«Il giudizio unanime è che al sistema universitario italiano bisogna pur mettere mano perché così com’è i costi (per i contribuenti) superano i benefici (per il Paese)». Per Italia Oggi, il giudizio è talmente unanime che non è necessario citare alcuna fonte. Sorprendentemente, nemmeno questa unanimità smuove le resistenze al cambiamento. «Tutti dicono: l’università va male. Ma guai a riformarla», tanto è vero che i professori «minacciano di andare sulla barricate» per opporsi a quello che è trapelato riguardo alla Buona Università. L’articolo si chiude con la domanda retorica della responsabile scuola del PD, Francesca Puglisi: «Com’è strutturata oggi l’università, un valente professore di Yale non potrebbe venire a insegnare qui. Non dice niente questo?». Cosa c’è di vero in queste affermazioni? E qual è la genesi di questo nuovo protagonista della mitologia universitaria, “il valente professore di Yale”?
1. Non hai le fonti? Inventa un “giudizio unanime”
Italia Oggi ritorna sui “professori che minacciano di andare sulla barricate” per opporsi al progetto della Buona Università. Un articolo che riprende notizie già pubblicate da Italia Oggi e dall’edizione bolognese di Repubblica (qui e qui), non senza incorrere in inesattezze e affermazioni prive di riscontro. Per fare un esempio, l’aver fatto dipendere un quinto della quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario dalla velocità con cui gli studenti progrediscono negli studi, non dipende da meccanismi valutativi introdotti da Mariastella Gelmini, ma è una decisione ministeriale recente. L’autore ricorre anche ad espedienti a buon mercato come quello di surrogare le fonti documentali con un presunto “giudizio unanime”:
il giudizio unanime è che al sistema universitario italiano bisogna pur mettere mano perché così com’è i costi (per i contribuenti) superano i benefici (per il Paese).
Basterebbe consultare qualche rapporto Almalaurea per rendersi conto che in Italia la spesa per ottenere un laureato è la metà che in Germania, mentre la spesa in Spagna e Francia è pari al 171% di quella italiana.
I ritorni pubblici e privati di un laureato sono quantificati anche dall’OCSE e, di nuovo, non c’è traccia di costi che superino i benefici per il paese.
Apparentemente, quel giudizio sul bilancio costi-benefici non è così unanime come ci vorrebbe far credere Italia Oggi. A meno che non si prenda come fonte quella valanga di articoli con cui da anni la stampa italiana, a dispetto di ogni statistica, cerca di convincere l’opinione pubblica che “meno studi più trovi lavoro“.
Un circolo autoreferenziale in cui si ripete ossessivamente un pregiudizio, convalidandolo con le affermazioni di chi lo ha ripetuto prima di noi, fino a quando si raggiunge un “giudizio unanime”.
Se però si guardano i dati, si vede che, in una congiuntura difficile per tutti, aumenta la forbice tra le prospettive occupazionali tra chi è laureato e chi non lo è.
Anche il sottotitolo è, a suo modo, degno di nota:
Tutti dicono: l’università va male. Ma guai a riformarla
Sottotitolo contraddetto dallo stesso articolo, che riferisce le proposte di riforma del coordinatore dell’Unione degli Studenti, Gianluca Scuccimarra:
È ormai indispensabile affrontare le vere priorità dell’università, a partire dalle condizioni degli studenti: finanziamento reale del diritto allo studio da portare a livelli europei, riforma della tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale, eliminazione dei numeri programmati per favorire l’iscrizione.
2. Francesca Puglisi e il suo “valente professore di Yale”
L’articolo non manca di riportare la posizione di Francesca Puglisi, responsabile scuola del PD. Ritroviamo quanto già scritto da Repubblica, ovvero la recriminazione per la bozza della Buona Università “trafugata da alcuni gruppi sui social network“. A essere precisi, la Senatrice Puglisi aveva imputato la responsabilità del trafugamento alla Redazione di Roars:
Gianclaudio Bressa è il mio compagno. Il suo nome appare semplicemente perché mi hanno rubato l’Ipad e lui mi ha regalato il suo pc portatile personale (comprato regolarmente con soldi suoi…eh) con cui ho scritto insieme ad altri la bozza di documento che voi avete trafugato.
