Il neo Ministro Stefania Giannini si è dichiarata favorevole a una rimodulazione della normativa sui c.d. punti organico (P.O.), e le sue dichiarazioni sembrano segnare una svolta rispetto agli orientamenti prevalenti al MIUR negli ultimi anni. Ricordiamo che i punti organico assegnati dal Ministero alle Università definiscono i vincoli del turnover e, dunque, le possibilità di reclutamento delle singole sedi. Ricordiamo anche che l’ex Ministro Carrozza ha avallato una incredibile redistribuzione dei P.O. a danno di quasi tutte le Università meridionali, la cui logica appare tuttora sfuggente.

In effetti, è difficile vedere altra ratio nella normativa sui punti organico se non quella di bloccare il reclutamento in alcune sedi, per portarle gradualmente alla chiusura e per arrivare a un modello – di matrice anglosassone – ­con distinzione fra research e teaching universities. Si può ricordare, a riguardo e fra le altre, la dichiarazione di Sergio Benedetto, membro del consiglio direttivo ANVUR, per il quale:

“Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta”.

E si può ricordare anche la proposta di Francesco Giavazzi di chiudere le Università di Bari, Messina e Urbino, a ragione della loro bassa qualità come certificata dalla VQR.

Si consideri “eccellente” uno studioso che ha conseguito i punteggi massimi nell’ultimo esercizio VQR, e si consideri eccellente una sede universitaria che risulta, per tutti i settori disciplinari, qualitativamente superiore alla media. Il problema del progetto Debenedetto-Giavazzi et al. risiede nel fatto che si tratta di un progetto molto difficilmente realizzabile, sia per ragioni tecniche, sia per ragioni politiche, e, sotto molti aspetti, non desiderabile per l’efficienza dell’intero sistema universitario nazionale.

Per realizzarlo occorrono i seguenti passaggi, che prefigurano una vera e propria corsa a ostacoli.

1) Consentire la piena mobilità dei docenti fra Atenei, dando agli Atenei stessi la facoltà di reclutare senza concorso. Diversamente, poiché – come è stato fatto notare – l’attuale configurazione del sistema universitario nazionale è un modello a “eccellenze diffuse”, non si capirebbe in che modo gli Atenei “eccellenti” possano essere tali (ovvero, mantenere la propria condizione di “eccellenza” e accrescere la loro produttività) senza poter occupare i migliori docenti italiani ed esteri. A normativa vigente, i trasferimenti di sede sono di fatto bloccati, dal momento che l’avanzamento di carriera di un docente esterno costa notevolmente più dell’avanzamento di carriera di un docente interno e, in una condizione di sottofinanziamento della gran parte degli Atenei italiani, è arduo immaginare che si proceda in massa al reclutamento di docenti esterni. E, a normativa vigente, occorre comunque passare per un concorso, con la possibilità che risulti vincitore un ricercatore non ritenuto “eccellente” dal Dipartimento che ha bandito, o un ricercatore che lavora su linee di ricerca estranee al Dipartimento che lo assume: dunque, occorrerebbe consentire chiamate dirette. E, poiché non è da escludere che a Dipartimenti di eccellenza interessi reclutare (p.e. per valorizzare una specifica linea di ricerca) anche docenti non abilitati, e neppure è da escludere che alcuni docenti non abilitati siano eccellenti, occorrerebbe consentire loro la massima libertà di assunzione, anche in violazione dei risultati dell’ASN.

2) Consentire la differenziazione del trattamento retributivo fra sedi universitarie diverse. In assenza di questo dispositivo, non si capirebbe per quale ragione un docente possa mai accettare di trasferirsi, assumendo peraltro un carico di lavoro che dovrebbe risultare più gravoso rispetto alla sede di provenienza. Se, infatti, la sede di provenienza è esclusivamente teaching, nella sede di arrivo ci si trova a erogare didattica non solo nelle lauree triennali, ma anche nelle lauree magistrali e nei Dottorati, con in più l’impegno della ricerca.

3) Consentire di assumere senza rispettare i vincoli della “piramide” – per i quali deve esistere una percentuale ‘ottimale’ di professori ordinari in ciascun Ateneo – e senza rispettare i vincoli sul reclutamento di esterni legato all’avanzamento di carriera di interni. Ciò a ragione del fatto ovvio che l’”eccellenza” è propria dei ricercatori, come dei professori associati e come dei professori ordinari.

