Cosa è una rivista scientifica? Cosa dovrebbe essere? Un articolo di Marcello Vitali-Rosati mette in luce con chiarezza quanto la valutazione della ricerca centrata sui prodotti e sulla sede di pubblicazione stia modificando il tradizionale modo di fare ricerca. Allo stato, a causa di sistemi di valutazione della ricerca fondati sulla sede di pubblicazione, accade che sia “preferibile pubblicare un articolo stupido e inutile in una rivista che nessuno legge, ma dal nome noto, piuttosto che un testo intelligente e che sarà  letto da molti ricercatori, ma in un blog privo di valore simbolico”. Le comunità scientifiche fin dalla prima età moderna non hanno inventato le riviste per questo. Le hanno inventate per la comunicazione scientifica, cioè per formare comunità  in grado di conversare e di cooperare nella ricerca, e di valutare la ricerca mentre la ricerca viene fatta. L’alleanza tra big business dei grandi gruppi editoriali ed i governi interessati ad occhiute procedure valutative, spinge verso la disgregazione delle comunità scientifiche e impedisce le conversazioni che hanno edificato la scienza moderna. Tutto questo avviene per imperizia, per caso o per deliberato progetto?

L’articolo di Marcello Vitali-Rosati Qu’est-ce qu’une revue scientifique? Et…qu’est-ce qu’elle devrait être?, in un ambiente più libero di quello italiano e forse anche con interlocutori migliori, si interroga sulla necessità e sulla funzione delle riviste scientifiche nell’ambiente digitale.

Secondo un modello che soltanto eufemisticamente possiamo chiamare ingenuo i ricercatori prima ricercano, poi scrivono e, concluso il loro lavoro, passano il cosiddetto prodotto della ricerca alle riviste, le quali hanno, in primo luogo, il compito di valutarlo scientificamente e di dargli una forma degna e, in secondo luogo, quello di diffonderlo.  Così, finalmente, si ottengono delle “pubblicazioni”. I ricercatori, è noto, se non pubblicano muoiono.

Chiunque, però, abbia una familiarità anche remota con la cosiddetta pubblicazione scientifica sa che:

  1. le riviste non si occupano affatto della valutazione e raramente dell’editing – lavori, questi, svolti graziosamente e gratuitamente da redattori e revisori di solito stipendiati, se lo sono, dalle università e non dagli editori;
  2. le riviste tradizionali non sono vocate a diffondere i testi, ma a prenderli in ostaggio, limitandone la circolazione: quanto nel mondo della stampa era un passaggio tecnologicamente ed economicamente obbligato ora è divenuto un ostacolo che non viene scavalcato solo grazie al feticismo della collocazione editoriale.

Come mai questo modello economico aberrante, nel quale chi lavora paga il datore di lavoro per l’onore di esserne sfruttato e trattenuto lontano dal pubblico, continua a sopravvivere? Se gli accademici fossero battitori liberi, smettere di mandare articoli alle riviste o – ancor meglio, smettere di scrivere articoli per comporre piuttosto ipertesti sezionabili, commentabili e linkabili – non apparirebbe eroicamente anticonformista, ma semplicemente razionale.

Allo stato, però, a causa di sistemi di valutazione della ricerca fondati sulla lettura delle testate delle riviste in cui gli articoli sono privatizzati,

è preferibile pubblicare un articolo stupido e inutile in una rivista che nessuno legge, ma dal nome noto, piuttosto che un testo intelligente e che sarà  letto da molti ricercatori, ma in un blog privo di valore simbolico.

Le prima età moderna, tuttavia, non ha inventato le riviste per questo. Le ha inventate per la comunicazione scientifica, cioè per formare comunità  in grado di conversare e di cooperare nella ricerca. La causa dell’aberrazione attuale è l’attaccamento a una soluzione ormai tecnologicamente ed economicamente inadeguata a rispondere al problema per il quale era stata pensata. Per uscirne occorrerebbe risalire, a ritroso, dall’atto alla potenza per riflettere sugli scopi originali delle riviste, e cioè:

  1. costruire comunità, cioè spazi organizzati tramite la comunicazione;
  2. mettere la conversazione al centro, cioè creare zone di dialogo: la diffusione è un compito ormai banale, ma la discussione attenta dei testi lo è sempre meno;
  3. creare modelli di semi-stabilizzazione della conoscenza.

