Riceviamo, per tramite di Petronia Carillo (CoNPAss), il discorso pronunciato da Marco Mancini, Presidente della CRUI, all’inagurazione dell’Anno Accademico della Seconda Università di Napoli. In appendice, alcune proposte operative sottoposte dal CoNPAss al Ministro.
Seconda Università degli Studi di Napoli, Caserta, 3 dicembre 2012. “Ventennale di Ateneo”. Inaugurazione dell’anno accademico 2012-2013.
Intervento del presidente della CRUI, prof. Marco Mancini.
Caro Rettore, Autorità, cari Colleghi Rettori, carissimi Studenti,
ringrazio di cuore l’amico Franco Rossi per avermi conferito l’onore di parlare a questa cerimonia del Ventennale del suo Ateneo. Porto all’evento il saluto caloroso della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, nella cui Giunta lavora anche il rettore Rossi. È l’occasione anche di ringraziarlo per quanto sta operando a favore del sistema universitario italiano in questo suo importante ruolo. E ti prego, caro Franco, di voler gradire anche i miei personali e affettuosi auguri per il Ventennale della Seconda Università di Napoli.
La natura di questa cerimonia impone – e il Rettore lo ha già fatto egregiamente – qualche bilancio. Io, per mia parte, non mi sottrarrò a questo impegno con le poche considerazioni che seguiranno.
Venti anni possono sembrar pochi solo a chi non tenga presente che cosa è accaduto in questi due decenni al sistema delle Università. Non è tanto la scansione delle leggi, dalla 537 del 1993 alla recentissima 240 del 2010 a descrivere la trasformazione del sistema delle Università. Sono piuttosto i problemi che l’attanagliano costantemente e il rischio del collasso imminente a marcare le fasi di questa difficile storia.
Venti anni. Le riforme avviate con Ruberti alla fine degli Anni Ottanta, per tentare di condurre l’Università italiana al passo con le trasformazioni sociali ed economiche del Paese e della competitività internazionale non sono state portate a compimento. L’autonomia, ad esempio, è una riforma monca, incompiuta.
Si trattava allora di passare da una università che formava le élites, l’intelligencija di un paese, ad un’università che entrava come struttura portante nel generale processo di innovazione di un Paese industriale avanzato:
– formandone la classe dirigente come i suoi quadri medi (fornendo anche personale qualificato alle imprese) con ricerca e formazione più direttamente orientate allo sviluppo dell’economia;
– mettendo in atto attività tese al miglioramento della qualità della vita (ad es. medicina, ambiente) e alla crescita culturale (ad es. ricerche di tipo umanistico, artistiche, sociali, economiche, giuridiche ma non solo) che hanno a loro volta ricadute nel medio-lungo periodo sull’economia e sul grado di sviluppo di un paese;
– e naturalmente, lavorando al più generale miglioramento della conoscenza (ad es. in settori come l’astrofisica, le particelle elementari, etc., tutte discipline non legate direttamente a possibili sviluppi economici di medio termine).
L’obiettivo era forte e chiaro, puntuale e necessario. Necessario, soprattutto. Perché l’economia e il mondo del lavoro con essa sono in fase di rapido e profondo mutamento. In questi ultimi decenni abbiamo assistito ad una riscrittura della divisione del lavoro a livello mondiale, all’accelerazione della diffusione di nuovo sapere e all’accorciarsi delle aspettative di vita dei nuovi prodotti. Tutto questo richiede un più rapido incorporamento del sapere scientifico non solo nei prodotti ma anche nei processi produttivi. Piaccia o meno, questo è il mondo con il quale dobbiamo fare i conti. Richiede nuove competenze sociali e di cittadinanza. Nuove e più sviluppate capacità critiche, mi permetto di aggiungere.
Tuttavia questi ruoli e queste funzioni non sono stati pienamente compresi. Non si ha ancora il senso di a cosa serva realmente la ricerca. La rivista “Nature” di questo mese ha scritto un duro e doloroso epicedio a riguardo: «science is subject to a level of irrational suspicion in many countries, but in Italy there is a perception that science doesn’t even matter — a state of affairs encouraged by decades of underfunding and political disdain». “Political disdain”: parole che fanno male.