Una rivoluzione – o “svolta epocale”, come l’ha definita l’ex Ministro Mariastella Gelmini – di tale portata sarebbe giustificabile se il sistema universitario italiano fosse fra i peggiori al mondo. Ma è proprio l’ANVUR, nel suo primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca, a certificare che la produzione scientifica italiana non è affatto trascurabile, sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo, e che anzi, per alcune aree di ricerca, l’Italia si colloca fra i primi posti nell’ambito dei Paesi europei e dei Paesi OCSE.

In più, se, come pare di capire, la direzione verso la quale si intende andare è questa, il metodo meno efficace per giungervi è quello fin qui usato: l’ipertrofia normativa, che, in ultima analisi, finisce per penalizzare anche le Università candidabili come “eccellenti”.

Ancora, la chiusura di sedi universitarie non è desiderabile per almeno due ragioni. In primo luogo e prescindendo del tutto, in prima istanza, dalla rilevanza della ricerca scientifica – chiudere un Ateneo, soprattutto in città di piccole-medie dimensioni implica effetti economici rilevanti, e di segno negativo, sull’”indotto” che si associa a ogni sede universitaria (si pensi, a puro titolo esemplificativo, al mercato immobiliare per quanto attiene agli affitti per gli studenti, nonché ai loro consumi). In tal senso, la chiusura di sedi è innanzitutto di difficilissima praticabilità politica. In secondo luogo, se anche questa operazione avesse successo, vi è da dubitare che il sistema della ricerca e della formazione ne tragga vantaggio. Per i seguenti motivi:

a. Per quanto attiene alla ricerca, non vi è evidenza del fatto che una forte concentrazione dei fondi per poche sedi accresca la quantità e la qualità della ricerca stessa. Come recentemente riportato da “Nature”, i ricercatori italiani risultano estremamente produttivi nel confronto con i loro colleghi della gran parte dei Paesi OCSE, pure a fronte del fatto che, a differenza di altri Paesi, in Italia non esiste la distinzione fra università research e teaching[1].

b. Per quanto attiene alla formazione, è evidente che la chiusura di sedi accentua l’immobilità sociale, se non altro perché è verosimile che le Università di eccellenza chiedano tasse più alte (e per i costi di spostamento degli studenti dalla loro residenza ai luoghi di studio). Si può ricordare che, su fonte OCSE, l’Italia è, assieme al Regno Unito e agli Stati Uniti, il Paese nel quale è massima la probabilità che figli di famiglie con basso reddito percepiranno redditi bassi, e figli di famiglie con alto reddito percepiranno redditi elevati.

Se si riconosce che un’elevata qualità della ricerca e un’elevata mobilità sociale sono fattori di crescita economica (e sarebbe piuttosto difficile non riconoscerlo), occorre concludere che il progetto Benedetto-Giavazzi et al. – proprio perché rischia di generare effetti negativi su ricerca e mobilità sociale – è decisamente da respingere.

 

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118 Commenti

  1. Caro Donatelli, potrebbe spiegarmi (e sono veramente interessato a capirlo) su quali basi lei fonda questa affermazione:
    “Azzardo però che se le risorse fossero più concentrate, ci potrebbero essere centri comunque d’interesse pur in un quadro generale non favorevole”. Grazie.

    • Lo riporti qui per comodità, ma l’ho postato ieri:
      “Naturalmente, bisogna intendersi sulle dimensioni e sulle tematiche. Ci sono situazioni in cui infrastrutture, laboratori, servizi posso essere limitanti, oppure se duplicati, possono avere un uso non ottimale. La dimensione può rendere anche l’ambiente più stimolante, per contatti, seminari, esposizione a specializzazioni diverse. Se ci si occupa di letteratura capisco che possa essere diverso. Ma tornando anche al punto precedente, se si è avuto la fortuna/merito di lavorare in posti come la Columbia University o Davis si da una dimensione ben precisa all’utilità di “concentrazione” di risorse e si capisce perché i ricercatori vogliano fare un sabbatical “là” e non “qui”.”. Saluti

  2. Caro Donatelli, il suo richiamo al “bisogna intendersi sulle dimensioni e sulle tematiche” mi pare traducibile così: “La concentrazione di risorse può funzionare, ma dipende …”, così che il suo argomento non ha carattere di generalità. Saluti

    • Certo, gli argomenti generali citati credo però che in ambiente scientifico abbiano spesso valore.
      Comunque, come corollario non si può generalizzare sulla negatività delle “concentrazioni”.

