La ricerca in Italia – Cosa distruggere, come ricostruire” è il titolo di un convegno organizzato dall’Università Commerciale Luigi Bocconi. Ma cosa rimane ancora da distruggere? La risposta degli organizzatori è lapidaria: “è giusto tenere in vita dipartimenti e centri di ricerca in cui più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi?”. Ma dove sono questi rami secchi? Nella VQR, le strutture con un numero di inattivi superiore al 30% sono talmente poche da non giustificare un convegno. Forse gli organizzatori invocano la chiusura dei dipartimenti delle università che producono troppa ricerca di qualità “limitata”. Una categoria in cui però rientra anche la stessa Bocconi: il 33% dei suoi “prodotti della ricerca” è stato giudicato di qualità “limitata”, mentre due suoi dipartimenti sarebbero in prima fila tra i candidati alla chiusura dato che  più del 35% dei loro ricercatori rientra tra quelli che non hanno presentato nemmeno un lavoro di qualità “accettabile”.

Il 9 dicembre si terrà presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano un Convegno dal titolo inequivocabile:

La ricerca in Italia
Cosa distruggere, come ricostruire

(qui il pdf del volantino)

La autorità politiche, accademiche e scientifiche saranno rappresentate ai massimi livelli: interverranno il Ministro del MIUR, Maria Chiara Carrozza, il Rettore della Bocconi, Andrea Sironi ed il Prorettore per la Ricerca Tito Boeri, il Presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca, come pure i rappresentanti di altre università ed enti di ricerca. In evidenza la sponsorizzazione di Novartis, rappresentata dal suo Head Pharma Region Europe, Guido Guidi.

Dopo anni di pesanti tagli al settore dell’università e della ricerca, appare sorprendente che trovare qualcosa da distruggere sia una priorità. Per capire meglio, andiamo a leggere il breve testo di presentazione, di cui estraiamo alcuni passaggi significativi (i grassetti sono nostri).

La situazione della ricerca in Italia è per certi aspetti drammatica: il fatto che più di metà dei ricercatori italiani che hanno vinto gli Starting Grants ERC (European Research Council) abbiano deciso di portarli all’estero è un segnale preoccupante circa l’attrattività delle istituzioni di ricerca italiane. Sono in molti ormai a chiedersi se il nostro Paese possa ancora permettersi di fare ricerca. Mancano risorse, perché i tagli alla spesa pubblica di questi anni hanno colpito la ricerca accademica in modo assai poco selettivo. […]
È giusto tenere in vita dipartimenti e centri di ricerca in cui più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi? E come va utilizzato il censimento – valutazione della ricerca accademica appena terminato per rafforzare gli istituti che hanno maggiori potenzialità?
È giusto concentrare gli investimenti su pochissime istituzioni di ricerca in grado di raggiungere una massa critica di scienziati di livello? E come assicurarsi che altre istituzioni traggano beneficio da questo investimento? […]
Quale ricerca è maggiormente congeniale al nostro Paese? Dovremmo puntare quasi tutto sull’innovazione in aree collaudate – moda, turismo e alimentari – e indirizzare la “vera” ricerca in pochissimi settori, ben selezionati, giocando solo lì la nostra competizione col mondo globale della scienza?

Non è dato sapere chi è l’estensore del testo, ma i contenuti echeggiano, seppure in forma dubitativa, slogan già sentiti (Università: miti, leggende e realtà – Collector’s edition!). La ricerca di qualcosa da distruggere ricorda la “splendida ossessione” di Francesco Giavazzi da sempre convinto che in Italia ci sia troppa università:

Se a errori ripetuti per decenni si vuol rimediare in un giorno c’è un solo modo: chiudere i corsi di laurea. […] In luglio il Senato ha approvato la riforma dell’università. Non è una legge ideale, ma va dato atto al ministro Gelmini di aver fatto un importante passo avanti. La legge riconosce che i corsi devono essere ridotti, le università snellite, alcune chiuse. F. Giavazzi 2010

Che manchino risorse pochi potrebbero negarlo, ma – si noti bene – non è per colpa dei tagli, ma perché essi non sono stati selettivi. Che si potesse tagliare sostanziosamente senza grave danno, grazie ai possibili recuperi di efficienza, era una tesi di Mariastella Gelmini.

