Diceva il celebre storico della medicina, Mirko Grmek che la statistica è talora un calcolo molto preciso su dati male interpretati: «Se in un villaggio si trova che, in un determinato periodo storico compaiono malattie che non c’erano, la prima cosa da chiedersi è se è cambiato il medico. Se in un Paese s’introduce un servizio-sociale sanitario pubblico, il risultato sarà un aumento statistico delle malattie, un apparente peggioramento dello stato generale di salute, perché la gente che prima non andava dal medico adesso ci va!». Insomma, il problema è capire le vere cause di un fenomeno attestato dalle statistiche. Mutatis mutandis il discorso si applica al fenomeno della drammatica disoccupazione dei laureati. Dedurre dall’aumento dei laureati disoccupati che la colpa è solo dell’università è un modo di ragionare fallace.

L’Italia è un paese in piena de-industrializzazione: avevamo un’industria chimica di prima grandezza, non esiste più; potevamo avere posizioni di primo piano nell’informatica e ci facciamo ridicolizzare da paesi minori; la siderurgia traballa; l’industria automobilistica sta emigrando. Resta la media e piccola industria, pur boccheggiante sotto la ferula della burocrazia. Dove dovrebbero trovare posto i laureati? Oppure vogliam dire che occorre chiudere i corsi di laurea in chimica, matematica, fisica, e molti di ingegneria, o riciclarli in corsi di apprendistato funzionali a mansioni e «responsabilità aziendali a livelli minimi», come suggerisce Pierluigi Celli? Benissimo, questa è la via per ratificare la de-industrializzazione e ridurci a consumatori di tecnologie altrui. Si vantano i successi dell’università Luiss, i cui laureati sono tutti presto occupati: ma è un’università di economia, finanza e management, che non comprende settori scientifici e solo un frammento delle scienze umane. Forse l’università italiana dovrebbe plasmarsi tutta sul modello Luiss-Bocconi?

L’istruzione è sempre stata un canale importantissimo di impiego. Ma le politiche dissennate degli ultimi decenni hanno chiuso l’accesso ai giovani e la legge che prevede una ripartizione a metà degli accessi tra neo-laureati e precari è costantemente disattesa. Come stupirsi se chi, legittimamente, s’iscrive alla facoltà di lettere o a una facoltà scientifica per insegnare si vede preclusa ogni possibilità? È squallido fare retorica giovanilista mentre manteniamo un sistema dell’istruzione basato su una drammatica frattura generazionale.

Occorre scegliere tra adattare il sistema universitario alla crisi industriale del paese, o intervenire su quest’ultima per dar senso alla formazione di personale altamente qualificato. La prima via è quella del declino programmato. La seconda è l’unica speranza perché l’Italia resti un paese dotato di una scienza e una tecnologia avanzate, di una cultura umanistica degna del nostro patrimonio artistico-culturale.

Ciò detto, non è che l’università non abbia le sue colpe e non debba emendarsi. Ma non nel senso che dice Pierluigi Celli quando stigmatizza il comportamento dei docenti universitari: «Insegnano, spiegano il testo, salutano e vanno via». Il problema è chiedersi cosa fanno dopo aver salutato. Forse qualcuno va a far nulla, ma molti a partecipare a ingorghi pazzeschi di riunioni, a sequenze folli di adempimenti burocratici privi di senso. Il mondo confindustriale che ha ottenuto una posizione influente nel sistema di valutazione universitario non può sfuggire alla responsabilità di aver promosso il contrario di quel ogni giorno chiede per sé: dissolvere la cappa degli adempimenti burocratici a monte, per riservare le valutazioni a valle. Oggi l’università è oppressa da una selva pazzesca di adempimenti, valutazioni e controlli burocratici a monte che strangolano qualsiasi spazio per una seria didattica, per non dire della ricerca; tanto che di recente qualcuno ha prospettato la situazione non più irrealistica di due docenti sotto procedimento disciplinare per essersi scambiati in corridoio dei lavori scientifici. Forse non ci si rende appieno conto della situazione. Tanto per fare un esempio a caso, oggi un docente deve perder tempo a distinguere nella scheda d’insegnamento del corso le “conoscenze acquisite” e le “competenze acquisite” dallo studente, tutto rigorosamente al presente – «al termine del corso lo studente sa, riconosce» – in nome del successo formativo garantito. Oppure deve quantificare la percentuale di studio personale sul totale dell’impegno richiesto allo studente, come se tale percentuale potesse essere uguale per tutti. Si nominano commissioni per elaborare algoritmi di “sofferenza didattica” per evitare di cadere sotto la mannaia di parametri che fanno perdere corsi.