    • Obiezione! Per nessun tipo di politica di riorganizzazione possono esistere ricette uniche efficaci, ma ovviamente vale nei due versi.

  3. Gentile Marcello Donatelli, faccio riferimento al suo post del giorno 8 aprile 2014 h. 10:11: “In uno dei miei sabbatical presso la Washington State University (si puo’ dire), dovevano sostituire un full professor che andava in pensione. Aperta la posizione, selezionarono 3 candidati, invitati a fare un seminario e incobtrare il corpo docente. Fu assunto uno svizzero, tutt’ora professore.” Da quanto citato evinco 1. Lei in quell’occasione (ma non ne cita altre) non è risultato vincitore perché la commissione ha preferito il candidato di nazionalità svizzera. Nel mio post ho però sottolineato che non era certo questo il punto principale (i concorsi si vincono e si perdono per molti motivi e non mi interessa né mi permetto di dare un giudizio su di lei che nemmeno conosco. Mi limito a commentare le sue affermazioni). 2. Evinco anche che non è vero che in America “fanno assolutamente come vogliono”, perché c’è stata una bella selezione, da quanto lei stesso racconta e io stessa posso confermare, per quel che riguarda i miei rapporti con gli atenei americani: avevo 32 anni, lavoravo già presso la Humboldt di Berlino come Wissenschaftliche Mitarbeiterin (il primo gradino, in Tenure di 6 anni, per una eventuale carriera accademica) e Harvard chiese tre lettere di presentazione (possibilmente almeno due di professori diversi dal mio Paese di origine), il mio CV, le mie pubblicazioni in inglese o tedesco. Di quelle italiane avrei dovuto fare un abstract. Un colloquio con una commissione di 5 persone e l’illustrazione di un progetto di ricerca, eccellente conoscenza della lingua inglese certificata attraverso il TOEFL o anche autocertificata, ma soggetta comunque a verifica nel corso dei tre colloqui che seguirono la application, infine l’incontro con la facoltà. Tutto questo non per un posto di docenza, ma per essere ammessa come visiting scholar e più in là come free Lecturer nell’ambito di alcuni corsi specifici di cui non sono io la responsabile. Questo a lei sembra “fare assolutamente come vogliono”? Le assicuro che il concorso in Italia (tempo indeterminato) fu molto più semplice! E non mi dilungo sulla carriera in Germania.
    Se permette, dunque, la selezione è ben presente, a tutti i livelli, nelle università americane (tedesche anche peggio! Perché sono pubbliche e si vuole capire bene a chi vanno, come stipendio, parte delle tasse pagate da tutti i cittadini).
    Continuo a citarla: “Lasciamo perdere lo sdegno, c’e’ un mondo reale fuori da ambiti fino ora in parte autoreferenziali.
    A proposito, di quello che accade e non accade negli USA o all’estero sarebbe bene ne parlasse chi ci ha fatto sabbatical di mesi o anni.” Mi ripeto: sono indignata da superficialità e qualunquismo. E rivolgo a lei, che tra l’altro accademicamente è certo molto più maturo di me, l’invito che ha fatto a me, di parlare di ciò che conosco.
    Ma veniamo alla questione principale: le sembra un buon sistema per valutare la ricerca e il corpo docente accademico quello dell’ANVUR? O basta che ci sia qualche numero….? Eppure proprio lei, nell’elogiare il sistema americano, non ha parlato di numeri, ma di colloqui, di pubblicazioni, di un seminario tenuto davanti alla facoltà…non vedo medie e mediane, non vedo il conto delle pagine o dei vari indici bibliometrici etc.
    E ancora: le sembra che la ASN abbia risolto in qualche modo le questioni problematiche relative alla valutazione in ingresso e in itinere (come progressione di carriera) rispetto ai vecchi concorsi (tutti: da quelli nazionali a quelli locali)? Infine: le pare che, anche laddove il sistema americano venisse accettato come il migliore (solo per ipotesi!) sarebbe possibile attuarlo da un anno all’altro in un Paese come l’Italia, diverso sotto molti aspetti (a livello culturale e di sistema) da quello americano? È stato lei stesso a dire che un paragone è difficile da stabilire se si guarda ai finanziamenti di cui gode la sola Harvard e quelli dell’intero sistema universitario italiano. Quindi a questo punto sono confusa: cosa critica, esattamente, delle analisi di roars e delle risposte del prof. De Nicolao?
    Adesso davvero la saluto perché, come certamente anche lei, non posso trascorrere l’intero pomeriggio in rete a discutere con lei (o altri).