È risibile il tentativo di qualcuno di collegare la bassa qualità dell’Università italiana alla quantità delle risorse erogate. Il problema, come ormai hanno compreso tutti, non è quanto si spende (siamo in linea con la media europea) M. Gelmini 2009

Anche l’idea di concentrare gli investimenti in pochi centri di eccellenza è un refrain già ascoltato:

Prima di dire che si spende troppo poco per l’ università, occorre avere il coraggio di ammettere che delle nostre 100 università solo una ventina possono ambire alla categoria di «research universities». F. Giavazzi 2010

Che poi l’Italia debba fare un passo indietro in importanti settori di ricerca per puntare invece sul turismo è una tesi a suo tempo enunciata da Luigi Zingales:

Questi “esperti” sono i terapeuti che nel recente passato hanno fornito dalle colonne dei giornali e dagli schermi televisivi le ricette con cui è stata “curata” l’università. Gli esiti sono stati quasi fatali, ma non sembra che siano in arrivo ripensamenti, anzi l’impressione è che si cercherà di aumentare i dosaggi.

Il Nobel Paul Krugman ha preso in prestito da Mark Blyth il nickname “Bocconi boys” per indicare alcuni economisti legati all’ateneo milanese, culturalmente vicini ai terapeuti di cui stiamo parlando. Nel seguito, prenderemo in prestito lo stesso termine per identificare gli sconosciuti estensori del volantino. Ma i Bocconi boys sono dei terapeuti credibili?

Prima di affidarsi alle ricette di un medico è bene assicurarsi della correttezza delle sue diagnosi. Come pure accertarsi che sappia comprendere i referti degli esami clinici. Negli ultimi anni il dibattito sull’università ha spesso assunto toni surreali perché venivano ignorati o del tutto travisati i referti dell’OCSE o delle statistiche di produttività scientifica. Persino il numero di atenei è stato alterato nei modi più vari e meno di tre mesi fa sul Corriere della Sera Gianna Fregonara (moglie del premier Letta) invocava una classifica degli oltre 400 atenei in Italia (in realtà sono meno di 100).

In questo articolo ci domandiamo se i Bocconi boys del convegno milanese riportino in modo corretto e consapevole i dati della VQR in base ai quali additano i futuri “tagli espansivi”, una sorta di variante accademica dell’austerità espansiva dei Bocconi boys criticati da Krugman.

1. A caccia dei covi di fannulloni! Ma dove stanno?

I Bocconi boys si domandano preoccupati:

Queste righe fanno pensare che la valutazione della ricerca appena conclusa, la VQR 2004-2010, abbia rivelato l’esistenza di molti dipartimenti e centri di ricerca in cui più del 30% delle persone sono scientificamente inattive o producono ricerca di qualità infima. Dato che rimane l’ambiguità sul significato dell’espressione al di sopra di standard minimi, consideriamo due possibili intepretazioni.

La prima interpretazione, che chiameremo Ipotesi A, è che una pubblicazione scientifica sia considerata al di sopra di standard minimi se rientra tra quelle valutabili senza penalizzazioni nell’ambito della VQR. È un’interpretazione che ha una sua ragionevolezza: se più del 30% delle persone non producono nemmeno una pubblicazione scientifica nell’arco di sette anni, quel dipartimento ha sicuramente dei problemi. La domanda sollevata dai Bocconi boys fa pensare che la situazione sia seria. Verifichiamolo.

Se andiamo ad esaminare i Rapporti finali della VQR ci rendiamo conto che accanto ai nomi dei dipartimenti non è riportata la percentuale di persone inattive. Questa percentuale è invece resa disponibile area per area in relazione ad ogni ateneo. A seconda dei casi, l’insieme di persone considerate potrebbe coincidere con un dipartimento (per es. in alcun atenei il dipartimento di Matematica potrebbe includere tutti e soli i docenti e ricercatori di Area 1), mentre in altri casi l’insieme potrebbe essere più largo o più piccolo di un dipartimento. Ai fini di una ricognizione generale sul grado di inattività, questa limitazione non sembra però essere decisiva. Per le aree 7, 8 e 12, l’informazione sui soggetti inattivi non sembra essere direttamente disponibile e, nei limiti del possibile, deve essere ricostruita in base alla percentuale di prodotti mancanti e penalizzati.

Scendendo nel dettaglio, l’ANVUR distingue tra 3+1 gradi di inattività

  • Non attivi: non hanno presentato alcun lavoro
  • Parzialmente attivi: hanno presentato un numero superiore alla metà ma non tutti i lavori
  • Parzialmente inattivi: hanno presentato al più la metà dei lavori attesi
  • Non pienamente attivi: la somma dei tre precedenti

Seguendo l’ANVUR, consideriamo due indicatori: la percentuale di soggetti non atttivi (inattività completa) e la percentuale di soggetti “non pienamente attivi”.

Per le aree 7, 8 e 12, il numero di strutture con una percentuale di “non attivi” superiore al 30% (penultima colonna) è stimato in base alla somma delle percentuali di prodotti non conferiti e penalizzati. Per le stesse aree, il numero di strutture con una percentuale di “non pienamente attivi” superiore al 30% (ultima colonna)  è indicato come “non disponibile” (n.d.).