Un accusa senza fondamento dal momento che era fin troppo facile mostrare che la bozza era già disponibile su Twitter prima di esssere pubblicata anche su Roars.
In attesa di ricevere le dovute scuse, non possamo fare a meno di notare la domanda retorica della Senatrice Puglisi che suggella l’articolo:
Com’è strutturata oggi l’università, un valente professore di Yale non potrebbe venire a insegnare qui. Non dice niente questo?
Ma perchè un “valente professore di Yale” non potrebbe venire a insegnare da noi se solo ne avesse voglia?
Voglia?
Ma ne avrebbe voglia?
3. Ma quanto guadagna un valente professore di Yale?
Per rispondere a questa domanda consultiamo un rapporto della American Association of University Professors nelle cui appendici è riportato il salario medio nei diversi atenei statunitensi. A questo studio fa riferimento un articolo di INSIDE HIGHER ED, di cui riportiamo la seguente tabella relativa ai Full Professors (beh, se è “valente”, il professore sarà almeno al massimo livello della categoria).
Al cambio attuale, sono più di 164.000 Euro annui.
Ma cosa guadagna mediamente in Italia un Professore Ordinario? Per scoprirlo, basta consultare la Banca Dati Economica del MIUR (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca) al seguente indirizzo:
https://dalia.cineca.it/php4/inizio_access_cnvsu.php
Si tratta pertanto di 88.280 Euro annui, circa la metà di quanto prende il “valente professore di Yale”. Si noti che gli ordinari italiani sono mediamente assai attempati (età media pari a 59 anni) a causa di ragioni storiche (il picco di reclutamenti nei primi anni ’80), aggravate dalle recenti limitazioni del turn-over.
La Senatrice Puglisi si domandava:
Non dice niente questo?
Che intendesse dire che sarebbe urgente quanto meno sbloccare gli scatti stipendiali della docenza universitaria (fermi al 21.12.2010)? È lecito dubitare che basterebbe per attirare il “valente professore di Yale”, il quale nel frattempo potrebbe aver scoperto che da un paio di anni il finanziamento della ricerca di base in Italia (il cosiddetto PRIN) è stato azzerato e che il numero di corsi di laurea e di dottorato si sta contraendo, per non dire dei tagli all’FFO, rivelatori di una chiara strategia di disinvestimento rispetto al settore dell’istruzione terziaria.
Ma a ripensarci, non siamo nemmeno sicuri che la Senatrice Puglisi volesse segnalare come prioritario il problema di stipendi non competitivi per attirare le superstar accademiche internazionali. In effetti, basta una piccola indagine per scoprire che non è la prima volta che porta ad esempio il “valente professore di Yale” e per ricostruire l’origine di questo chiodo fisso.
4. Troppo macchinoso chiamare il valente Professore di Yale?
In effetti, nella famosa bozza della Buona Università, “trafugata da alcuni gruppi sui social network”, il nostro professore di Yale era già menzionato:
Ma il Professore di Yale, potrebbe mai concorrere ad una cattedra in un Ateneo Italiano? Solo in caso di chiamata diretta e forse nemmeno così, visto che non basta la decisione dell’Ateneo ma ci deve essere un’approvazione lunga dal Ministero che coinvolge troppi soggetti.
E non era neppure la prima volta, dato che – per quanto ci è noto – la Senatrice Puglisi lo aveva evocato per la prima volta in un articolo apparso su Europa Quotidiano il 28.10.2014:
Ma il Professore di Yale, potrebbe mai concorrere ad una cattedra in un Ateneo Italiano? Solo in caso di chiamata diretta. Abbiamo costruito negli anni un sistema gerontocratico e ingessato, che difficilmente dà libertà di movimento e di circolazione delle idee È come se sull’Agorà della conoscenza avessimo costruito un tetto di cemento armato in un meccanismo perverso di blocco del turn over e punti organico. Potremmo pensare di liberare gli Atenei da questi vincoli consentendo il reclutamento con la sola diretta responsabilità del pareggio di bilancio.
