disposizioni sugli eventuali obblighi di frequenza”. La frequenza è dunque una mera eventualità, cioè (secondo il vocabolario Treccani on line), possibilità o “meno bene, caso, combinazione, evenienza: tenersi pronto per ogni e.; se si desse l’e.; nella fortunata e. che …, ecc. …”. Sarebbe interessante verificare quanti corsi di studio in Italia prevedono l’obbligo di frequenza, e per quanti e quali corsi attività didattiche

  3. Ottimo articolo, di cui condivido numerosi passaggi.
    Ho vissuto dal di dentro, sia come membro del Nucleo di Valutazione che come membro di un Corso di Studio valutato, il fatidico momento della visita di accreditamento. E ne sono rimasto abbastanza deluso: tanto per Ateneo che per CdS, a mio parere, la CEV non è riuscita a vedere i punti di forza e quelli di debolezza, e a determinare un vero miglioramento. Alla fine mi sono posto la stessa domanda che si pone l’autore dell’articolo: che senso ha continuare con una procedura così costosa e sostanzialmente inutile (e perfino dannosa, dato il tempo sottratto alle attività di ricerca e didattica)?

  4. Personalmente sono abbastanza disturbato da queste procedure di accreditamento e di valutazione dell’università, anche se questo potrebbe essere un problema mio, trovandole gravose ed inefficaci. Probabilmente però si tratta di strumenti necessari anche se vedo grandi difficoltà a renderli davvero oggettivi. Quello che però credo sia davvero importante è che si ricordi sempre che si tratta di strumenti e che vanno distinti dall’Università stessa, così come, ad esempio, certamente questa istituzione opera in degli edifici che devono essere adeguati ad accoglierla permettendone una buona operatività, ma che pure da essa sono distinti. Per queste ragioni ho sempre in mente la definizione di Università fatta da Pirsig nel suo bellissimo libro, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Questa definizione, riferita agli anni 70, quando nella società statunitense e mondiale dall’università partiva una forte contestazione verso il potere costituito, mentre è invece paradossale che adesso sembra accada il contrario, mi pare oggi sempre molto valida e da perseguire:
    “The real University, he said, has no specific location. It owns no property, pays no salaries and receives no material dues. The real University is a state of mind. It is that great heritage of rational thought that has been brought down to us through the centuries and which does not exist at any specific location. It’s a state of mind which is regenerated throughout the centuries by a body of people who traditionally carry the title of professor, but even that title is not part of the real University. The real University is nothing less than the continuing body of reason itself.
    In addition to this state of mind, reason, there’s a legal entity which is unfortunately called by the same name but which is quite another thing. This is a nonprofit corporation, a branch of the state with a specific address. It owns property, is capable of paying salaries, of receiving money and of responding to legislative pressures in the process. But this second university, the legal corporation, cannot teach, does not generate new knowledge or evaluate ideas. It is not the real University at all. It is just a church building, the setting, the location at which conditions have been made favorable for the real church to exist.” (Zen and the Art of Motorcycle Maintenance, New York: Bantam, 1981).”

  5. Condivido al 100% l’analisi impietosa e disincantata dell’Anonimo Componente della CEV. Questo esercizio ha ormai raggiunto un livello di autoreferenzialià intollerabile. Non si tratta più di garantire la meritocrazia, bensì di incarnare la scartoffiocrazia.

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