Nella Tabella 1, viene riportato, per ogni Area CUN, il numero di strutture (atenei o enti di ricerca) in cui pìù del 30% delle persone sono non attive (penultima colonna) oppure non pienamente attive (ultima colonna). Come si può vedere, sono numeri estremamente limitati. Se anche si staccasse la spina, i conseguenti risparmi non appaiono in grado di restituire risorse significative.

2. La linea dura: nessuna pietà per i mediocri

Che i Bocconi boys si siano persi in mezzo al labirinto delle pagelle VQR? Non sarebbe una novità. Nemmeno due settimane fa, Tito Boeri, intervistato da Bruno Vespa, era inciampato sui numeri parlando di soli 15.000 prodotti valutati invece di 184.878 e imputando al CNR un 30% di inattivi, privo di riscontri nei rapporti ufficiali. Però, prima di deplorare la scarsa attenzione ai numeri da parte dei Bocconi Boys concediamo loro una seconda possibilità e formuliamo un’Ipotesi B.

Può darsi che i loro standard meritocratici siano così elevati che non basta presentare alla VQR dei lavori validi per poter dire di pubblicare al di sopra di standard minimi, ma è necessario che questi lavori ricevano un punteggio strettamente maggiore di zero. Infatti, nella VQR, una volta messi da parte i prodotti mancanti e quelli penalizzati per irregolarità di vario genere,  ai prodotti valutabili vengono attribuiti quattro possibili punteggi (Rapporto Finale ANVUR – Parte I, p. 21):

  • Eccellente: la pubblicazione si colloca nel 20% superiore della scala di valore condivisa dalla comunità scientifica internazionale (peso 1);
  • Buono: la pubblicazione si colloca nel segmento 60% – 80% (peso 0.8);
  • Accettabile: la pubblicazione si colloca nel segmento 50% – 60% (peso 0.5);
  • Limitato: la pubblicazione si colloca nel 50% inferiore (peso 0);

A prima vista, sembra ragionevole affermare che chi ottiene zero punti, ovvero non presenta nessun lavoro che sia almeno “Accettabile” abbia una produzione scientifica collocabile “al di sotto di standard minimi”. In realtà, questa equivalenza non è così scontata per almeno due ragioni.

In primo luogo, la definizione di “Limitato” comprende tutti i prodotti che si collocano nella metà inferiore della produzione mondiale rispetto ad un’ipotetica scala di valore condivisa dalla comunità scientifica internazionale. Pertanto, considerare “al di sotto di standard minimi” tutto ciò che sta al di sotto della categoria “A” equivale ad affermare che metà della produzione mondiale si colloca al di sotto di standard minimi. Un’opzione legittima, ma severa.

In secondo luogo è la stessa ANVUR a non ritenere affidabili le linee di demarcazione tra i giudizi E, B, A, L, al punto da sconsigliare decisamente le comparazioni tra diverse aree scientifiche:

Tra le finalità della VQR non compare il confronto della qualità della ricerca tra aree scientifiche diverse. Lo sconsigliano i parametri di giudizio e le metodologie diverse di valutazione delle comunità scientifiche all’interno di ciascuna area (ad esempio l’uso prevalente della bibliometria in alcune Aree e della peer review in altre), che dipendono da fattori quali la diffusione e i riferimenti prevalentemente nazionali o internazionali delle discipline, le diverse culture della valutazione, in particolare la diversa percezione delle caratteristiche che rendono “eccellente” o “limitato” un lavoro scientifico nelle varie aree del sapere e, infine, la variabilità tra le Aree della tendenza, anche involontaria, a indulgere a valutazioni più elevate per migliorare la posizione della propria disciplina. Rapporto Finale ANVUR – Parte I, p. 7

Un “Accettabile” per i Fisici potrebbe valere di più o di meno di un “Accettabile” per le Scienze Economiche e Sociali. Dato che i voti dell’Area 13 (Scienze Economiche e Sociali) sono sensibilmente i più bassi di tutta la VQR, non si può escludere che in tale area anche più del 50% della produzione mondiale sarebbe catalogato nella categoria “L“.

Ma l’autentica meritocrazia non si perde in simili quisquilie e preferisce guardare verso l’alto, piuttosto che attardarsi nei bassifondi. Pur consapevoli che questa “linea dura” potrebbe essere fuorviante, proviamo a stare al gioco e diamo per buona questa seconda definizione di “standard minimo”. Sfogliando i Rapporti finali di area della VQR è possibile trovare la percentuale di prodotti “Limitati” e “Penalizzati”. Il loro numero è particolarmente elevato nell’Area 13, dove la Tab. 4.7b. mostra che la Bocconi – pur occupando un onorevole sesto posto – si vede attribuita una percentuale superiore al 33% di prodotti “al di sotto di standard minimi”.