Questo è un Paese pieno di geni individuali, le cui capacità però vengono sfruttate all’estero. Perché i nostri quando vanno all’estero diventano bravi? Perché s’inseriscono in un’organizzazione infrastrutturale e in un sistema più avanzati. Quel sistema che si omette di costruire quando si pensa a tagliare i finanziamenti per Università e Ricerca e a improvvisare soluzioni sporadiche e di nicchia.
Gli ultimi governi di questa e di altre legislature hanno espresso un tipo di soluzione per cui di fronte a pochi fondi: (a) ci si arrende dinnanzi alla pochezza dei finanziamenti; (b) si dice che, siccome sono pochi, bisogna puntare non su un sistema adeguato, ma su poche eccellenze da individuare e coltivare, (c) si bloccano di fatto i concorsi e le assunzioni (necessari al ricambio generazionale), (d) si riduce il diritto allo studio e si invita ad aumentare le tasse.
Mi è capitato altre volte di compendiare questa situazione con la frase: «si è passati dall’economia della conoscenza all’economia sulla conoscenza»
Ma così facendo non si capisce che l’eccellenza nasce dalla grande pratica e non nasce da sola. Non può esserci sviluppo se si ha solo eccellenza occasionale e casuale, chiusa in se stessa, che non diventa sistema e che non può usufruire del sostegno di un sistema adeguato. Tanto è vero che la pratica economica ce lo sta insegnando. Siamo un Paese di nicchie che non riesce a decollare. E adesso si vuole ripetere il modello per la ricerca universitaria. Per non dire del pubblico – sottolineo pubblico – diritto all’educazione superiore, una delle conquiste più rilevanti del mondo contemporaneo. E una delle speranze per un mercato del lavoro che è, purtroppo, in costante riduzione e dequalificazione. Più Università per un giovane significa comunque più possibilità. Anche questo è un problema che rientra nel vasto novero dei problemi del lavoro che ha questo Paese. Lavoro e istruzione, in quanto costituzionalmente garantiti, dovrebbero rientrare nella sfera dei diritti non negoziabili invece che essere oggetto di compressioni finanziarie. Un diritto non può né deve essere una questione economica, specie se è un diritto fondamentale per il quale deve essere lo Stato – e solo lo Stato – a farsi carico.
Per consentire alle Università di svolgere questo ruolo di centro di produzione della materia prima per lo sviluppo ma anche di competenze sociali e di cittadinanza, necessarie alle sfide che la globalizzazione ci sottopone, occorre rimettere in moto e governare questo stesso processo secondo linee semplici e precise.
Quali sono i temi per ridare slancio alle missioni dell’Università appena ricordate? Si tratta di temi urgenti che rispondono a quella che chiamerei «la domanda di futuro» delle nostre Università. La rigiriamo oggi con fiducia a chi dovrà governare a breve questo Paese. Spes ultima dea.
A tutt’oggi, vista dalla parte di chi opera negli Atenei e negli Enti di Ricerca, la strategia è stata dominata dal semplice «non ostante». Le Università operano, infatti, «non ostante». Non ostante uno degli indici più bassi fra popolazione attiva e ricercatori del mondo: l’Italia è al 3,7 con una media OCSE del 7,6. Non ostante una delle quote più basse di investimenti per Ricerca e Sviluppo sul PIL del mondo industrializzato: l’Italia è all’1,26%, la media europea è il 2,1 con la Francia al 2,25%, la Germania al 2,82%. Non ostante retribuzioni ferme da anni per le quali non si vede neppure la speranza di un reintegro come per altri comparti dello Stato; non ostante la cronica mancanza di una rete sistemica e integrata di infrastrutture della ricerca che, come appena accennato, costringono i nostri giovani a lavorare all’estero.
Non ostante tutto questo i ricercatori italiani sono al nono posto per produzione di articoli scientifici (ma in discesa, dice la classifica SCImago); le Università hanno incrementato le commesse dall’esterno fino al 15% rispetto ai trasferimenti dello Stato; alcuni settori come la bioingegneria, la biomedicina, la farmaceutica, le telecomunicazioni ci vedono all’avanguardia nella scena mondiale. Non ostante.