Più che un professore, il nostro “valente professore di Yale” comincia ad assomigliare ad un Jolly. C’è bisogno di invocare l’allentamento dei vincoli imposti dai limiti di turn-over e punti organico? Allora la Senatrice sfodera l’esempio del Professore di Yale.
Nella Buona Università, la sfortunata vicenda del Professore di Yale, di nuovo giocata in chiave antiburocratica, viene specificata meglio attraverso due affermazioni:
- non potrebbe ottenere una cattedra se non attraverso una chiamata diretta;
- anche in tal caso, la procedura richiederebbe “un’approvazione lunga dal Ministero che coinvolge troppi soggetti”.
Ma quanto c’è di vero in tutto ciò?
4.1 Solo chiamata diretta per il valente professore di Yale?
Nella l. 240/2010, le procedure di reclutamento di prima fascia sono regolate dall’articolo 18.
Ai procedimenti per la chiamata di professori di prima e di seconda fascia possono partecipare altresì i professori, rispettivamente, di prima e di seconda fascia già in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge, nonché gli studiosi stabilmente impegnati all’estero in attività di ricerca o insegnamento a livello universitario in posizioni di livello pari a quelle oggetto del bando, sulla base di tabelle di corrispondenza, aggiornate ogni tre anni, definite dal Ministro, sentito il CUN.
Le tabelle di corrispondenza sono consultabili qui e riportano chiaramente che per gli Stati Uniti la posizione di Full Professor è ritenuta pari a quella del nostro professore ordinario. Pertanto, il nostro “valente professore” può tranquillamente presentarsi ad ogni concorso per posizioni di prima fascia bandito da qualsivoglia ateneo italiano. Non occorre alcuna approvazione ministeriale.
Piuttosto, se fosse cittadino statunitense, il vero problema sarebbe quello dei visti per lui e per la sua famiglia, dato che, a tutti gli effetti è un extracomunitario. Un genere di problema ben identificato dal CUN nella terza parte del suo documento “Semplifica Università”, intitolato non a caso:
Un fast track per un «visto di ricerca»
Se si fosse trattato di denunciare questo tipo di difficoltà burocratiche, il valente professore di Yale, a cui ormai fischiano le orecchie, non sarebbe stato invocato invano.
4.2 “Approvazione lunga per le chiamate dirette?”
Abbiamo visto che la strada della chiamata diretta, a dispetto di quanto scritto nella Buona Università, non è una strada obbligata. Se però volessimo effettivamente ricorrere alla chiamata diretta del “valente professore” di Yale, dovremmo fare i conti con la l. 114 del 11 agosto 2014:
3-quater. All’articolo 1, comma 9, della legge 4 novembre 2005, n. 230, le parole da: “previo parere di una commissione” a: “proposta la chiamata” sono sostituite dalle seguenti: “previo parere della commissione nominata per l’espletamento delle procedure di abilitazione scientifica nazionale, di cui all’articolo 16, comma 3, lettera f), della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e successive modificazioni, per il settore per il quale è proposta la chiamata, da esprimere entro trenta giorni dalla richiesta del medesimo parere”.
Trenta giorni non sembrano essere un sinonimo di “approvazione lunga” e sono il termine massimo. Il sottoscritto, si è trovato ad essere membro di una commissione ASN, che, essendo stata informata in data 9.12.2014 dal MIUR della richiesta del parere per una chiamata diretta, lo formulava il 17.12 2014, ovvero entro 8 giorni dalla richiesta.
5. Il Jolly della mitologia universitaria
Come i lettori di Roars sanno da tempo (Università: miti, leggende e realtà – Collector’s edition!), in Italia il discorso pubblico sull’istruzione universitaria ruota incessantemente attorno ad alcune mitologie, tra cui:
- i professori ordinari che guadagnano 13.000 Euro al mese;
- il barone a fine carriera che non ha mai scritto un rigo in vita sua;
- l’università che produce poca ricerca;
- lo studente fuori corso, che esiste solo in Italia;
- meno studi e più trovi lavoro;
- le migliaia di posti da panettiere e fornaio, retribuiti due-tremila Euro al mese, ma snobbati dai giovani;
- in Italia l’università è gratuita;
- i 37 corsi di laurea con un solo studente;
- la spesa per studente più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia;
- l’asino dell’Amiata.