Se esaminiamo i dati disaggregati (Tab. 4.10a.), ci sono due dipartimenti della Bocconi che hanno più del 50% dei prodotti VQR sotto standard minimi. Sono dei dati preoccupanti. È vero che andrebbero posti nel contesto dell’Area 13 in cui la valutazione ha assegnato punteggi sensibilmente più bassi della media, ma una volta accettata l’Ipotesi B si dà per scontato che i prodotti limitati si collocano sotto gli standard minimi. «È la meritocrazia, bellezza» direbbe Humphrey Bogart.

Se però prendiamo alla lettera i Bocconi boys, più che guardare alle percentuali di cartaccia, dobbiamo andare alla caccia dei dipartimenti in cui più del 30% delle persone non hanno presentato prodotti almeno “Accettabili”.

Questo dato è reperibile nella Tab. 4.15 del Rapporto finale di Area 13. Nessuna sorpresa che – adottando questo metro draconiano – in giro per l’Italia vi siano molti dipartimenti che rischierebbero la chiusura. Più sorprendente invece di trovare in questa scomoda condizione ben due dipartimenti della Bocconi.

Cosa ci attende lunedì 9 dicembre? Un’autodenuncia di inefficienza sottoscritta dalle massime autorità accademiche della Bocconi di fronte al ministro e agli organi di stampa? È tradizione più che consolidata invitare il governante di turno per allungare la mano e concordare misure a proprio favore. Un’autodenuncia sarebbe una svolta senza precedenti.

3. È giusto tenere in vita la Bocconi?

L’impeto distruttore dei Bocconi boys evoca darwinistiche lotte per la sopravvivenza accademica, destinate a “rafforzare gli istituti che hanno maggiori potenzialità”. Se però si brandiscono numeri che non trovano riscontro nei rapporti ufficiali, sorge qualche dubbio sulla fondatezza delle diagnosi. Un figura ancora peggiore sarebbe quella di chi invoca la chiusura dei dipartimenti altrui, senza accorgersi che sta chiedendo la chiusura  di due dipartimenti della sua stessa università.

Paradossalmente, i nostri lettori potrebbero chiedersi se sia giusto tenere in vita un ateneo i cui maîtres à penser sono così prodighi di ricette dispensate a cuor leggero.

Domandiamocelo: è giusto tenere in vita la Bocconi?

Forse sì.

Ultimamente, le prospettive dell’università italiana sono così deprimenti che persino un sorriso – seppur passeggero – non ha prezzo.

Beh,  a dire il vero, un prezzo c’è. Sebbene Alesina e Giavazzi sostengano che

la Bocconi non riceve sussidi pubblici

Roars ha mostrato che nel 2012 lo stato italiano ha finanziato la Bocconi per quasi 15 milioni di euro (14.945.741 Euro, per la precisione), cui vanno aggiunti contributi regionali non noti ma di entità presumibilmente paragonabile (per esempio, secondo il Corriere nel 2009 il totale di contributi statali e regionali ammmontava a 32 milioni).

Al Convegno su “Cosa distruggere” è stato invitato anche il Ministro Carrozza, che, sfoderando un sorriso a metà tra l’enigmatico e il beffardo, potrebbe cogliere la palla al balzo:

Sapete bene che non so più dove andare a recuperare i soldi per premiare il merito. Se proprio insistete, prendo sul serio la linea dura. Tagliamo il finanziamento statale alla Bocconi, se non tutto, almeno quello relativo ai dipartimenti dove più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi. Non so come ringraziarvi. State dando un grande esempio di coerenza meritocratica.

P.S. Se fossimo nei panni del Magnifico Rettore della Bocconi metteremmo un veto ai cultori della “valutazione fai-da-te”: «D’ora in poi è vietato parlare a vanvera di valutazione. Prima di invocare distruzioni e chiusure per i dipartimenti che non raggiungono la sufficienza, abbiate l’accortezza di controllare le pagelle dell’ateneo che vi paga lo stipendio. Business is business».