Il celebre matematico Bruno de Finetti definiva come “imbecillocrazia” le lontane manifestazioni embrionali di tale incredibile fenomenologia e contro di essa scrisse un “manifesto di battaglia”. Chissà cosa avrebbe fatto oggi. Forse si sarebbe arreso, lasciando il posto a chi gode nel fare queste cose. Difatti, la dittatura burocratica apre lo spazio ai peggiori elementi, e quindi l’unica speranza di risanamento è di spazzarla via, e non certo di trasformare l’università nell’incrocio tra un burosauro kafkiano e una scuola di formazione professionale.

 

(Pubblicato su Il Mattino, 12 marzo 2014)

 

Print Friendly, PDF & Email

28 Commenti

  1. Ottimo articolo che ouò essere chiosato ricordando ciò che disse in una memorabile lezione magistarle Siro Lombardini, che aveva studiato con Savage e altri a Chicago, datemi un pacchetto di dati e ventiquattro ore di tempo e vi dimostrerò una cosa e il suo contrario. Purtroppo, come i risultati delle recenti ASN in alcuni settori dell’economia testimoniano, siamo nell’era dell’econometria, che comunque trova sempre una qualche relazione causale. La teoria economica è stata soppiantata dalla cattiva statistica che legittima austerità espansive e livelli soglia nel rapporto debito/PIL. Una volta si impiegavano anni per meter a punto un articolo che cercava di descrivere (non prevedere) qualche comporatmento, ora si scrivono in pochi mesi batterie di articoli che spiegano il tutto, con buona pace della complessità. In una altro sio si è sostenuto che questa ASN ha in un qualche modo premiato la produttività scientifica dei candidati. Domandona: il prof G. Leti che insegnava statistica descrittiva suggerirebbe un’indagine semplice semplice: quanti commissari superavano i criteri che hanno adottato per non conceder la abilitazioni? Quanti dei membri delle commissioni che hanno adottato criteri bibliometrici o liste bibliometriche e hanno definto insufficiente la diffusione delle pubblicazioni dei candidati avavno un IF Scopus almeno pari a quello dei non abilitati? Chiudo suggerendo una lettura di The Map and the Territori di Alan Greenspan, si proprio lui, l’allievo a Columbia di Wald e Wolfowitz, in particolare il suo giudizio sull’econometria.

  2. Tra le varie perle proferite nell’intervista al Mattino – che ho appena letto – dal sig. Celli Pierluigi, figura anche l’auspicio: “Negli ultimi due anni delle lauree magistrali i giovani si preparino anche con lavori manuali”. Mi chiedo se sia il caso di stare a perdere tempo a commentare cose del genere.

    ps la mia era una domanda retorica. Ottimo articolo di Israel. E’ chiaro che c’è una parte del paese che vuole regredire. L’Università italiana, nel bene e nel male, ha ancora standard internazionali che la rendono omogenea a quella dei paesi più avanzati. Questo non va bene, deve tornare indietro anch’essa, si deve rinormalizzare; e allora mentre al MIT si fanno importanti progressi nell’Intelligenza Artificiale e si progettano i robot del futuro, qui, secondo il sig. Celli, si deve tornare al tornio. (il gioco di parole è dovuto).