    • – Dove ha trovato scritto o sottinteso che io ho partecipato?
      – “Fanno quello vogliono” colloquiale rispetto alla situazione italiana; ma applicabile rispetto alla situazione italiana.
      – Prego, il contesto: il sistema americano dove non ci sono valutazioni nazionali, vincoli statali o federali ecc, proprio perché esiste responsabilità diretta. Quindi in contrapposizione al nostro.
      Ma ha letto lo svolgersi del thread o vuole solo esprimere sdegno perché c’è qualcuno che ritiene che con ASN ci siano più luci che ombre?

  4. Il DEF appena pubblicato prevede per R&S l’obiettivo al 2020 dell’1,53% del PIL,con obiettivo intermedio dell’1,4%, a fronte di un 1,23% attuale (+2,6% pubblico e -6,3% privato al 2012)con un gap di 0,8% rispetto alla media UE.
    ‘Le risorse pubbliche investite in ricerca costituiscono circa lo 0,52 per cento del PIL, lo 0,18 per cento in meno rispetto alla media OCSE, che corrisponde a circa il 30 per cento delle risorse pubbliche (istituzioni pubbliche e università) oggi investite. Alle minori risorse investite corrisponde un minor numero di ricercatori e un minor potenziale d’innovazione. Tuttavia, complessivamente università ed enti di ricerca mostrano una qualità delle pubblicazioni scientifiche paragonabile a quella dei principali Paesi Europei. Inoltre, in rapporto alle risorse investite e al numero dei ricercatori, la quantità e la qualità della ricerca è elevata’.
    Quindi vorrei sapere come potrà sopravvivere l’istruzione terziaria in questo paese. Circa le riforme che in genere sono costose, a meno di quelle a costo zero, che sulla base dell’esperienza sono in genere peggiorative, come si pensa possano essere finanziate?
    Circa le specifiche sulle distribuzioni, credo che la polemica a mezzo blog sia inutile, magari un seminario o convegno sarebbe eglio, ma supporre che gli altri non conoscano ciò di cui parlano non mi sembra una grande assunzione. Magari chi parla si occupa di distribuzioni di Pareto da lustri così come di eventi estremi o di rischio. magari anche di dinamiche caotche, e forse potrebbe aver avuto come maestri, il meglio che qust’approccio alla dinamica ha espresso. Forse il tema degli indici riguarda la teoria della misura e forse chi parla magari la studia dai tempi dell’università. Infine, forse, le cose sono un po’ più complesse di quanto ci racconta qualche libro divulgativo.

  5. Caro Donatelli, il sistema universitario italiano è, come (anche) qui ampiamente documentato, un sistema nel quale non vi è rilevante concentrazione delle risorse e nel quale la produttività scientifica è sostanzialmente in linea con la media UE. Se – come lei stesso ritiene – non vi è evidenza che un maggiore accentramento delle risorse accresca la produttività, mi può spiegare per quale ragione occorrerebbe, in Italia, ridistribuirle a poche sedi?