Queste tre fasi sono distinguibili soltanto analiticamente, perché sono reciprocamente interconnesse in un processo che chi prendesse sul serio il lavoro della ricerca dovrebbe considerare. Le tecnologie digitali – e in particolare il web semantico – consentono di costruire strumenti di indicizzazione e di ricerca che si estendono al di sopra e al di là dei singoli siti, aprendo spazi di discussione e comunicazione decentralizzati, nei quali risulta manifesto che fare ricerca – discutere, connettere, rivedere – è molto più che “pubblicare”.

L’articolo di Marcello Vitali-Rosati, sebbene il suo tema non sia nuovo, mette in luce con chiarezza quanto una valutazione della ricerca incentrata sui prodotti invece che sui processi impedisce, anche quando pretende di esserne un distillato, la formazione di comunità di conoscenza  che sanno valutare la propria ricerca facendola. A noi resta soltanto da chiederci se la distopica alleanza di Big Business e Big Government, con i suoi interessi di lucro e di potere, si adoperi per disgregare le comunità e impedire le conversazioni che hanno edificato la scienza moderna per imperizia, per caso o per deliberato progetto.

Articolo originariamente pubblicato su Bollettino telematico di filosofia politica sotto licenza CC BY-SA 3.0 IT

 

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25 Commenti

  1. Interessante il tema del “web semantico” (il link funzionante al contenuto proposto è: http://www.websemantico.org/articoli/approcciwebsemantico.php ). Mi pare però che, rispetto ai semplici motori di ricerca per keywords, così si apra il campo all’arbitrarietà della categorizzazione (un po’ come la vecchia catalogazione bibliotecaria ‘per soggetti’), o anche – potenzialmente – a forme peggiori di manipolazione (“creare percorsi in base alle informazioni richieste dall’utente, guidandolo poi verso di esse”) dell’accesso ai dati. Sbaglio?

    • Non sbaglieresti se esistesse un metodo di ricerca (sul web e no) perfettamente neutro, cioè se fosse davvero possibile cercare quello che non sappiamo, e non invece quello che sappiamo già, o chi per noi sa già, o presume che sappiamo in virtù di un suo algoritmo, o cerca di farci sapere.

      Gli algoritmi dei motori di ricerca non sono neutri: per offrire risultati rilevanti Google – per esempio – non si limita a cercare le occorrenze delle parole-chiave, ma “pesa” le pagine contando e pesando le pagine che, a loro volta, le citano (ricorda qualcosa?). Così funziona(va) l’algoritmo più antico di Google, più volte modificato nel tempo. Google stesso, d’altra parte, è molto interessato al web semantico.

      In questa prospettiva, il web semantico non è di per sé più manipolatorio di un motore di ricerca o di una rete sociale proprietaria (anch’essi, peraltro, ne fanno uso); e potrebbe addirittura esserlo di meno in un ambiente come quello scientifico, in cui dati e algoritmi fossero pubblici e gli utenti fossero consapevoli che ogni sistema di ricerca ha come punto di partenza il pregiudizio.

  2. Nel campo scientifico c’è però il problema del ‘risultato’ scientifico e del copyright, cioè di difendere il diritto dell’autore di essere legalmente riconosciuto come padre di quel risultato. La discussione filosofica probabilmente non ha un risultato, o non lo ha sempre (ma anche li c’è il problema dell’autore) Un articolo scientifico invece DEVE contenere un risultato. Ancora: un testo letterario esiste per essere letto, invece un articolo scientifico non necessariamente deve essere letto da tutti i suoi utenti. Esso assicura (gli altri ricercatori) di un certo risultato, che può quindi essere usato dagli altri ricercatori (da cui il concetto di ‘citazione’..). In filosofia la ‘citazione’ spesso è un giudizio negativo. Si possono scrivere interi libri dando addosso ad un altro filosofo (per l’Anvur questo altro filosofo guadagnerebbe punti per ogni ‘vaffa’ che riceve dal suo collega…). Tutto questo è impossibile nel campo scientifico, dove 10000 citazioni significa necessariamente ‘lavoro importante’…
    Il problema delle citazioni nel campo scientifico non è sulla ‘qualità’ (seppure anche questo potrebbe essere un problema, ma esistono indici, come l’eigenfactor, che lo attenuano di molto), quanto piuttosto sul fatto che 10000 citazioni spesso necessitano di tempo per essere accumulate, mentre la valutazione servirebbe qui e ora..
    Insomma se il problema della valutazione si allarga a tutto lo scibile umano diventa davvero troppo complesso. Al punto tale che è addirittura preferibile il sistema ‘baronale’, magari pragmaticamente perfezionato in un sistema di ‘cooptazione dall’alto’ meno dispersivo (cioè un sistema ‘aristocratico’ più che baronale) piuttosto che usare a casaccio i metodi bibliografici.