 

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43 Commenti

  1. „Quale ricerca è maggiormente congeniale al nostro Paese? Dovremmo puntare quasi tutto sull’innovazione in aree collaudate – moda, turismo e alimentari – e indirizzare la “vera” ricerca in pochissimi settori, ben selezionati, giocando solo lì la nostra competizione col mondo globale della scienza?“

    Alla luce di queste domande retoriche rimane solo da chiedersi: MA LE aziende italiane le CHIUDIAMO tutte e anche le UNIVERSITÀ e i centri di RICERCA? O meglio …… che cosa ancora ci resta da chiudere se non investiamo in scuola, ricerca e università? e con questo non intendo – moda, turismo e alimentari !
    Ricordo che l´Italia é in svendita già da molto, consiglio questo articolo come esempio ma su internet ne trovate tantissimi.
    http://www.ilgiornale.it/news/economia/litalia-vendita-cos-vengono-svenduti-i-nostri-gioielli-888883.html
    Solo per ricordare un paio di etichette italiane che finiscono fuori del bel paese. Per la moda: Bulgari, Fendi, Gucci, Bottega Veneta, Gianfranco Ferrè, Safilo,…
    Nel comparto alimentari: Parmalat, Galbani, Invernizzi, Cademartori e Locatelli, Star, Buitoni, Motta, Baci Perugina, …
    “È davvero difficile trovare oggi chi investe in un Paese come l’Italia – ha concluso Severino – frenato non solo da una crisi sempre più evidente, ma anche dall’assenza di una visione che vada oltre la logica delle prossime elezioni”.
    —–
    Pensate che CLASSE DIRIGENTE E POLITICA che abbiamo avuto e abbiamo attualmente. NON SAREBBE IL CASO DI CAMBIARE (MANDARE A CASA) PROPRIO QUESTA perché vedendo i risultati, ben sotto la media, non mi sembra che abbiano meritato e meritino lo stipendio che prendono!
    ——
    http://www.youtube.com/watch?v=WCAwKaXobBM

  2. L’affermazione che circa il “50% dei vincitori italiani di ERC porti i propri grant all’estero” è un po’ fuorviante. In realtà, i vincitori di nazionalità italiana che hanno presentato la domanda con istituzioni estere sono in massima parte gente che all’estero già c’era e ha ottenuto un supporto significativo da quelle istituzioni.
    Un degli elementi di valutazione degli ERC è aver ottenuto significativi finanziamenti a livello nazionale. Ironicamente, la percentuale di successo degli ultimi PRIN e FIRB è approssimativamente del 3%, di gran lunga inferiore al 10% dei grant europei che sono molto competitivi. Moltissimi ricercatori italiani con un’ottima valutazione PRIN/FIRB non ha visto il proprio progetto finanziato per mancanza di risorse.
    Che forse l’urgenza non sia distruggere e ricostruire ma si intervenire a rendere competitivi i ricercatori italiani tramite gli strumenti adeguati?

  3. Mi sono appena registrato e volevo semplicemente esprimere il mio apprezzamento per questo articolo, che con la forza dei dati e dell’ironia svela un mare di presunzione ed ignoranza …

    Di grande valore considero anche il precedente articolo
    Università: miti, leggende e realtà – Collector’s edition!

    Nel caso non l’avesse già fatto, invito l’autore a pubblicare questi contenuti su giornali a tiratura nazionale, in modo che anche chi è fuori dal mondo universitario possa valutare …

  4. Guardata questo grafico:
    http://chartsbin.com/view/1124?fb_action_ids=10151905208619342&fb_action_types=og.likes&fb_source=other_multiline&action_object_map=%5B10150106448283014%5D&action_type_map=%5B%22og.likes%22%5D&action_ref_map=%5B%5D

    “This map shows the distribution of researchers per million inhabitants, latest available year. Researchers are professionals engaged in the conception or creation of new knowledge, products, processes, methods and systems and also in the management of the projects concerned.”

    bene, se dessimo credito a questi numeri siamo al di sotto della Grecia, poco più della Tunisia…non parliamo del resto del mondo tecnologicamente avanzato…1616 ricercatori per milione…la Spagna 2944…è rimasto poco da distruggere evidentemente.
    Quanto alla Bocconi la mia esperienza personale (sample size = 1, ma ben più di un evento…) è del tanto fumo e poco arrosto…e dai dati del post lo si vede bene questo arrosto…

  5. Un piccolo gruppo di pressione sta continuamente diffondendo informazioni false sull’università italiana. Sarebbe interessante capire chi ci sta dietro perché già almeno cinque anni fa lessi un’intervista in cui l’allora rettore della Bocconi (Tabellini) dichiarava che bisognava tagliare un anno di scuola superiore per realizzare “la vera riforma della scuola”. In altre parole, si sono proposti di scippare a tutti i cittadini italiani quote di istruzione pubblica e ciò viene chiamato “miglioramento”, “meritocrazia” e “vera riforma”.