Grazie alla senatrice Puglisi, la lista potrebbe allungarsi con un nuovo personaggio mitologico, “il valente professore di Yale”, un vero e proprio Jolly, che si può calare per gli scopi più diversi. A seconda delle circostanze, può servire
- per chiedere la fine del “meccanismo perverso di blocco del turn over e punti organico“, incarnazione di vincoli burocratici talmente soffocanti che il professore di Yale potrebbe “concorrere ad una cattedra“, solo in caso di chiamata diretta (Europa Quotidiano il 28.10.2014);
- per denunciare la presunta macchinosità delle chiamate dirette per le quali “non basta la decisione dell’Ateneo ma ci deve essere un’approvazione lunga dal Ministero che coinvolge troppi soggetti” (La Buona Università e la Buona Ricerca, p. 3);
- a convincere gli scettici dell’urgenza di una (nuova) riforma: «Com’è strutturata oggi l’università, un valente professore di Yale non potrebbe venire a insegnare qui. Non dice niente questo?» (Italia Oggi, 19.6.2015).
In realtà non è vero che per il professore di Yale l’unica strada possibile sia la chiamata diretta, in quanto egli è già equiparato ad un abilitato di prima fascia, e, se proprio si vuole ricorrere alla chiamata diretta, il parere della commissione ASN deve arrivare in un tempo relativamente breve (trenta giorni).
A furia di ripeterlo, l’impossibile avvento del valente professore di Yale, è entrato nel novero delle verità mitologiche, che non hanno bisogno di riscontri fattuali. Come è stato mostrato, ad essere vera non è tanto l’impossibilità tecnica, ma la convenienza a spostarsi in una nazione che ha tagliato pesantemente la spesa per l’università e non lascia trasparire alcuna intenzione di invertire la rotta.
Il Governo, pur senza dimenticare l’opportunità di attrarre dall’estero professori di valore (ma allora, più che la mitologia gioverebbe un’attenta lettura della terza parte del Semplifica Università del CUN), dovrebbe cominciare a preoccuparsi dei “valenti professorie e ricercatori italiani” che, per quanto non sfigurino affatto nel panorama internazionale, hanno accesso sempre più problematico a risorse e fondi per la ricerca, sono assillati da una burocrazia dadaista e sono puniti da un blocco oramai quinquennale delle retribuzioni. Vogliamo scommettere che invertire questa rotta renderebbe più allettante insegnare e fare ricerca in Italia anche a qualche valido professore che lavora all’estero?
E, anche se non fosse di Yale, ce ne faremo una ragione.
Nell’edizione 2013 dell’International Comparative Performance of the UK Research Base, utilizzando dati Scopus, sono state confrontate le produttività in termini di articoli e citazioni per spesa dei sistemi universitari di alcune importanti nazioni. Come si vede, nelle rilevazioni più recenti l’Italia è superata solo dalla Cina per la produttività in termini di articoli e solo da Cina e Regno Unito per la produttività citazionale.
E mandare a Yale la scheda Sua così da incentivare i Magnifici Colleghi oltre oceano? O la stessa bozza trafugata per far intravedere i Magnifici Cambiamenti in divenire?
Bisognerebbe operare respingimenti agli aeroporti a causa del numero di “valenti professori” statunitensi impazienti di cimentarsi con la SUA e di farsi ascoltare dal PD.
A parte il fatto che da più di 15 anni non fanno altro che riformare l’università, nella frase della senatrice Puglisi, facente parte dell’antipatica schiera delle amazzoni di regime di berlusconiana fondazione, “sistema universitario” potrebbe essere sostituito
con altre parole, tipo “Anvur, ministri x,y,z …….” e il senso che ne risulta sarebbe del tutto condivisibile, senz’altro a giudizio unanime.