    • Non mi è chiaro perché un sistema di “pubblicazione” proprietario dovrebbe soddisfare le esigenze qui sopra presentate meglio di quello non proprietario proposto dall’articolo.

      1. Diritto morale dell’autore: la legge sul diritto d’autore non tutela le idee, ma la loro espressione. Quindi è interesse dell’autore dare espressione alla sua idea, cioè renderla pubblica in un testo, il più velocemente possibile. Questo interesse si soddisfa meglio depositando subito il proprio lavoro in un archivio aperto, anziché nascondendolo nella scatola nera di una rivista, dove qualche revisore o redattore scorretto potrebbe avere la tentazione di “rubarla”.

      2. Se si ha la passione delle citazioni, di cui non voglio discutere qui, perché dovrebbe essere meglio comprare i dati citazionali da sistemi proprietari, a scatola chiusa, anziché elaborare i dati pubblici offerti da un sistema aperto? In questo secondo caso potremmo, in più, anche capire anche perché si cita, avendo accesso sia al testo citato sia a tutti i testi citanti.

      3. “Risultati”: anche se ammettiamo, per amor di discussione, che i discorsi della filosofia siano inconcludenti mentre quelli della scienza siano concludenti, non si vede perché un risultato reso pubblicamente accessibile sia meno risultato di uno imprigionato in una rivista ad accesso chiuso.

      L’articolo segnalato parlava di semi-stabilizzazione della conoscenza perché quanto all’epoca di Tolomeo era un risultato – una cosmologia che dava conto di tutti i fenomeni osservati e produceva previsioni corrette – all’epoca di Copernico e di Galileo era divenuto un’ipotesi da discutere, sul punto di essere superata da un altro risultato. Ma quell’età, si sa, era un’età di filosofi naturali…

    • X Maria Grazia Pietavolo:

      Tanto per fare un esempio, ecco come il filosofo Costanzo Preve parla del filosofo Toni Negri:

      https://www.youtube.com/watch?v=v4j41lmuJ74

      Interessante, verso il minuto 12,50, le seguenti citazioni di Platone, Aristotele e Negri: ‘voglio passare gli ultimi anni della mia vita a leggere persone intelligenti, come Aristotele e Platone. Non Toni Negri.’

      Si noti bene che non è una questione personale, è una critica (diciamo pure: una demolizione sistematica) alle idee dell’altro.
      Più volte Preve descrive dettagliatamente e motivatamente (al punto che anch’io sono convinto abbia ragione lui) gli ‘errori’ di Negri.
      Il punto è che, se parliamo di Matematica, Fisica o Ingegneria, la parola ‘errore’ ha TUTTA UN’ALTRA valenza. Non è la solita banale questione : ‘la matematica non è un’opinione’. Anche sulla matematica esistono opinioni. Non è neanche la dicotomia fra sistema Tolemaico e sistema Copernicano: nel 3500 probabilmente la teoria della relatività sarà considerata naif proprio come noi oggi consideriamo la cosmologia Tolemaica. Il punto piuttosto è ben inquadrato da Hegel proprio all’inizio della sua ‘Fenomenologia dello spirito’ quando, da buon filosofo, distrugge le filosofie che negano che esista qualcosa oltre la ‘doxa’, e si propone di descrivere il fenomeno del ‘superamento dello stadio dell’opinione’. Il sistema Tolemaico andava benissimo per i suoi tempi. Finchè nessuno andava nello spazio nessuna contraddizione insorgeva. Sarebbe andata benissimo anche una teoria che descrivesse le stelle come dei semplici puntini luminosi su sfondo nero, anzi in mancanza di altre informazioni è la cosa più logica e razionale si possa dire del cosmo. Poi però è stata superata da Copernico, e un giorno anche Einstein sarà superato da qualcun’altro. Naturalmente non sempre si può superare lo stadio dell’opinione, ma in quel caso la ‘scienza’ (nel senso MAT-ING-FIS) si ritira e cessa di esistere in quel campo, campo che invece (giustamente) la filosofia non cessa di occupare.