    • Le ho risposto ieri, lo ripropongo visto che me lo richiede:
      “Naturalmente, bisogna intendersi sulle dimensioni e sulle tematiche. Ci sono situazioni in cui infrastrutture, laboratori, servizi posso essere limitanti, oppure se duplicati, possono avere un uso non ottimale. La dimensione può rendere anche l’ambiente più stimolante, per contatti, seminari, esposizione a specializzazioni diverse. Se ci si occupa di letteratura capisco che possa essere diverso. Ma tornando anche al punto precedente, se si è avuto la fortuna/merito di lavorare in posti come la Columbia University o Davis si da una dimensione ben precisa all’utilità di “concentrazione” di risorse e si capisce perché i ricercatori vogliano fare un sabbatical “là” e non “qui”.”
      Ho anche aggiunto, circa la sua precisazione che non essendo generalizzabile il vantaggio di concentrazione non potesse essere oggetto di politiche:
      “Certo, gli argomenti generali citati credo però che in ambiente scientifico abbiano spesso valore. Comunque, come corollario non si può generalizzare sulla negatività delle “concentrazioni”
      Sulla produttività individuale, in altri parti di questo stesso blog si parla di vizi d’interpretazione: lo segnalo.

  6. Caro Donatelli, lei scrive: “Ho anche aggiunto, circa la sua precisazione che non essendo generalizzabile il vantaggio di concentrazione non potesse essere oggetto di politiche”. Si può dedurre che, secondo lei, non è possibile/opportuno, in Italia, distinguere Università teaching e reasearch?

    • Non credo sia una questione di distinzione a priori e tanto meno rigida, ma piuttosto di aver chiaro che non tutte le facoltà (più che sedi) dovranno necessariamente avere programmi di dottorato e ricevere fondi per ricerca di origine non-competitiva. Il punto naturalmente quali e perché. Non credo che possa essere basato su una valutazione retrospettiva, ma se le valutazioni (per carità, migliorabili) fissano uno standard, ad una data futura, e quindi ad altro giro di valutazioni, la decisione può essere presa, pur non definitiva. L’impatto dovrebbe ricadere su fondi statali, ma non si esclude a priori che una facoltà possa riguadagnare con altre fonti di finanziamento o per la politica di ateneo (che potrebbe avere eccellenze), riguadagnando anche fondi statali alla successiva valutazione.
      Nel momento in cui si fissa un obiettivo, chiaro, lasciamo perdere la polemica su indici bibliometrici, e ad esso si vincolano risorse, si ha una spinta verso l’eccellenza che in regime di “tutti uguali” può essersi sopita. In questo quadro può esserci concentrazione o meno, ma come risultante di raggiungimento o meno di obiettivi.

    • Il concetto di taching vs research university è completamente estraneo al panorama italiano. E, a meno di non voler decidere a tavolino quali devono essere le “reaserch” e quali e “teaching” (ma forse e’ quello che si vuole), non c’e’ modo sensato di farlo. La qualita’ della ricerca (per non parlare della didattica) è distribuita a macchia di leopardo.

      Piu’ sensato, per i dottorati discutere in funzione della qualità dei dipartimenti (le facoltà, peraltro ormai scomparse, non se ne sono mai occupate!). Ma… sorpresa! Questo c’e’ già da un pezzo! non e’ mica vero che qualsiasi Dipartimento ha un dottorato. Non è vero oggi e non lo era 10 o 20 anni fa.
      Vuoi vedere che come l’ Avaro di Molière avevamo situazioni “teaching” e situazioni “research” senza saperlo ?

      E allora non viene un po’ il sospetto che tutta la discussione sia fortemente connotata ideologicamente, sganciata dalla situazione reale e funzionale a altri obiettivi ?

    • I dottorati sono un punto, ma la sostanza sono i finanziamenti. Teaching vs. Research, se interessa, interessa come formalizzazione per attribuire/mantenere risorse. Il fatto che da una politica ci possano essere soggetti che ne possano risultare negativamente colpiti non vuol necessariamente dire che dietro le idee di cui si discute ci siano intenti diversi da quelli dichiarati.
      Il discorso teaching vs. research o qualsiasi altro criterio per discriminare su assegnazione risorse fa riferimento alla stessa problematica nella riorganizzazione di qualsiasi ente di ricerca, in cui, anche lì, ci sono “fazioni” tra assegnazioni/tagli lineari o differenziazione. Solo che negli altri Enti è ben ovvio che il concetto di intoccabilità delle strutture non è applicato.

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