  6. Perdonate la stupidità, ma cosa significa “chiudere” un Dipartimento? Licenziare tutti quelli che appartengono al Dipartimento? Dubito che questo sia l’improponibile obiettivo, ma immagino che si pensi di portare questi dipartimenti allo sfinimento riducendo via via i finanziamenti. Il risultato indiretto sarebbe probabilmente quello di obbligare i Dipartimenti incriminati a “chiudere” i corsi di laurea che in questi Dipartimenti sono incardinati. E mobilità per i docenti sprovvisti di carico didattico (sia il 30% “cattivo che il 70% “buono”, della serie buttiamo il bambino con l’acqua sporca).
    Ma non si volevano realizzare i teaching e i research departments? Quest’ultima bocconiana trovata mi sembra andare nel senso opposto: i dipartimenti “scadenti” nella ricerca smetteranno di fare didattica (o moriranno e basta) mentre i dipartimenti “eccellenti” nella ricerca si caricheranno nuova didattica (riducendo probabilmente la loro “eccellenza”).
    C’è poca logica in questa ansia distruttrice. Qualche trauma infantile ancora da superare?

  7. Cari colleghi, chi è di Milano potrebbe presenziare, registrare e poi scriverci un reportage? Il titolo del convegno è terrificante: distruzione. Ma nella presentazione non trovo riferimento al 30%. Qual è la vostra fonte?

    La ricerca in Italia Cosa distruggere, come ricostruire
    9 dicembre 2013 ore 9.00 Aula Magna

    La situazione della ricerca in Italia è per certi aspetti drammatica: il fatto che piùdi metà dei ricercatori italiani che hanno vinto gli Starting Grants ERC (European Research Council) abbiano deciso di portarli all’estero è un segnale preoccupante circa l’attrattività delle istituzioni di ricerca italiane. Sono in molti ormai a chiedersi e il nostro Paese possa ancora permettersi di fare ricerca.Mancano risorse dato che i tagli alla spesa pubblica di questi anni hanno colpito,in modo assai poco selettivo, la ricerca accademica. Ancora più grave il fattoche il confronto pubblico ignori completamente questi problemi, come se la ricerca fosse un bene di lusso.

    Una serie di domande fondamentali rimangono così inevase: quale ricerca è più congeniale al nostro Paese? Dovremmo puntare quasi tutto sull’innovazione in aree collaudate – moda, turismo e alimentari – e indirizzare la “vera” ricerca in pochissimi settori, ben selezionati, giocando solo lì la nostra competizione col mondo globale della scienza? È giusto concentrare gli investimenti su pochissime istituzioni di ricerca in gradodi raggiungere una massa critica di scienziati di livello? E come assicurarsi che altre istituzioni traggano beneficio da questo investimento? Quale raccordo è necessario stabilire tra ricerca, politica industriale e il tessutoe la tipologia delle aziende che abbiamo oggi e che avremo in futuro? Di quale governance della ricerca abbiamo bisogno?Ogni Ministero per sé e “regole sparse” o serve una visione d’insieme e un’azione coerente nel tempo?
    Obiettivo della giornata è cercare di dare risposte almeno ad alcune di queste domande attraverso gli interventi dei più autorevoli protagonisti della ricerca pubblica e privata, e dei rappresentanti delle istituzioni e del mondo industriale.

  8. E’ ormai innegabile che l’Università Pubblica è da anni sotto attacco.

    Ed il modo migliore per attaccare qualcuno è screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica.

    E non possiamo chiuderci nella nostra torre d’avorio.

    Ci stanno levando la torre infatti.

    Dobbiamo difenderci, ed il modo migliore di farlo è diffondere e difendere la realtà dei fatti.

  9. articolo bellissimo ed ottimamente documentato. Effettivamente bisognerebbe dargli il massimo risalto possibile sulla stampa.
    Tra l’altro dimostra che non esisteva un’emergenza università, tale da giustificare i provvedimenti punitivi della riforma gelmini. Con la fine del ruolo a tempo indeterminato dei ricercatori e la demotivazione dei docenti, conseguente alla riduzione dei finanziamenti ed alla scomparsa dell’organo deliberante di facoltà , le cose andranno certamente molto peggio. A meno che qualcuno non si decida a proporre l’abrogazione della legge gelmini.