    • Bravo Giorgio, come sempre.
      L’idea di Celli e c. in realtà è solo leggermente più sofisticata. L’idea (progetto?) è che per le elite intellettuali ci basteranno pochissime università (le solite note: Bocconi, Luiss, i due Politecnici). Quindi meglio concentrare le risorse su quelle, trasformandole in simil-Harvard, e tutte le altre o le chiudiamo o le mutiamo in più economici istituti professionali. Come diceva quello: “il futuro è un paese di camerieri” https://www.roars.it/nel-paese-dei-camerieri/

    • non ho letto l’intervista di Celli e stimo Israel. Detto ciò, non sarebbe male se i giovani si preparassero ad alcuni lavori manuali per i quali non sarà mai possibili impiegare robot. Penso subito a idraulici ed elettricisti, indispensabili. Quelli che conosco vengono da buoni istituti tecnici, sono bravi e guadagnano più di un ordinario.

  3. Scusate una domanda banale ma da quando la LUISS è annoverata nell’eccellenza? E l’autorevolezza del Prof Celli da quale straordinario contributo scientifico o culturale deriva? E, tanto per rimanere agli anni più recenti, qualcuno ricorda qualche strepitosa innovazione nella sua direzione della RAI?

    • Certo Scalas,

      ma ho l’impressione che non fosse quello il contesto delineato nell’intervista. In ogni caso, uno che vuole progettare motori (i cui pezzi si fanno col tornio) lei cosa fa, lo mette al tornio? Alla catena di montaggio? Oppure gli insegna i principi della temodinamica? Oppure facciamo una cosa: gli ingegneri italiani devono stare al tornio al controllo numerico (che non vuol dire molto) e quelli USA alla progettazione.

      Saluti, G Mingione

  4. ok, ma l’università di Bruno de Finetti era molto diversa dall’attuale. Non dico che dobbiamo tornare all’università di de Finetti, ma questa non funziona e non è adatta alla società attuale. Le università sono in crisi dovunque in Occidente, dappertutto si avverte che non funziona. Ovvio che i docenti si preoccupino subito se si dice che l’università è inadeguata, ma il compito principale dell’università non è offrire un luogo di lavoro ai docenti, ma essre utile alla società che la sovvenziona. E’ finita l’università scolastica, sta finendo questo strano mostro di università humboldtiana di massa su cui è stato innestato il sistema del 3+2 per renderla simile a quella americana. Non rendersi conto che non può continuare così è da struzzi.

  5. Sono d’accordo con Israel: avevamo un’industria chimica, un’industria automobilistica, etc. “Avevamo”. Anche il Giappone aveva un’ottima industria, ma si è accorta che i grandi brand come Sony, etc., non hanno più mercato e si è messo a pensare come cambiare. Il mondo è cambiato. Noi compriamo tv ed elettrodomestici Samsung perché i nosytri imprenditori non possono permettersi di comprare i materiali di Samsung, perché i protti risultano poi troppo costosi e invendibili. L’industria automobilistica sappiamo tutti perché è andata via: inutile piangerci sopra. Il costo del lavoro è troppo alto: tutto qui. A cio va aggiunto l’euro. Cmq l’industria aziendale era già in crisi a fine anni ’60,si è rimediato col terziario e non poteva che finire come è finita. Ci vorrebbe uno shock. Quando uno Stato non i soldi per pagare le pensioni di 69-70 esondati, è messo male. O lo capiamo o ci troveremo ad andare a fare i camerieri in Germania, se va bene.

  6. A parte gli strali sull’econometria e sulle distorsioni della statistisca, mi sembra che le conclusioni di Israel – e cioè il legame fra la disoccupazione dei laureati italiani e le politiche industriali del Paese – siano implicate sullo stesso piano statistico, se solo fosse un po’ più articolato. Basterebbe incrociare i dati sui laureati disoccupati con la percentuale di esodo degli stessi e i loro dati occupazionali nei paesi di destinazione, per “salvare”, almeno parzialmente, il sistema universitario italiano, e spostarne parte dei problemi sul diverso ambito della decadenza industriale italiana.
    La campagna di Pier Luigi Celli per una specie di “avviamento” di livello universitario sono la solita minestra che lui rivoga da anni, avendo cura di lasciare sottinteso – benchè fin troppo visibile – il presupposto classista che la sostiene.

