Se non ci si vuole arrendere allo slogan della cultura come merce ci si deve porre il problema della trasmissione di una coscienza critica come compito dell’università autonoma. Non è accettabile la prassi da troppi seguita di criticare il nuovo (le nuove norme, le riforme, le altrui debolezze), ma poi cercare di approfittarne comunque per favorire la propria posizione. Il sapere e la cultura non sono morti, però è vero che oggi essi operano spesso fuori dall’università.  Il sapere critico, tuttora, può sempre trovarsi nel chiuso di qualche stanza, locali ormai non più così affollati vista la riduzione del numero dei docenti. Ma tutto questo sta lì per caso. Dobbiamo trovare un modo per far si che anche l’università torni ad aver bisogno della sua comunità.

Lo scorso 7 dicembre avevamo pubblicato un articolo di Gaetano Azzariti originariamente apparso sul Manifesto,  che rappresentava una sintesi di un contributo su Giurisprudenza Costituzionale che ora riproponiamo in forma integrale.


Sommario: 1. Il precipizio. — 2. Com’è potuto avvenire? — 3. L’abbandono del modello costituzionale. — 4. Dopo Humboldt, il nulla. — 5. La sfiducia nell’università. — 6. Rimettersi in gioco: la questione del sapere, nonostante l’università.

1. Il precipizio

Si può sintetizzare lo stato di salute del nostro sistema universitario in pochi dati. In dieci anni il numero degli iscritti si è ridotto di 58 mila unità. Nella fascia d’età tra i 24 e i 34 anni i laureati sono il 21%, rispetto ad una media Ocse pari al 38%, peggio di noi solo Turchia, Brasile e Cina. La spesa per l’università in rapporto al Pil ci collocava nel 2009 al 32° posto su 37 monitorati dall’Ocse (ritengo che, dopo i tagli operati dalla legge 133, la situazione sia peggiorata). Tutte le classifiche internazionali mostrano la marginalità delle nostre università sulla scena globale. Nonostante i disservizi per gli studenti e nella didattica siamo terzi in Europa per misura delle tasse universitarie. A fronte di una drastica riduzione delle risorse finanziarie per l’università pubblica non corrisponde un analogo trend per le università private, alle quali si continuano ad erogare risorse (con qualche voce d’incremento).

Inoltre, s’è messo in moto un meccanismo di abilitazioni nazionali per la selezione del corpo docente che non esito a definire irresponsabile, poiché rischia di generare una nuova “questione sociale” che paralizzerà la vita universitaria per i prossimi quarant’anni, fornendo a una massa di abilitati, privi di garanzie, l’illusione del nulla e sottraendo agli atenei, ai docenti, ai ricercatori, alle prossime generazioni di studiosi ogni possibilità di programmare il proprio futuro.

D’altronde, per comprendere come l’università abbia cambiato volto basta guardare alla concreta esperienza di ogni singolo ateneo o facoltà. Così, nel giro di poco tempo, da ultimo con un’inevitabile accelerazione dettata dalla necessità di sopravvivere, la facoltà nobile e antica di giurisprudenza dove insegno è diventata altro da sé.

C’è chi piange e c’è chi ride per le trasformazioni in atto, ma io temo che in pochi si siano posti il problema spinoziano del capire, per operare, per governare consapevolmente la transizione e non invece semplicemente farsi trasportare dal vento freddo del tempo.

Certamente non si registra nessuna volontà di capire — ovvero di porre in discussione quanto sin qui descritto — da parte del sistema politico: non è all’ordine del giorno la questione universitaria. Di università nessuno ha parlato durante la campagna elettorale,  nel corso della quale il ministro dimissionario del Governo ha continuato indisturbato a percorrere la sua strada verso il caos. Ora un nuovo Governo: l’attuale ministro si sta occupando giustamente della scuola. A quando un intervento sull’università?

2. Com’è potuto avvenire?

Una domanda allora deve porsi: com’è potuto avvenire? Come siamo potuti giungere sino a questo punto nell’inconsapevolezza dei più, in un clima di spensierata disattenzione o colpevole silenzio?

I dati richiamati non permettono neppure al migliore ottimista di negare lo stato di crisi in cui versa l’università italiana oggi. I dati richiamati impongono alle coscienze critiche e non arrese di ricercare le ragioni di fondo che spiegano il declino. Una decadenza non inevitabile, della quale siamo tutti un po’ artefici, nessuno esente da colpe; quelle accademiche sono grandi e un po’ di autocritica dovremmo pur farla.