“il giudizio unanime è che al … italiano bisogna pur mettere mano perché così com’è i costi (per i contribuenti) superano i benefici (per il Paese).”
Chiedo scusa se lo avete già fatto:
ma la redazione di Roars potrebbe mandare una lettera ai maggiori quotidiani nazionali per smentire i più dannosi dei luoghi comuni?
Il problema e’ che “i maggiori quotidiani nazionali” non pubblicano quello che pubblicano per caso …
Il blog Roars è nato nel 2011 anche perché avevamo capito che era necessario un luogo (seppur virtuale) che diventasse punto di riferimento per la verifica e la discussione delle informazioni, non documentate e spesso persino del tutto false, che venivano sistematicamente diffuse dai principali mezzi di informazione. I fondatori ricordavano bene cosa era successo nel 2010 quando la marcia della riforma Gelmini era stata spianata da bombardamenti mediatici la cui virulenza sconfinava nel grottesco. In più di un caso, noi o i nostri collaboratori hanno scritto lettere di cui è rimasto riscontro nel blog (ultima, in ordine di tempo, la replica di Gianfranco Viesti a Roger Abravanel: https://www.roars.it/le-parole-disinformate-di-abravanel-sulluniversita/). Per quanto sia una goccia nel mare, in questi anni le denunce e le analisi di Roars sono state riprese dalla stampa o altri siti in più occasioni, come testimoniato da questa lista (solo parziale perché spesso non ci ricordiamo di riportare tutte le “citazioni” che riceviamo): https://www.roars.it/dicono-di-noi/
La strada è ancora molto lunga e può essere sicuramente di aiuto avere dei lettori che si siedono alla tastiera e scrivono lettere ai giornali, magari rimandando ai nostri articoli per quanto riguarda dati e documentazione. Ribattere alle bufale non è facile se non si dispone di tabelle e grafici e questo è il grande vantaggio di un blog. Se si scrive una lettera è di grande aiuto poter citare un luogo dove le proprie affermazioni sono riscontrate punto per punto. Insomma, noi mettiamo a disposizione le munizioni per chi abbia voglia o necessità di replicare ad episodi di disinformazione, ma non riusciamo (e non riusciremo) a coprire tutti i fronti senza il contributo dei nostri lettori.
Si, è vero, certi giornali seguono certe linee, ma magari, messi di fronte ai dati.
Ringrazio il prof. De Nicolao per la sua risposta, che ricevo come uno sprone a fare personalmente la mia parte.
Si, ma fate anche qualche controesempio.
Ve ne suggerisco alcuni io (un pò vecchietti a dire il vero):
Giacinto Scoles, che nel 2003 da full professor a Princeton è passato alla SISSA.
Carlo Rubbia, che nel 1998 da full professor a Harvard è passato a UNIPV.
Dalla Russia ce ne sono diversi e bravissimi. Cito
Boris Dubrovin, che nel 1993 da full professor alla Moscow State University è passato alla SISSA.
Grazie!
Non capisco cosa dovrebbe dimostrare il controesempio. Rubbia e Scoles sono due italiani che hanno fatto la loro carriera all’ estero e sono rientrati (a fine carriera) per validissime ragioni personali che hanno poco a che fare con l’ attrattivita’ internazionale del sistema italiano. Il caso di Dubrovin non credo sia confrontabile col “mitico professore di Yale” dal punto di vista economico.
Boh. Diciamo che lavorare a 5 minuti da casa (e a 300 metri da dove è vissuto tuo padre) è bello.
… ma sarei pronto a venire a Trieste o in qualunque università italiana. Purtroppo nessuno mi vuole, sigh.
:-(
io veramente fatico a comprendere una cosa
ma davvero coloro che pensano ad una presunta ed ennesima riforma dell’università vorrebbe far passare come cosa di grande innovazione, superamento del baroname, possibilità di inserimento di giovani studiosi, un sistema di reclutamento come il Jobs act?
cioè lì vuol dire essere ricattabili a vita, sostituibili, pagati due soldi
La cosa mi sfugge persino a livello logico
Vorrei aggiungere una considerazione sul valente professore di Yale:
mi piacerebbe davvero tanto vedere la faccia di un valente professore americano (o inglese perché no?) mentre la nostra senatrice gli spiega che in Italia non può contrattare il suo stipendio.