      Il vero problema di cui discutiamo qui non è di natura filosofica o scientifica (nel senso delle ‘scienze esatte’ tradizionali) ma piuttosto economico…
      Stiamo discutendo di quanto VALE il lavoro di un astronomo ai tempi dei tolomei, oppure ai tempi di Copernico, e del fatto che esso vale probabilmente lO STESSO, cioè indipendentemente da chi dei due avesse ragione. Entrambi si sono spremuti le meningi allo stesso modo, e quindi i loro lavori pari sono…
      Se per esempio discutiamo di scatti stipendiali, o di concorsi (superati i quali interviene un aumento stipendiale) stiamo semplicemente discutendo di quanto vale il lavoro di uno scienziato/professore in termini di quantità di prodotto sociale che gli spetta. Perché, per esempio, ad un ordinario spetta più prodotto sociale che ad un associato? Occorre un criterio per stabilire questa quantificazione. Se gli esseri umani fossero gratificati dal loro stesso lavoro, allora non avrebbe alcun senso questa quantificazione, e probabilmente lei avrebbe pienamente ragione nel suo punto 1). Ma non mi sembra che sia così…

    • X Maria Grazia Pietavolo

      Be’, anche le scienze umane, nel loro piccolo, hanno una loro esattezza: per esempio insegnano a scrivere correttamente il nome dell’interlocutore con cui si discute, perfino quando è lungo e strano :-)

      Scherzi a parte, la lunga replica di Francesco1 si dilunga a tentare di dimostrare qualcosa che gli avevo, per amor di discussione, provvisoriamente concesso e cioè che i filosofi – almeno quelli che legge lui – siano inconcludenti mentre gli scienziati no.

      Non mi sembra, però, che risponda ai tre punti del mio commento precedente, che qui riassumo in uno solo: perché affidare il compito di stabilire il valore della ricerca al caporalato di aziende commerciali che ne riducono la pubblicità, e che non sono affatto indispensabili né per lo scopo del riconoscimento del diritto dell’autore, né per il conteggio delle citazioni, né per l’esposizione dei risultati?

      Per il resto, forse perché anch’io preferisco leggere Platone e Aristotele piuttosto che Toni Negri e Costanzo Preve, aggiungo solo una notazione marginale, per non dilungarmi troppo e venir tacciata di inconcludenza: mi giunge sorprendente che gli studiosi di filosofia citino altri filosofi solo per criticarli, e non anche per interpretarli, per poggiarsi sulla loro autorità, per svilupparne alcune idee, per far vedere che sanno tante cose e per una miriade di altri motivi dicibili e indicibili.

    • X Maria Chiara Pievatolo:

      Pardon per l’errore precedente nella trascrizione del nome.

      In un altro post più sotto (che però forse è apparso dopo)
      ho constatato che le riviste, quando sono pubblicate da aziende
      editoriali private nel settore da lungo tempo, hanno potuto negli ultimi anni avvantaggiarsi di un abbattimento mostruoso dei costi di produzione (revisori e autori che lavorano gratis, impaginazione e stampa curata dagli autori stessi etc.), e sfruttando l’abitudine consolidata degli autori a pubblicare su certe riviste, mantenere alto il costo degli abbonamenti. Il risultato è una INACCETTABILE rendita da parte di soggetti privati (quando sono tali) o equivalentemente uno sfruttamento massiccio dei ricercatori di tutto il mondo.
      Io vedo due strade per porre fine a questo sfruttamento 1)
      che gli editori non siano più aziende commerciali (ma non vedo il modo per realizzare una cosa simile) 2) pretendere da queste aziende commerciali il pagamento dei diritti d’autore (agli autori) e il pagamento dei referee.