Insisto. Dei benefici che il lavoro delle Università arreca all’Italia, alla competizione per le risorse in Europa, all’educazione di centinaia di migliaia di giovani il Paese sembra non accorgersi. Si è assistito in silenzio allo strangolamento progressivo degli Atenei. Oggi abbiamo 10.000 unità di personale in meno rispetto a soli quattro anni fa: da 58.303 docenti del 2009 a 53.753 nel 2012, e da 56.450 unità di personale T.A. del 2009 a 53.500 nel 2012. Stiamo subendo un ‘taglio’ di quasi il 13% ai finanziamenti statali: il finanziamento ordinario delle Università nel 2009 è stato di 7,541mld di euro; nel 2013 sarà di 6,550mld di euro (e gli stipendi sono il 95% di questo fondo). Abbiamo un blocco sostanziale del turn-over e l’impossibilità conseguente dei ricambi generazionali, l’unica linfa reale per la ricerca.
Ritengo che ci sia bisogno di interventi urgenti e ineludibili. Quattro sono le parole-chiave: autonomia reale, programmazione certa, ricambio della docenza, diritto pieno allo studio.
Autonomia. L’architettura autonomistica è stata smantellata nelle fondamenta. O la si ricostruisce o tanto vale tornare alla vecchia Università gentiliana con tanto di centralizzazione e burocratizzazione. Bisogna ridare slancio all’impianto autonomistico garantito costituzionalmente. Liberare gli Atenei dalle maglie di una legislazione fatta di cavilli, vincoli, lacci e lacciuoli. Alla forte autonomia deve poi corrispondere una valutazione gestita in maniera robusta e non approssimativa. Dunque: rafforzare l’autonoma responsabilità e, di converso, rafforzare e ripensare l’Agenzia ANVUR, oggi troppo debole e fragile.
Programmazione. Non c’è serio investimento se non all’interno di una seria programmazione. Non si può lamentare la difficoltà di gestione degli Atenei (che restano la punta di eccellenza delle pubbliche amministrazioni come mostra facilmente un confronto con quanto avviene altrove, a cominciare dagli Enti locali), se le Università vengono affamate. Letteralmente affamate e portate al collasso, come sta avvenendo in questi giorni se non si interverrà sul DDL “stabilità” per il 2013. Il Ministro si sta impegnando. Noi gli siamo accanto in questa battaglia. Non possiamo però perderla, pena il collasso del sistema. Irreversibile. I tempi stringono. Il DDL è in seconda lettura al Senato e, se nulla cambierà, siamo pronti a iniziative dure e clamorose. Non possiamo accettare che con una sola legge finanziaria Università e Ricerca pubbliche siano smantellate definitivamente, realizzando l’antico sogno di Tremonti.
Manca poi una programmazione pluriennale degli Atenei. Quale impresa potrebbe sopportare di avere le risorse in chiusura di esercizio, senza mai sapere che cosa accadrà delle proprie entrate l’anno successivo? Dunque una legge di programmazione che fissi le cifre e le poste. C’è anche un numero: 7 miliardi (6,9 nel 2012). Da ripartire con criteri seri e rigorosamente meritocratici. Criteri noti, condivisi e trasparenti. So che anche su questi criteri è in corso un lavoro del Ministro e del suo staff su cui, se possibile, vorremmo quanto prima confrontarci. Fra questi adempimenti programmatori c’è n’è uno particolarmente urgente: l’attuazione della delega sul riordino dei rapporti fra Università e Servizio Sanitario nazionale su cui mi permetto di sollecitare il Ministro.
Ricambio. Oggi le Università stanno invecchiando con una rapidità impressionante. Le uscite dal sistema per limiti di età non sono rimpiazzate. Vincoli al turn-over, sistemi farraginosi di reclutamento. Tutto sembra cospirare per impedire ai giovani di entrare stabilmente nell’area del sapere. È giusto, come il Ministro ci sprona continuamente a fare, attrezzarci per la competizione europea in vista di Horizon 2020 ma a quella scadenza non possiamo arrivare con una squadra decimata. C’è bisogno urgente di una nuova politica di reclutamento che – si badi – non necessita di fondi aggiuntivi dello Stato. Basta consentire alle Università di impiegare quelli a disposizione, ovviamente secondo procedure rigorose. Conosciamo ovviamente il quadro dei sacrifici ai quali è sottoposta la Pubblica Amministrazione. Ma segnaliamo anche che noi questi sacrifici li abbiamo già fatti, peraltro sottoponendoci a dure valutazioni. Sarebbe ora che si tagliasse a chi non solo si è sottratto a qualunque forma di valutazione ma ha impiegato le risorse in maniera poco trasparente.