Per mia esperienza personale i professori di università all’estero che sono entrati nel sistema italiano sono italiani, che rientrano per motivi squisitamente personali.
Inizia ad ottobre la grande riforma:
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1999807&codiciTestate=1&sez=hgiornali
Ma soprattutto, perché il valente professore di Yale dovrebbe farsi del male venendo in Italia?
Alcuni motivi per trasferirsi da Yale a UNIPI, o UNIPV o simili italiane:
i) qui in Italia la gente solitamente non va in giro armata;
ii) qui in Italia non ti arrestano se contesti una multa;
iii) qui in Italia non c’è la pena di morte;
iv) qui ci sono dei colleghi DI GRAN LUNGA molto più bravi che a Yale;
v) qui in Italia per i figli si spende ZERO per mandarli in scuole secondarie di ALTISSIMO LIVELLO (almeno in Veneto);
vi) qui in Italia il figlio spende 3 mila Euro all’anno per andare in università di BUON LIVELLO;
vii) qui in Italia ed in Europa ci sono dei laboratori di Fisica che in USA non ci sono (perchè troppo costosi per USA).
L’unico vero motivo per rimanere a YALE sono i soldi. Ma anche questo non è completamente vero. Per chiamata diretta, un PO in Italia può avere lo stipendio massimo che è circa
130 mila EURO lordi annui
cioè circa
160 mila DOLLARI lordi annui.
@Salasnich. Validi motivi ma non mi sembra condivisi dai nostri colleghi stranieri o da italiani che hanno avuto successo fuori. Neanche quelli che insegnano nelle universita’ USA nelle città più “a rischio”.
.
Non dimentihiamo che lo stipendi è solo una parte della storia del perché siamo cosi’ poco attrattivi. Altrettanto importanti sono: assenza di incentivi di start-up, impossibilità di programmare la creazione di un gruppo, supporto amministrativo, anche nei migliori dei casi, primitivo rispetto a quello che si riesce ad avere fuori, inesistenza di fondi di ricerca degni di questo nome (sto parlando di grant su progetti competitivi), burocrazia universitaria “bizantina”. Per restare su questioni direttamente legate al lavoro. Poi, sul fronte di contorno ci sono tante cose che rendono la vita quotidiana molto più difficile che in altri paesi.
.
Last but not least. A parte Yale, non c’e’ la corsa all’ Italia neanche dall’ Europa. Forse è il caso di lasciar perdere i luoghi comuni su “quanto siamo bravi”, sulle scuole di altissimo livello (in Veneto, naturalmente), sui bellissimi laboratori e chiedersi seriamente come mai il tasso di entrata a tutti i livelli dai paesi più avanzati e’ cosi’ penosamemte basso. La soluzione però non è quella semplicistica di riforme a costo zero o di far fuoriuscire l’ Università dalla PA. Quella è una boutade che qualifica solo il livello di ignoranza del problema di chi la propone.
1) Infatti in Italia le persone non si uccidono.
2) Magari non ti arrestano se contesti una multa, ma la polizia ti può comunque pestare a sangue e farla franca.
3) Nel Connecticut non c’è la pena di morte.
4) La cosa vale per ogni università del mondo, quindi è irrilevante.
5) Anche in USA ci sono scuole pubbliche di altissimo livello, come ad esempio nel caso della California. Peraltro, nelle scuole pubbliche americane, i ragazzi non devono nemmeno acquistare i libri, giusto per dirne una.
6) Per trovare lavoro, avere un’ottima formazione o accedere ad un prestigioso corso di dottorato, non c’è bisogno di aver frequentato per forza una università delle Ivy League (anche se effettivamente l’istruzione universitaria americana costa mediamente un botto rispetto a quella italiana).
7) Di che tipo di laboratori parliamo?
L’ultima affermazione viene spacciata per apodittica, quindi non si può commentare.