    Il tutto lascia però inevasi i dubbi – di tipo economico, ma non solo – sulla tenuta di un sistema in cui la formazione dell’individuo sia affidata, in modo tendenzialmente universale, unicamente ad un sistema universitario “classico”.

  7. non entro in merito all’analisi di Celli, che non ho letto, ma cosa significa oggi “classismo”? Avere una università che produce laureati sul bullismo, p.e, significa dare una prospettiva occupazionale certa nell’immediato a questi laureati? Non sarà classismo rovesciato? A noi universitari fa comodo avere tanti studenti per avere i nostri posti e quindi ci vanno bene anche tanti futuri disoccupati laureati sul bullismo?

  8. Significa aver edificato corsi e insegnamenti che era meglio non edificare (un po’ come l’abusivismo edilizio), i quali ora servono da pretesto alla classe politica per ridurre i finanziamenti, impedire l’ingresso dei giovani nell’università e rendere impossibile il lavoro a chi ha sempre lavorato seriamente.

    • Intanto non parlerei di pretesti della classe politica, ma di reale mancanza di soldi. Se non è possibile mandare in pensione 69-70 esodati, perché non ci sono soldi,questo non è un pretesto, ma un dato di fatto. Per il resto, vi è stato un proliferare di corsi e insegnamenti spesso anche in sovrapposizione di cui è responsabile chi lo ha avvallato. Occorre un po’ di capacità di prendersi delle responsabilità. E pensare anche al modello di università necessaria per affrontare la crisi attuale e uscirne. Il fenomeno non è solo italiano, perché anche in Francia è accaduta la stessa proliferazione. Questo fenomeno, a mio avviso, andrebbe analizzato anche tendendo conto del costante declino dell’Europa rispetto ad altri continenti.E’ una mia opinione discutibilissima che noi italiani, ma anche gli altri europei, ci si sia adagiati nella “guerra fredda”,non dovevamo provvedere alla nostra difesa e, quindi,abbiamo vissuto occupandoci di filosofia, arte, musei, bellezza. Questo periodo che ha segnato anche il nostro declino, un dolce declino, ora è diventato un declino reale, con la povertà di larghe masse di italiani, la sparizione del mondo di ieri che ci sembrava il massimo. Appunto, il periodo di quando “avevamo” la chimica, etc. Dobbiamo cominciare a pensare alla realtà in cui viviamo: p.e.le nostre navi, p.e. la Cavour, sono molto apprezzate in Asia. Costruiamo navi. E qui abbiamo bisogno di tecnica e scienza. E’ soltanto un’idea, naturalmente.

    • La mancanza di soldi è una semplice conseguenza dell’essere stati governati da una classe politica che si è occupata di tutto fuorché del pubblico interesse, di una classe imprenditoriale che ha avuto come maggiore cruccio quello di comprarsi giocatori di calcio e di una classe di intellettuali che ha svolto un compito di imbonitore dell’opinione pubblica, nonché ovviamente di una opinione pubblica che ha perso completamente la bussola interpretativa della realtà come questa discussione ampiamente dimostra.