  10. Dal Sole 24 Ore dell’8 dicembre 2013
    http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-12-08/ora-si-deve-passare-fatti-084815.shtml?uuid=ABTj8gi&p=2
    =============================
    Ora si deve passare ai fatti

    Maria Grazia Roncarolo*,08 dicembre 2013 e Giuliano Buzzetti**
    *Presidente Gruppo 2003
    **Segretario del Gruppo 2003
    _____________________________
    Il 9 dicembre si terrà un convegno all’Università Bocconi, promosso dal Gruppo 2003, Università Bocconi e Novartis Italia dal titolo «provocatorio» La ricerca in Italia: cosa distruggere, come ricostruire. Da molti anni si parla della ricerca italiana e dei suoi mali: un malato grave, definito «terminale». Non c’è scienziato italiano all’estero o in Italia che non sappia fare la diagnosi e identificarne le cause. Una classe politica che, fino a oggi, non ha compreso che ricerca, innovazione e politica industriale sono un trinomio inscindibile e non ha mai avuto la ricerca tra le priorità della propria agenda. Un sistema baronale universitario che in questi anni ha messo in atto, salvo rare e apprezzate eccezioni, una politica al ribasso, spesso privilegiando fedeltà e appartenenza a scapito di professionalità ed eccellenza. Risorse inadeguate con finanziamenti alla ricerca che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa, nonostante una produttività scientifica complessiva di tutto rispetto. Distribuzione a pioggia dei pochi finanziamenti disponibili, in assenza di sistemi di peer review meritocratici e trasparenti. Mancanza di una visione strategica complessiva che identifichi in quali aree scientifiche investire e quali eliminare. Salari non competitivi e percorsi di carriera non basati su regole internazionali, che hanno portato al fenomeno dei cervelli in fuga. Assenza di policies ben definite per favorire le interazioni tra accademia e industria. Scarsa incentivazione dell’industria a investire in ricerca in Italia dove il costo del lavoro è molto elevato e la pressione fiscale intollerabile. Assenza di significativi vantaggi fiscali per le donazioni alla ricerca. Per non parlare del cosiddetto «soffitto di cristallo» che impedisce alle donne di raggiungere posizioni di responsabilità, sicuramente più spesso in Italia che in altri paesi.
    La diagnosi è sempre chiara, puntuale e condivisa. Purtroppo non è altrettanto semplice e lineare individuare la terapia. Va dato atto che i ministri dei recenti governi, seppur in maniera un po’ naive e quasi sempre senza consultare gli addetti ai lavori, si sono adoperati per mettere in atto provvedimenti apprezzabili, che poi si sono rivelati insufficienti e talora in contraddizione gli uni con gli altri o controproducenti: la riforma Gelmini del l’Università non ha portato a quella trasparenza e meritocrazia nelle carriere universitarie che molti si aspettano. La riforma Fornero del lavoro ha penalizzato invece che favorire i nostri giovani ricercatori con una collaborazione a progetto ed in attesa di una posizione fissa. Il cinque per mille ha rappresentato una vera boccata di ossigeno per molte Istituzioni di ricerca ma il tetto massimo imposto e l’allargamento progressivo del numero di enti beneficiari ne sta progressivamente riducendo l’impatto.
    Difficile capire tutti i perché di questi fallimenti. Una risposta ovvia potrebbe essere: non ci possono essere cambiamenti efficaci senza un cambiamento di mentalità. Gli italiani sono un popolo abituato ad aggirare le regole, individualisti non disposti a rinunciare a qualcosa di proprio per il bene comune e abituati al premio ma non alla sanzione. Tutto vero, ma forse la spiegazione e più complessa e la soluzione è ancora lontana. Ricostruire è impresa ardua che necessariamente dovrà prevedere una nuova strategia politica, una maggior cultura scientifica e un ricambio generazionale. I nostri politici dovrebbero guardare con attenzione e umiltà oltreconfine all’America, alla Germania, alla Svezia e anche alla Cina che hanno ben compreso che il futuro sviluppo di ogni Paese dipende dagli investimenti in ricerca e dalla valorizzazione del capitale umano. Dovrebbero capire e accettare che il ritorno dell’investimento economico nella ricerca scientifica è monetizzabile solo a lungo termine e va quantificato in termini di competitività e crescita del Paese.
    Il fatto che la nostra società consideri ancora la ricerca un settore non strategico, un «bene di lusso»: il primo da sacrificare in tempi di crisi è solo responsabilità dei nostri politici o anche di noi scienziati?
    Se negli ultimi vent’anni avessimo comunicato e trasferito alla società con coraggio e costanza il valore della ricerca e della scienza e la sua importanza per il progresso del paese, se fossimo scesi in piazza per dire che solo un paese miope e irresponsabile investe nell’educazione dei propri giovani per poi donarli gratis agli altri paesi, se avessimo usato bandiere e megafoni per rivendicare i nostri diritti e costringere i nostri politici ad ascoltarci, se avessimo fatto sistema per denunciare l’inaccettabile e suicida politica dei tagli alla ricerca… oggi saremmo nella stessa situazione?
    Troppo pudore? Troppo solipsismo? Troppo pessimismo? Troppo «italiani» anche gli scienziati? Difficile rispondere, ma se guardiamo anche al Gruppo 2003 e alle numerose attività che in questi dieci anni ha svolto per sensibilizzare la classe politica sui problemi della ricerca, per divulgare la conoscenza scientifica, per promuovere la cultura del merito e proporre una nuova governance del sistema dobbiamo concludere che il risultato non è proporzionale allo sforzo! Recentemente abbiamo rivolto 10 domande alla classe politica ricevendo feed-back positivi, tra cui quello dell’attuale ministro della Ricerca. Tra i temi centrali l’esigenza di costruire un’unica cabina di regia per la ricerca pubblica, la necessità di promuovere la carriera dei giovani ricercatori, l’implementazione di un sistema significativamente meritocratico per le università, sono assolute ed urgenti priorità. Per tutti noi, ma soprattutto per le nuove generazioni di scienziati, le nostre rising stars, è urgente passare dalle parole ai fatti. Dobbiamo garantire lo sviluppo futuro della ricerca italiana per scongiurarne la fine. Di questo parleremo nel convegno del 9 dicembre all’Università Bocconi: non c’è più tempo e il conto alla rovescia è già iniziato!