      Nella 2) io vedo comunque delle controindicazioni:

      Innanzitutto le aziende editoriali private potrebbero giustificarsi dicendo che la rendita che loro incassano è giusta, perché è il premio per aver velocemente introdotto l’innovazione (l’editoria elettronica etc etc), e per avere nel tempo costruito una rivista di prestigio (e il prestigio è difficile da scalare per i concorrenti, un po’ come per le firme dell’alta moda). Ma c’è da considerare che sono spesso gli Stati, attraverso le loro istituzioni di ricerca, che comprano le riviste, il che fa parte del ‘finanziamento della ricerca’ che, come è noto (non tanto per gli italiani, sempre pronti a seguire l’imperatore di turno e a scimmiottare la sua religione che, adesso, è il neoliberismo) è finanziamento da considerare ‘a fondo perduto’ (cioè, se produce un ritorno economico, e lo produce sicuramente, lo produce troppo in ritardo per essere messo in bilancio sotto forma di ‘ritorno dall’investimento’). Allora uno Stato serio (cioè non il nostro)
      potrebbe porsi un giorno il problema: ‘per quale motivo regalare tutti questi soldi a editori privati? l’Editore scientifico lo faccio io’. Non sarebbe una cattiva idea, e farebbe risparmiare allo Stato un sacco di soldi (il che ci assicura che lo Stato Italiano questa idea non la prenderà mai in considerazione): d’ora in poi divieto di acquistare riviste private, e naturalmente declassamento delle stesse nelle varie classifiche Anvur. Al loro posto: Edizioni MIUR, con tutta la serie collegata di collane per i settori disciplinari. Gli Editori, in chief o associati, sarebbero poi scelti con gli stessi criteri con cui si scelgono nelle riviste delle società scientifiche internazionali.

      Per quanto riguarda la diatriba filosofica, c’è da osservare che io volevo fare un esempio da cui trasparisse la difficoltà di trovare un criterio oggettivo di pubblicazione per attività, per così dire ‘irrisultative’. Ma l’esempio che ho fatto non va bene perché si può notare che Preve, malgrado si definisca un ‘disistimatore di Negri’, gli riconosce comunque l’essere uno ‘scrittore creativo’, e malgrado dichiari di non volerlo più leggere, incita l’intervistatore (che non si vede, ma è il suo allievo Diego Fusaro)
      a occuparsi lui di Negri e a studiarlo (se non altro per confutarlo). In queste condizioni non ho difficoltà a concepire che un Preve editore saprebbe comunque riconoscere e rispettare i diritti di un Negri in quanto filosofo professionista (e quindi scrittore di articoli filosofici).

  3. Scusate, facciamola breve: Grigori Perelman ha dimostrato la congettura di Poincaré pubblicando su arXiv e basta.

    Un giorno gli archeologi si interrogheranno su come era possibile, per gli editori scientifici della nostra era, estrarre tanto plusvalore dal lavoro altrui senza fare, sostanzialmente, un beneamato nulla.

  4. Io l’ho risolta piu’ semplicemente. Quando ho una idea, sviluppo un nuovo metodo di calcolo o di misura, e voglio renderlo pubblico, aggiungo una pagina sul mio sito web personale che lo descrive, con link ai file dati, ai suoni ed alle immagini che dimostrano che funziona davvero.
    Queste pagine sono frequentatissime, ed all’estero sono conosciuto soprattutto per queste (e per il software shareware o open source, che pure si scarica dal mio sito).
    Poi con calma sottopongo alcuni dei miei lavori anche alle riviste tradizionali, perche’ (purtroppo) questo serve ai vari indici di valutazione bibliometrica cui siamo soggetti. Ma siccome mi sta qui che qualcuno debba pagare per leggere cosa ho pubblicato su una rivista, poi metto sul mio sito web il “preprint” di tutti gli articoli pubblicati. Alla faccia del copyright, aspettiamo che l’editore della rivista faccia causa alla mia Universita’, se ne ha voglia. Finora non lo ha fatto nessuno…

    • Ma c’è sempre una certa differenza fra l’open source (cioè che l’autore paga per farsi pubblicare l’articolo) e la rivista a pagamento. In quest’ultimo caso l’autore non paga, ma paga il lettore, anche se di fatto poi è una istituzione scientifica che paga un abbonamento e il lettore è personale specializzato che legge gli articoli per lavoro (è il suo datore di lavoro che gli ‘compra’ gli articoli che lui chiede di leggere). Come si fa a non notare la differenza fra ‘autore che paga per pubblicare’ e ‘autore che non paga’…. mi sembra sostanziale.
      Poi c’è qualcuno che parla di ArXiv…. ma ArXiv è una bacheca dove chiunque può scrivere qualunque cosa, cioè questo sito e noi che scriviamo dei post, siamo più soggetti a ‘review’ che non uno che lascia un articolo su ArXiv… Intendo dire va bene ArXiv, ma l’autore non può mica lasciarlo li senza pubblicarlo su una rivista tradizionale…