Diritto allo studio. I capaci e meritevoli del dettato costituzionale in Italia non hanno più copertura piena coi fondi per il diritto allo studio. Basta leggere i giornali di oggi per sapere che cosa sta avvenendo nella mia Regione, il Lazio. Le famiglie stentano a mantenere i figli alle Università. Le rette – c’è un mio impegno personale su questo registrato sull’Unità di agosto – non dovranno aumentare, ma ciò non toglie che gli studenti faticano a vivere nelle Università, specie se fuori sede. Alcune regioni del sud non arrivano alla copertura del 50% delle borse e la media nazionale è dell’87%.
Quando si vede cosa avviene dei fondi regionali in alcune parti d’Italia viene da piangere di rabbia. Per non dire delle residenze universitarie: appena il 22% degli aventi diritto alla borsa di studio ha ottenuto un posto alloggio nell’anno accademico 2008/09; la percentuale scende al 2,1%, se si rapporta il numero di posti disponibili al totale degli studenti iscritti. Cifre grottesche se raffrontate con quelle degli altri Paesi europei. Cinquanta milioni di euro nel DDL stabilità non sono sufficienti. occorre maggiore attenzione a riguardo.
Noi diciamo ai nostri studenti che laurearsi è importante: ma dai corsi di studio alle borse, a differenza di quel che avviene in Germania o in Francia, non facciamo nulla per facilitare la loro formazione. E i risultati si vedono, purtroppo: il combinato del calo generalizzato dei professori e della mancanza dei fondi per il diritto allo studio ha provocato un calo dal 2005/2006 al 2010/2011 del ben -11% nel numero delle matricole. Dunque c’è bisogno di una politica seria di investimenti per gli studenti.
Concludo. Oggi ogni scelta deve fare i conti con il tipo di sviluppo che si vuole mettere in atto e – certamente – che ci si può permettere. Oggi più che mai le alternative per competere in questo campo si sono ridotte: da un lato una brutale competizione basata sul basso costo del lavoro o, dall’altro, una competizione sana fondata sull’innovazione. Bisogna scegliere da che parte stare e costruire le condizioni per restarci. Occorre allora lavorare alla costruzione delle condizioni che ci allontanino dallo sfruttamento del lavoro a basso costo, che ci consentano di lavorare per una società della conoscenza. Quando diciamo che la scienza oggi ha assunto un ruolo diverso rispetto alla società è perché essa ha cambiato posizione all’interno della produzione generale: è diventata una risorsa. E il ruolo dell’Università, le riforme e gli investimenti ad essa dedicati vanno ripensati secondo queste linee. Qui – solamente qui – sta l’aspetto cruciale del prossimo futuro.
Grazie.
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Su alcune storture non ancora rilevate e ancora evitabili
(rimedi di breve periodo per superare l’impasse nel turn over dei professori ordinari)
La sovrapposizione e la coesistenza di numerosi limiti, introdotti per ragioni diverse (finanza, ricambio generazionale, ri-proporzionamento delle fasce), invece di regolare in modo ordinato e fluente il turn over per la prima fascia, ha sostanzialmente bloccato a tempo indeterminato tale ricambio. Tra i molti, i principali ostacoli sono costituiti dall’utilizzazione del punto organico per misurare il finanziamento necessario alla chiamata “interna”, dal limite di chiamate rispetto ai posti banditi per ricercatori di tipo b, dal limite di finanza pubblica del 20% del turn over complessivo. Mentre il piano di reclutamento straordinario dei professori associati, volto alla progressione di carriera dei ricercatori, supera alcuni di questi limiti, nessuna salvaguardia è prevista per la progressione di carriera dei professori associati.