    • “se fossimo scesi in piazza per dire che solo un paese miope e irresponsabile investe nell’educazione dei propri giovani per poi donarli gratis agli altri paesi, se avessimo usato bandiere e megafoni per rivendicare i nostri diritti e costringere i nostri politici ad ascoltarci, se avessimo fatto sistema per denunciare l’inaccettabile e suicida politica dei tagli alla ricerca… oggi saremmo nella stessa situazione?”

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      Veramente noi in piazza ci siamo scesi, e siamo pure saliti sui tetti mentre altri disquisivano, dalle prime pagine di *tutti* i giornali del fatto che la riforma Gelimini non era perfetta ma era un gran bel passo in avanti. E anche Roars è nata proprio dall’essersi resi conto che il sistema informativo è andato alla deriva ed è utilizzato solo per fare propaganda piuttosto che per una equilibrata discussione in cui si confrontano punti di vista diversi.

    • Nel documento si sostiene: “Non c’è scienziato italiano all’estero o in Italia che non sappia fare la diagnosi e identificarne le cause.” Più o meno come affermare che “non c’è giocatore di calcio che potrebbe fare il ct della nazionale”; “non c’è imprenditore/manager che non sappia fare la diagnosi della crisi e identificarne le cause”.

  11. Francesco Sylos Labini ha perfettamente ragione. Se gli eccellentissimi del gruppo 2003 non si sono accorti che molti di noi sono da anni in piazza “usando bandiere e megafoni” esattamente per dire che serve investire nella formazione e nella ricerca, denunciando “l’inaccettabile e suicida politica dei tagli alla ricerca”, forse hanno perso qualche pezzo del puzzle. Capita quando si eccelle: si è impegnati in altro, lo capisco.
    E’ molto curioso, però, che anche avendo sotto gli occhi il titolo di un convegno in cui si parla esplicitamente di distruzione della ricerca italiana, questo passi inosservato (o non compreso, o preso come una simpatica burla). Ma anche questo può capitare. Poi uno ci pensa meglio, vede che effettivamente si sta da tempo distruggendo (come dice bene il gruppo nel suo articolo) , vede chi partecipa al convegno e tira le ovvie, evidenti somme.
    Comunque se i colleghi del gruppo 2003 hanno finalmente voglia di usare megafoni per dire che la ricerca non va distrutta ma finanziata, l’occasione c’è: domattina, davanti alla Bocconi, venite con la Rete29Aprile. Venite con con gli studenti e con chi altri vuole difendere la ricerca e porre le basi per prospettive migliori; per ricordare ai convenuti (diversi dei quali sempre in prima fila nelle operazioni di smantellamento) la realtà dei fatti, attraverso dati concreti e proposte altrettanto concrete.
    Venite con noi a dire che l’eccellenza non si coltiva da sola, ma sorge da pazienti investimenti, anche e soprattutto sulla ricerca di base. Venite a dire che lo smantellamento dell’alta formazione è un suicidio per il paese; a spiegare ad alta voce che la direzione è del tutto diversa, e che la ricerca e i ricercatori non possono resistere molto oltre (per quanto stiano facendo il massimo, come Francesco Sylos Labini, Giuseppe De Nicolao e altri hanno spesso assai ben spiegato).

    Lì ci sarà una linea: da una parte chi la ricerca vuole difenderla, migliorarla, farla, nel miglior modo possibile. Dall’altro ci saranno quelli che da tempo cercano di distruggerla e ora non hanno neppure più il pudore di nasconderlo.
    Noi vi aspettiamo: voi da che parte starete?

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