Con immutata stima.
Il tasso di omicidi in Italia è di
0.9 ogni 100 mila abitanti
mentre in USA è
4.7 ogni 100 mila abitanti
Si veda qui:
https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_intentional_homicide_rate
Inoltre in Italia vi sono circa
75 detenuti (in realtà 140 circa) per ogni 100 mila abitanti
mentre in USA circa
750 detenuti per ogni 100 mila abitanti
Si veda qui:
http://www.nytimes.com/interactive/2008/04/22/us/20080423_PRISON_GRAPHIC.html
Per quanto riguarda 7): Laboratori di Fisica Nucleare (INFN Legnaro e INFN Catania) e Subnucleare (INFN Gran Sasso, CERN Ginevra). Ed anche Fusione Nucleare (RFX Camin, ITER Cadarache).
Una risposta in puro stile Roars, basata sui dati con tanto di link :-)
Momento, sul fatto che gli USA non siano il paradiso in Terra siamo tutti d’accordo, e comunque c’è da dire che il dato in sé sul tasso di omicidi è poco significativo. La società USA è tremendamente ghettizzata, ed è ovvio che la criminalità nei ghetti di Baltimora o Los Angeles pesi in maniera consistente sulla statistiche nazionali. Sarebbe interessante studiare la distribuzione geografica degli omicidi, al di là del totale. Inoltre, l’Italia non ha la varietà etnica e culturale cha hanno gli USA, fattore che, in talune condizioni, può essere un elemento destabilizzante. Si ricorda, ad esempio, il riot di Los Angeles del 1992? Immagino proprio di sì. Per quanto concerna la questione dei laboratori, devo dire che sono rimasto sorpreso. Potrei fargliela anch’io una lista:
Argonne
Brookhaven
Fermilab
Lawrence
Livermore
Los Alamos
Oak Ridge
Sandia
Slac
e questi sono solo alcuni di quelli che afferiscono al Dipartimento dell’energia, che si occupa del grosso della ricerca in Fisica. Poi ci sono quelli della Nasa, ecc. ecc. Che facciamo, pari e patta?
Risottolineo l’immutata stima.
P.S. Non avevo capito che si riferisse ai grandi laboratori di ricerca, penavo che intendesse quelli “didattici” delle scuole o delle università. Si figuri se non faccio il tifo per l’INFN, visto che mi paga l’assegno di ricerca…
Io non faccio il tifo per l’INFN (nota) ma cerco di dire cose vere.
Nota: Non sono più associato all’INFN da ormai 17 anni. Ho perso tutti i concorsi INFN ai quali ho partecipato a qualunque livello (tranne una borsa INFN nel 1991 alla quale rinunciai). E (purtroppo) non mi occupo più di Fisica Nucleare Teorica dal 1995 (tranne qualche articoletto ogni tanto).
…in effetti, il tasso di omicidi negli USA raggiunge il suo apice nella Capitale,dove,per ovviare al problema di dimensioni inconcepibili per l’Italia, si era prevista una legge molto stringente sulle armi. Solo che è stata dichiarata incostituzionale,sono ‘curioso’ di vedere a che livelli si arrivegrà con le prossime statistiche con armi re-liberalizzate.Sulle altre differenze, a parte la cucina et similia,tutte le validissime ragioni, per preferire l’Italia agli USA, stanno venendo meno a causa della disattivazione delle libertà positive,che gli USA non conoscono,in base al vincolismo esterno,a sua volta costituzionalizzato. Andando di questo passo, le differenze con gli USA saranno solo nei nostri difetti,ché i loro pregi non li stiamo importando (non sono necessari per il Trattato che ci aspetta). In questo processo di disattivazione, le responsabilità dei media sono enormi. Le contro-verità sono all’ordine del giorno. Ma il messaggio per cui tutto ciò che è pubblico è fonte di corruzione e sprechi non vive di soli fattoidi.La 382/80, a livello di reclutamento, ha fatto danni enormi. E i sistemi sono fatti di persone. Per il resto, complimenti per l’articolo,davvero puntuale.