    • Non posso che ripostare un mio commento di due mesi fa (https://www.roars.it/open-access-open-science-litalia-un-paese-in-grave-ritardo/comment-page-1/#comment-63162):

      ===================
      Comunque, per cercare di diradare la nebbia dei pregiudizi sull’Open Access, le abbiamo provate tutte:
      __________
      Accesso aperto. Che cos’è? F.A.Q. & Answers
      https://www.roars.it/accesso-aperto-che-cose-f-a-q-answers/
      __________
      Sei miti da sfatare a proposito di Open Access
      https://www.roars.it/sei-miti-da-sfatare-a-proposito-di-open-access/
      __________
      Vista la riluttanza dei colleghi a leggere e informarsi, abbiamo persino provato con i cartoni animati:

      L’Open Access spiegato in 8 minuti dall’autore di PhD Comics
      https://www.roars.it/lopen-access-spiegato-in-8-minuti-dallautore-di-phd-comics/
      https://youtu.be/L5rVH1KGBCY
      __________
      Prossimamente, tenteremo con i libri parlanti, quelli che danno ai bambini di due anni e che fanno “miao miao” quando metti il ditino sul disegno del gatto.

    • Dopo aver visto alcuni ‘cartoni animati’ vedo che qualcuno ha quantificato la rendita che l’innovazione tecnologica dell’editoria sta procurando ad alcune società editoriali private.
      Non c’è dubbio che oramai è difficile capire quali siano i costi di una rivista, visto che i revisori lavorano gratuitamente e gli autori si producono fisicamente l’articolo da soli. Sembrerebbe che le riviste debbano pagare solo i revisori delle bozze e qualche altro impiegato. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché il prezzo dell’abbonamento non cala?
      E la risposta è altrettanto ovvia: è la classica situazione di rendita, goduta dalle riviste più antiche, o creata artificialmente dopo aver imposto l’uso dell’impact factor nella classificazione delle stesse.
      La situazione è forse meno scandalosa per quelle riviste di proprietà delle istituzioni scientifiche (tipo IEEE etc.) visto che non sono istituzioni ‘private’, e si presume che gli eventuali soldi guadagnati non finiscano in tasche private.
      Personalmente non ho niente in contrario rispetto alla proposta di depositare una copia ad accesso libero di un articolo pubblicato su rivista (anche perché la rivista non mi paga mica nulla per ogni ‘download’ di un mio articolo) e ammesso che si possa fare. A quanto pare però non si può fare, e la richiesta di ribellarsi evitando di pubblicare su quella rivista la vedo molto problematica. Questo delle riviste sembra un ulteriore problema fra i tanti problemi irrisolti…

  5. Possiamo stigmatizzare il fatto quanto vogliamo ma certamente, ad oggi, il compito principale delle riviste non è quello di diffondere (rispetto al quale arxive è molto più efficace) ma quello di certificare la qualità.

    Non solo tramite il pessimo sistema dei numeri, ma anche tramite quello della reputazione nella comunità di riferimento. Pubblicare su certe riviste serve a costruire la propria reputazione: nessuno di noi può leggere tutto. Se voglio farmi un’idea del valore di un mio collega guardo su che riviste pubblica. Poi se avrò modo di leggere i suoi valori mi farò un’idea più approfondita e realistica. Ma in prima istanza il nome della rivista fornisce una certificazione di qualità. Per cui chiunque avrà piu visibilità, nel mio settore, pubblicando su Annals of Mathematics che non sul Journal of the Malaysian Society of Mathematics.

    Da questo punto di vista alle riviste OA manca una buona reputazione scientifica. Se scorro la lista di riviste OA del mio settore penso che se qualcuno scegliesse di pubblicare solo su quelle sarebbe un masochista. Di certo non lo consiglierei a un giovane che ancora non si è fatto un buon nome nell’ambiente.