Nella consapevolezza della difficoltà di intervenire nell’immediato sui limiti imposti per ragioni di finanza, si propongono tre correttivi immediati i quali ove necessario possono trovare spazio nel provvedimento cosiddetto “mille proroghe” in corso di approvazione.
- Il primo di essi è la modificazione dei criteri di individuazione della copertura finanziaria per la chiamata degli interni. Ferma restando l’esigenza di un razionale sistema di pianificazione dell’organico, l’applicazione dell’attuale criterio del punto organico indipendentemente dall’anzianità di servizio posseduta dall’interno che viene chiamato determina un’anormale e fittizia necessità di copertura finanziaria. In molti casi, invece, la chiamata dell’interno non comporterebbe all’ateneo alcun differenziale di spesa reale. Per tale ragione si propone di modificare il criterio del punto organico per le chiamate degli interni inserendo il criterio del “differenziale di costo individuale” proiettato su un ragionevole arco temporale. Analogamente si può agire sul recupero del maggior costo effettivo del personale andato in pensione.
- Il secondo è indubbiamente costituito dall’eliminazione del vincolo della corrispondenza tra le chiamate dei professori ordinari e i posti banditi di ricercatori a tempo determinato di tipo b, anche perché di fatto finora nessun ateneo ha bandito tali posti e invece le risorse sono state “distratte” verso posti di tipo a. Altre sono le forme che devono garantire la massimizzazione dei posti di tipo b negli atenei, come ad esempio proposto di seguito.
- Il terzo rimedio, che può essere o alternativo o auspicabilmente aggiuntivo al secondo, è quello di abrogare tout court la lettera (a) del comma 3 dell’art. 24 della legge 240 del 2010, ovvero imporre agli atenei un limite massimo (assai piccolo) di posti di tipo a bandibili in rapporto ai posti di tipo b.
Di tutta evidenza si tratta di correttivi volti a limitare le storture prodotte dall’accavallarsi di norme molto poco meditate. Una stabile, duratura e sostenibile (anche finanziariamente) soluzione del problema del turn over complessivo, del reperimento delle risorse necessarie al funzionamento dei corsi di studio, della redistribuzione delle risorse stipendiali a favore dei giovani docenti a inizio carriera, è costituita, come in moltissime occasioni è stato ricordato e dimostrato, dal ruolo unico con valutazione permanente. Si tratta di una profonda ristrutturazione dello stato giuridico della docenza universitaria con modalità del tutto diverse da quelle finora proposte da altri gruppi. Saremmo pertanto ben lieti di intraprendere un dialogo costruttivo con Ella per illustrare tale idea e gli effetti positivi che la sua applicazione avrebbe sull’intero sistema universitario.
Sia sempre chiaro che il ruolo unico di cui discutiamo è agli antipodi dell’ope legis, che invece l’attuale controversa attuazione del sistema di abilitazioni nazionali inevitabilmente determinerà. Una ragione di più per porvi rimedio anzitempo.
CoNPAss, sezione locale della Seconda Università di Napoli
CoNPAss, direttivo nazionale
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Caserta, lì lunedì 3 dicembre 2012.
Al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca,
prof. Francesco Profumo
Una SERIA programmazione triennale (ossia una programmazione che valga davvero per tre anni, e non possa essere cambiata di anno in anno, come avviene ora) sarebbe sufficiente a evitare gli errori più gravi.
Aggiungo che, nell’ipotesi di budget costante, e non tagliato ogni anno come avviene ora, la programmazione necessaria sarebbe già oggi disponibile a livello di sistema, e sarebbe abbastanza facile per i singoli atenei trasferirla alla propria realtà. Se poi tutto ciò sia “realistico” non dipende dai Numi ma da noi, dai Governi e dai Rettori che liberamente eleggiamo.
“Se poi tutto ciò sia “realistico” non dipende dai Numi ma da noi, dai Governi e dai Rettori che liberamente eleggiamo.”
Ah, ecco… Non mi ero acorto di aver “liberamente eletto” una cricca di maneggioni che guardano – al più – al dopodomani e alle carriere dei loro accoliti. Non mi ero nemmeno accorto di aver “liberamente chiesto” al ministro Profumo di prorogarli tutti di un altro anno… Colpa mia, sono un po’ sbadato, è tutto più chiaro ora.