Tom Bombadillo
Carissimi,
sono lieto di segnalarvi un mio articolo, apparso a pagina n. 17 della Gazzetta del Mezzogiorno di oggi, su Università italiana, tra fatti e fattoidi. Nell’articolo, ovviamente, cito la fonte da cui ho tratto i dati, ovverosia, in generale, il sito specializzato Roars, e, in particolare, il presente articolo del prof. De Nicolao.
Purtroppo, però, il titolo originale era Università pubblica ed economia tedesca, tra fatti e fattoidi. Ma la seconda parte è stata tagliata, sia nel titolo che, almeno in parte, pure nel testo, che ne risulta diminuito per efficacia “anti-liberista” a “anti-fattoidi”: sapete, no, la classica bufala per cui sarebbe stata l’iperinflazione (che si dimenticano essere di dieci anni prima e, le cui cause, per altro, nessuno spiega) a causare l’ascesa politica di Hitler.
L’articolo mi sembra importante perché tenta di inserire il problema dell’università italiana in un contesto più ampio e coerente, in cui le logiche, che sono sempre le stesse, come medesima è la strategia della menzogna, risultano più comprensibili.
Tom Bombadillo
Grazie della segnalazione (e della citazione). Esiste un link ad una versione on-line (per es. in una rassegna stampa)?
…dovere e piacere.
Quello scorso, che era sui nuovi delitti ambientali, ma, in realtà, sempre sullo stesso tema dell’odierno, ovverosia sulle tragedie del liberismo, e sull’odio strumentale per tutto ciò che è pubblico (da cui la strategia dei fattoidi contro l’università e il pubblico in genere), effettivamente andò in rassegna stampa della mia regione, ed è consultabile al seguente link:
http://www.astampa.rassegnestampa.it/consiglioregionalepugliaRassegnaStampa/PDF/2015/2015-05-28/2015052830390794.pdf
Magari l’attuale subirà la stessa sorte, anche se sappiamo che la Puglia è particolarmente attenta all’ambiente, più che all’università. Forse su qualche rassegna universitaria? Domani controllo, e, se è stato inserito, vi posto il link.
Tom Bombadillo
…detto, fatto, in rassegna stampa miur, che per altro scopro essere consultabile già dalle ore 10,30 dello stesso giorno, altro che il giorno dopo come credevo io (sono antico e abituato ai tempi della Vecchia Foresta).
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=42A2AT&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
Mi dispiace solo che la seconda parte dell’articolo ne sia uscita oltremodo sacrificata -i soliti tagli indiscriminati!-, anche perché così non si comprende il nesso con la prima. Ad es., mi ha scritto una collega di dipartimento, sempre carinissima, per complimentarsi con la prima parte, per lei molto importante, ma dicendo di non essersi interessata alla seconda.
Credo, viceversa, che tutti gli universitari che condividono l’impostazione seguita, ad es., su questo sito, dovrebbero iniziare a porsi il problema di come la questione universitaria sia irrisolvibile, se scissa da quella generale. Qui non si tratta di un attacco all’Università, si tratta di un attacco a tutto il settore pubblico, motivato dall’esigenza di trovare sempre più mercato per il privato, e di remunerare sempre più il capitale e sempre meno il lavoro.
Non possiamo immaginare una società ultraliberista, che poi, arrivata all’Università pubblica, diventa socialdemocratica, riconosce la libertà di ricerca, l’autonomia universitaria, la necessità di una retribuzione adeguata e costituzionalmente compatibile. L’Università di una società liberista sarà sempre costosissima, con necessità conseguente di contrarre debiti per iscriversi, e tutta la sua ricerca sarà determinata dall’industria, e dai relativi finanziamenti mirati.
Insomma, la battaglia per l’Università non si può vincere, se non all’interno della guerra per il ripristino della democrazia del benessere delineata dalla nostra Costituzione, e disattivata dall’euro e dai vincoli di bilancio connessi (e, ancora prima, in potenza -si trattava solo di aspettare-, dallo SME e dal conseguente divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro).
Prima noi universitari lo capiremo, meglio sarà.
Tom Bombadillo