    Parliamo, dunque, di un cambiamento che può avvenire solo lentamente (la reputazione di una rivista richiede decenni per crescere e un paio di fascicoli per essere rovinata) e partendo dall’alto, cioè da chi può scegliere dove pubblicare con pochi assilli di questo tipo. Sarà un processo lungo.

    Credo che nel mio settore (matematica) il compromesso più diffuso sia il seguente:

    – mettere tutto su arXive prima di spedire alla rivista. Dopo l’accettazione qualche rivista mette clausole di copyright che richiederebbero di togliere l’articolo: discuterle o ignorarle.

    – privilegiare, se possible, riviste OA.

    – in seconda battuta indirizzarsi verso le riviste edite dalle “società professionali” come AMS, EMS (in crescita come quantità e qualità delle riviste) che almeno reinvestono i profitti in attività di servizio alla comunità.

    Purtroppo i principali editori scientifici monopolistici (Elsevier, Springer) hanno effettuato feroci campagne di acquisizione di piccole riviste, una volta edite in proprio dalle case editrici universitarie, al solo scopo di gonfiare i pacchetti venduti alle biblioteche con la tecnica del bundling. Io credo che chi ha la responsabilità di questi giornali dovrebbe evitarne la cessione a questi editori.

    – impegnarsi nel lavoro editoriale in favore delle riviste dei due tipi citati sopra. Non in quello di riviste dei monopolisti.

    Sull’APC come modello di pubblicazione, invece, mantengo fortissime riserve. Anche tenendo fuori i predatory journals (ma il conifine in qualche caso è labile) tenderà sempre a favorire chi ha più soldi a disposizione nei fondi di ricerca nei confronti di chi ha meno.

    • Sono le regole di valutazione che hanno trasferito alle riviste la “presunta” capcità di certificare. Lo spiega bene Pievatolo nel post.
      Sull’aggettivo “presunta” rimando a: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3690355/ ed alla bibliografia ivi citata.

      Infine a margine: gli editori, essendo più di uno, non sono “monopolistici”.

    • Non è vero che siano le regole di valutazione.

      La capacità di certificare “affidata” alle riviste precede di almeno una ventina di anni l’introduzione dei ranking e affini. Da quando (a partire dagli anni ’50 ma compitamente dagli anni ’70, a spanne) le singole comunità scientifiche sono cresciute di numero in maniera tale da passare da piccole comunità in cui la reputazione si costruiva principalmente tramite il contatto personale a comunità più ampie in cui ciò non era possibile e la reputazione si costruiva con le pubblicazioni.

      L’espressione “Publish or Perish” è degli anni ’20 del ‘900… Che poi i meccanismi di valutazione abbiano peggiorato, di molto, la situazione credo che sia sotto gli occhi di tutti. Oggi il meccanismo, per via della pressione a cui è sottoposto, è meno affidabile di dieci anni fa e tra dieci anni lo sarà ancora meno.

      (Oligopolio, d’accordo. Per la matematica duopolio, in effetti)

    • L’unica cosa veramente innovativa in questo campo che a mio parere si è vista negli ultimi anni è l’uso di piattaforme di discussione come stackoverflow e il modo in cui, nelle discussioni, si crea veramente una comunità scientifica tramite una discussione aperta e priva di filtri (possibilità di discutere con un nickname, valutazione degli utenti della utilità del post, moderazione comune). Però anche quelle comunità online, dopo un entusiasmo iniziale, ora mi sembrano mostrare un po’ la corda.

    • L’affidarsi alla pubblicazione come proxy di validità e l’invenzione, sopra questa prassi, di regole di valutazione di uso amministrativo appartengono a un unico processo di industrializzazione-burocratizzazione della ricerca che era già stato visto all’opera da Max Weber nella sua conferenza sulla scienza come professione, pronunciata nel 1917. Anche innovazione imprenditoriale di Garfield può essere fatta ricadere in questo medesimo processo.

  6. Per Francesco1

    1. Esistono già – perfino in Italia – riviste che sono edite da soggetti non commerciali, quali i sistemi bibliotecari universitari: se ne era parlato qui;

    2. Per la questione dei “risultati”, andrei cauta a trattarli come criterio di demarcazione fra scienza e filosofia, a meno da non voler mettere fuori gioco tutta la ricerca pura. Aristarco da Samo, nel III secolo a.C., sviluppò un’elegante teoria eliocentrica un paio di millenni prima che potesse avere un significato pratico. E, a voler credere a Lucio Russo, non era neppure un genio solitario, bensì uno scienziato – o filosofo naturale? – inserito in un sistema di sapere.