  9. Dare una prospettiva occupazionale certa, nell’immediato, a laureati in storia antica, è impossibile, per esempio, eppure siamo il Paese con il più vasto patrimonio storico-artistico dell’Occidente (stima che pur depurata dalle intonazioni scioviniste resta vicina alla realtà).
    Il punto è anche questo, forse, come dice Israel, cioè accordare il modello di sviluppo all’istruzione di qualità di cui il Paese è ancora capace, invece di ritarare al ribasso l’offerta formativa. Mi rendo conto di quanto possa essere spinoso affrontare la questione in termini di “alto-basso” e parlare di classismo. La storia dell’istruzione in questo Paese è stata da sempre caratterizzata dalla frattura polemica fra un primato delle discipline “pure” e una certa subalternità della tecnica, e quasta frattura è in parte responsabile del nostro ritardo culturale. Sono temi molto intricati. Mi pare di poter dire comunque che l’idea di Celli delle superuniversità e la “professionalizzazione” del sistema universitario nel suo complesso accentui rischi di funzionamento in senso classista di un meccanismo che a mio parere è già piuttosto elitario (con buona pace dell’idea di università di massa).

    • Ma perché non pensare a creare laureati, che oltre a occuparsi del nostro patrimonio museale, vanno p.e. in Medio Oriente a lavorare, restaurare musei, ma anche a fare archeologia. Non sono cosa intendi per élite, ma la nostra università non mi pare affatto elitaria. Spesso funge da luogo di socializzazione degli studenti. Mi viene in mente una scenetta di Berkeley con studenti che sostanzialmente non facevano altro se non socializzare tra loro.

  10. concordo completamente con Francesco Sylos Labini e questo stato si cose ha radici antiche, per modo dire, risalgono al processo di unificazione e al Regno d’Italia.Questo fenomeno si è accentuato, è diventato fisiologico nel secondo ‘900. Direi che anche gli impenditori tedeschi hanno la squadretta di calcio, ma non esiste in Occidente un’impresa automobilistica con due giornali con cui influenza la politica interna ed estera del paese, com’è avvenuto in Italia. Concordo con gli intellettuali imbonitori e con il giudizio sull’opionione pubblica. Sì, qui si è perso completamente la bussola, il senso della realtà. Mi è accaduto di incontrare negli Stati Uniti nell’università dove ero visiting due giovani futuri ingegneri tedeschi, a pochi mesi dalla laurea, che erano già stati selezionati da un’impresa tedesca con filiali negli US. Sapevano già un ottimo inglese, venivano a migliorarlo e a prendere contatto con le “filiali” americane, che avrebbero avuto dirigenti tedeschi. Questo sì è un vero capitalismo, ho pensato. Ho rivisto “La dolce vita”, giorni fa, film tristissimo, l’unico film che dà la fotografia esatta del caotico passaggio dall’Italia contadina a quella “industriale” e anche di tutti i limiti del cosiddetto “miracolo italiano”. Un paese che ha perso la bussola e non so come possa ritrovarla. A volte, quando si parla di tagli e rattoppi, mi dico che ci vorrebbe un vero e proprio shock. Si fanno tagli e rattoppi, senza un piano generale, senza chiedersi p.e. come impiegare la gente che uscirà dalle province, se mai verranno abolite. Ho pensato ( non prendentemi per matta, non sono mai stata leninista, né marxista, né stalinista) che ci vorrebbe una Nep. Un piano generale.

  11. Purtroppo il pensiero unico domina. E i poteri forti scaricano sull’universita o su i fannulloni del lavoro pubblico le loro inefficienze. E’ sempre la solita storia. Bisogna trovare il capro espiatorio. Bisogna rivoltare questo approccio. In qualunque modo. Senza arrendersi mai.

  12. @fausto_proietti, avrò letto male e avrai ragione senz’altro tu, ma non cambia il giudizio, anzi semmai la situazione è ancora più grave, pensando ad altri eventuali tagli: uno Stato che non è in grado di pagare la pensione a 300.000 persone, significa che ha problemi di liquidità. Hai presente il 27?
    @alessandro bellavista: sorry, ma l’università non è affatto innocente, fa parte del sistema Stato che ha problemi di liquidità.Molte università sono andate in rosso, perché- come dicevano presidi di ex facoltà che negli ultimi 20 anni hanno collaborato a fare proliferare corsi e insegnamenti – “c’era una forte richiesta dal basso”. Il declino dell’Italia ( e anche dell’Europa) è una questione complessa, di cui anche gli intellettuali ( accademici compresi) hanno la responsabilità.Una forte responsabilità, a mio avviso. Le persone lucide erano poche, tra queste il papà di Francesco Sylos Labini.