Di sicuro non sono stati messi ad esaurimento i RTI per introdurre automatismi RTD-PA, anzi. I FFO saranno fluttuanti e, forse, non sarà altrettanto facile fare programmazioni poliennali. Di sicuro i dipartimenti staranno attenti alle posizioni di RTDB e non sarà da escludere che i requisiti medianici di PA non vengano richiesti già per il RTDB.
A proposito di “non sarà altrettanto facile fare programmazioni poliennali” mi vengono in mente la prassi e la mentalità che hanno guidato fino adesso, per lo meno a livello delle vecchie facoltà (da noi, non so come era altrove), la cosiddetta programmazione della docenza. Si faceva un elenco di priorità, poi a seconda dei posti in organico disponibili e delle nuove necessità, che si creavano anche artificiosamente attraverso i progetti di corsi di laurea in parte scoperti, si modificavano continuamente, di anno in anno, le prime postazioni dell’elenco. Ogni anno emergevano nuove necessità da colmare. E tutto questo si chiamava programmazione pluriennale, dove fondi, posti, necessità dipendevano dalla pura contingenza. Peggio dei piani quinquennali di pseudo-communistica memoria. Questa mentalità sarà difficile da sradicare.
IL tuttora vigente, e troppo spesso dimenticato, comma 2 dell’Art. 6 della Legge 168/1989 recita testualmente:
“Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento. E’ esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare”
Ciò detto, ho già spiegato che non sono contrario alla “riserva”, ma non vedo dove stia scritto che 0,2 punti saranno “confiscati” dopo tre anni (né riesco a immaginare una qualunque giustificazione per una tale operazione: immagino si tratti di un fraintendimento del fatto che occorrono ulteriori 0,2 punti per passare da RTD a) a RTD b), come ovvio)
mi sembra che la questione dei punti perduti allo scadere dei td fosse indicata in una circolare miur.
peraltro è stato proprio per questo motivo che lo stesso ministro ha esplicitamente invitato a bandire solo tda su fondi esterni, appunto per non bruciare punti budget.
la logica che c’è dietro una tale confisca è la stessa che fa sì che si perdano quote di punti budget quando un docente va in pensione, si dimette, muore ecc.
sono i famosi tagli al turnover, che si applicano sia per la cessazione delle posizioni a TI che per quelle a TD
va da sé che una tale rapina, per i posti td che durano tre anni, è ingiustificabile e fortemente penalizzante.
Infatti è una follia che i punti organico degli RTD a) vadano persi ed è assurdo che un Ministro, invece di porre rimedio a questa follia sicuramente originata dalla mente di qualche burocrate, consigli di non bandire RTD a) per non “bruciare” punti organico.
Ma stiamo scherzando? I punti organico vengono bruciati per volontà ministeriale, mica per scelta delle università.
Puoi bandire ma ho deciso che se bandisci bruci risorse. Quindi ti consiglio di non bandire. Paradossale.
errata: è la normativa sul turnover, e non una circolare, a determinare il fatto che quando scadono i td una quota dei punti budget viene bruciata. questo perché la legge equipara quelle cessazioni a quelle dei TI, in modo evidentemente irragionevole
Per fp: avevo dimenticato di virgolettare il “liberamente”, ma mi pareva che il contesto chiarisse il senso dell’affermazione anche senza le virgolette
UNA SUPPLICA AGLI AMICI DI ROARS:
fate in modo che i commenti restino in ordine cronologico (non dovrebbe essere difficile!) altrimenti le discussioni vanno avnti a casaccio, come sta accadendo ora (metà degli ultimi commenti sono nell’altra pagina insieme con i primi commenti di ieri)
l’ordine dei commenti viene deciso dal software e non è possibile cambiarlo. se si risponde a un commento procedente conviene usare l’opzione “Rispondi” in coda al commento e non aggiungerne uno nuovo. comunque è vero che è un po’ diordinato, vediamo se troviamo un plugin per wordpress migliore. (Comments and suggestions are welcome!)
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