    3. Anche per quanto riguarda le citazioni e il loro uso – se vengono impiegate non solo per selezionare i testi da acquistare in biblioteca o per fare sociologia della scienza, ma anche per valutare la ricerca – eserciterei una certa cautela. Siamo così sicuri che offrano “criteri oggettivi” di valutazione, una volta assunte come tali? Perfino le scienze sociali hanno il loro principio d’indeterminazione.

    Il passaggio dall’uno all’altro sistema è difficile? Certo che lo è. Però, se ci piacciono così tanto le cose facili, forse abbiamo scelto il mestiere sbagliato…

    • La mia idea sulle citazioni è semplice, ma probabilmente non universale (va però grossolanamente bene per MAT ING FIS),
      Le citazioni si possono anche usare, ma solo nel modo seguente: a) eliminare le autocitazioni b) considerarle SOLO per i singoli articoli che superano una certa soglia (elevata: 200, o 300) c) per articoli a più nomi ogni valutazione quantitativa definita attraverso citazioni di un articolo deve dividere questa quantità (misura supposta del ‘valore’ dell’articolo) fra i suoi autori (e non attribuire lo stesso valore a ciascuno dei suoi autori… il che è un criterio DI BASE, dettato da necessità puramente LOGICA).

      E’ certo che Aristarco da Samo non potesse dimostrare le sue teorie eliocentriche ai suoi tempi. Ma qui la cosa interessante
      (del periodo ellenistico) è che Aristarco trovasse un senso in quella teoria (altrimenti non ci avrebbe lavorato su) senso che non poteva che essere questo: essa è non contraddittoria…
      E doveva evidentemente essere circondato da persone, e in un ambiente sociale in cui un pensatore che elabori congetture semplicemente non contraddittorie (cioè dal significato pratico praticamente nullo, se mi si passa il gioco di parole) riceveva evidentemente un’alta considerazione sociale. Le cose pratiche, tipo curare malattie prima mortali, E’ CERTO che, se arrivano, arrivano solo in un contesto culturale del tipo di quello di Aristarco. Per avere un idea, al contrario, di un contesto culturale OPPOSTO a quello ellenistico, possiamo citare sicuramente quello in cui prosperano personaggi come Luigi Zingales, uno cioè che afferma che è inutile finanziare l’università italiana e il governo italiano farebbe meglio a concentrare gli investimenti sul turismo.
      In conclusione, se oggi viviamo in un mondo in cui non si muore più di tisi, dobbiamo ringraziare anche la fortuna: sarebbe bastato che i barbari fossero come i maomettani (e cioè non si considerassero culturalmente inferiori a coloro che sottomettevano), o che la Chiesa cristiana scegliesse di distruggere tutte le opere della grecia classica e del periodo ellenistico, o che uno come ZIngales diventi un maestro di pensiero,
      e tutto il progresso possibile per l’Umanità
      svanirebbe come una bolla di sapone…

  7. Sulle citazioni per la valutazione della ricerca individuale: si possono usare tutti i correttivi possibili, e si può perfino ammettere in via provvisoria, per amor di discussione, che tutti i ricercatori bravi sono molto citati, ma rimaniamo con un problema logico. Anche se fosse vero che tutti i ricercatori bravi sono molto citati, non ne seguirebbe affatto che tutti i ricercatori molto citati sono bravi. Anche se è vero che tutti i mafiosi sono italiani, non ne segue affatto che tutti gli italiani sono mafiosi. Usare l’essere molto citati come indice di bravura (e premiarti di conseguenza senza leggere i tuoi testi) è come usare l’italianità come indice di mafiosità (e di conseguenza metterti in galera senza processo).

    La confusione fra un insieme (italiani, ricercatori bravi) e un suo sotto-insieme (mafiosi, ricercatori molto citati) è madre di molte discriminazioni. Ci è facile cogliere la fallacia che sta alla base di quelle in negativo (italiano –> mafioso), ma, bizzarramente, ci è più difficile capire che la stessa fallacia è all’opera anche nelle discriminazioni in positivo (molto citato –> bravo).

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