  13. @alessandro bellavista, vorrei aggiungere che, a mio avviso, l’euro è stato un grave errore per la nostra economia. L’Italia non ha neppure fatto un referendum per decidere se entrare o no nell’euro, né ne è stato discusso pubblicamente. L’università si è allineata, senza una critica, perché? Quindi è abbastanza responsabile. Quando l’università vuole fa sentire eccome la sua voce. Sull’euro non l’ha fatta sentire affatto.

  14. Certo che l’universita’ ha le sue colpe. Ma come dimostrano analisi accurate pubblicate su questo sito molto meno di altre istituzioni di questo paese. La terapia gelminiana e’ stata ed e’ tale da ammazzare il malato. Quanto all’euro, da noi e’ mancata una politica seria in grado di governare la gestione di un sistema in cui non si poteva piu’ barare con le vecchie tecniche della svalutazione degli anni d’oro del caf. Mi permetto di ricordare che un recente presidente del consiglio andava in giro a dire che la crisi non esisteva perche’ i ristoranti erano pieni. Quando manca la politica e ci sono solo i nani e le ballerine e’ naturale che si sprofondi.

    • per quanto riguarda la legge Gelmini, per l’ASN, nei settori non bibliometrici, le commissioni ono state sovrane assolute. Puoi avere monografie pubblicate da importanti case editrici italiane e straniere, saggi, mediane a posto, tutto ok, ma se decidono di farti fuori, ti fanno fuori. Per motivi di ogni tipo e anche ideologici-politici. Quindi, tutto come sempre, almeno per me. Per quanto riguarda l’euro, occorre rendersi conto che l’Italia non rientrava nei parametri di Maastricht, non era in grado di entrare nell’euro, perché la lira non era il marco, né il franco. L’euro ha dimezzato, forse più che dimezzato, il valore degli stipendi fissi pubblici e privati e ha reso impossibile per la piccola e media impresa italiana comprare materiali all’estero per trasformali in prodotti competitivi sul mercato. Le grandi imprese sono andate via, vedi la Fiat, o hanno venduto a stranieri lasciando il brand. Questo processo di deindustrializzazione è cominciato nei primi anni ’90. Perfino tutta la nostra industria dolciaria non è più italiana: sono rimasti i brand, ma non sono più italiane. Il Giappone ha continuato a cavarsela svalutando la moneta. Qui occorre essere pratici: l’Italia non è la Germania, non ha le materie prime, non ha la storia tedesca, inutile paragonarci alla Germania o alla Francia o all’UK, nazioni diversissime l’una dall’altra, ma tutte fondate sul principio che in politica estera contano gli interessi dei propri stati. L’Italia è un paese diviso, frammentato, pieno di tifoserie di ogni tipo. Non è in grado di autogovernarsi e quindi finiremo per essere comandati da qualche commissario olandese, tedesco, francese, etc. In fondo, quando mai l’Italia si è autogovernata? Quando mai ha avuto una piena sovranità? Qualcuno ha idea di cosa sia la “sovranità”? Va quindi accettata la realtà. L’università è lo specchio dell’Italia. Tutto qui.

  15. I corsi-truffa sono stati creati per attirare studenti mediamente piuttosto scadenti e di questo la classe docente ha piena colpa: l’Europa declina anche per questo. Ma chi lo ha fatto ora andrà in pensione e le macerie toccano a noi. Stranamente l’università ha garantito la laurea a chi forse non la meritava, mentre ho stampati nella memoria studenti eccellenti che sono scappati perché non avevano nessuna prospettiva o si vedevano superati dai “favoriti”.
    Detto questo, credo che le analisi di Sylos Labini e Bellavista siano le più lucide e realistiche in assoluto: dovrebbero entrare a far parte della riflessione politica e non rimanere confinate in un sito specializzato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.