Due — a mio modo di vedere — le ragioni di fondo: 1) da un lato l’essersi allontanati sempre di più dal disegno di cui all’articolo 33 della nostra Costituzione. Avere operato in sostanza al di fuori dei principi costituzionali; 2) dall’altro lato di non essere riusciti – il legislatore, la politica, la cultura – ad affermare un modello di università in grado di sostituire l’università humboldtiana, forse ormai storicamente superata, ma che, sin qui in Italia, non ha lasciato eredi.

3. L’abbandono del modello costituzionale.

Con riferimento al primo dei due punti indicati basta qui ricordare che la nostra Costituzione (art. 33) collega il principio di autonomia universitaria, a garanzia della libertà di insegnamento e di ricerca scientifica, all’istituto della riserva di legge. Definisce così un rapporto privilegiato — se non esclusivo — tra legge dello Stato da un lato e autonomia statutaria dall’altro. Ora, la “rottura” del rapporto legge dello Stato/Statuto appare del tutto evidente. Ciò anche grazie a una giurisprudenza costituzionale assai poco incline a interpretare in modo rigoroso la garanzia di cui all’ultimo comma dell’art. 33 (vedi la sent. n. 383 del 1998); nonché a seguito dell’estendersi delle competenze regionali in materia d’istruzione, ricerca e sostegno all’innovazione, che ha contribuito a far smarrire il senso di un’università intesa come comunità (non locale, bensì internazionale) degli studi e della ricerca.

Attualmente il sistema universitario appare regolato da una selva incolta di decreti ministeriali, i quali si sono andati stratificando senza coerenza dalla fine degli anni ’80. Decreti emanati di volta in volta che hanno reso evidente la perdita di visione complessiva. Una congerie di atti (non solo decreti, anche circolari, regolamenti, atti ministeriali di incerta natura), privi di organicità, reggono ormai le sorti dell’università. Nell’insieme — forse — può dirsi che esprimono una concezione di “autonomia sotto tutela ministeriale” (D’Atena), ma ciò che preoccupa maggiormente e che tutti questi atti, nella loro caoticità, non interpretano nessuna idea di università.

4. Dopo Humboldt, il nulla.

La confusa sedimentazione normativa non è stata, però, priva di effetti. In particolare ha certamente aumentato la burocratizzazione affiancata da un’illusoria pretesa dirigistica. In tal modo ci si è contrapposti all’idea di università tradizionale, senza però riuscire a proporne una nuova. È questa la seconda questione che si voleva affrontare.

Può darsi che il modello humboldtiano — che non è riducibile solo a potestà di autogoverno, ma che in essa rinviene i propri presupposti — sia ormai superato, che non sia più proponibile l’idea di una comunità degli studi e degli studiosi che fonda le proprie pretese di autonomia sulla necessità di garantire il sapere e la libertà della scienza. Quel che però è certo è che non vedo nessuna capacità di sostituire a questo un altro modello.

La pretesa di alcuni di costruire un modello aziendale, dirigistico, efficientistico, economicistico di università — che qualcuno sostiene essere alla base della riforma in atto — semplicemente non esiste. Almeno in Italia. La voglia di trattare la cultura come merce è semplicemente l’affermazione di un non modello. Espressione di una regressione culturale: basterebbe leggere qualche classico liberale o guardare fuori dai confini per comprendere la differenza ontologica tra mercato e cultura. Il tentativo di riduzione della cultura a merce è solo l’indice del fallimento nella costruzione del nuovo sistema.

5. La sfiducia nell’università.

La riforma universitaria promossa con l’ultima legge (la n. 240 del 2010) si inserisce come tessera di un mosaico da tempo in costruzione. Essa, se da un lato tende a chiudere definitivamente le porte all’idea di università intesa come una “comunità degli studi”, autosufficiente, composta da studiosi a da studenti autonomi e in grado di autogovernarsi; dall’altro esprime la definitiva rinuncia ad affermare un’altra idea di università. È la sfiducia (la rinuncia come sfiducia) la cifra della legge n. 240. Essa esprime un giudizio puramente negativo sull’università che induce a un atteggiamento sanzionatorio il quale fa agio sulla stessa intelligibilità del disegno normativo complessivo.

Come interpretare diversamente le norme sulla governance di primo e secondo livello; l’emarginazione dei Senati Accademici; la centralità — anche per quanto riguarda le scelte culturali dell’Ateneo – di un organo per sua natura amministrativa e contabile come i Consigli di Amministrazione; la riduzione delle Facoltà a solo eventuali strutture di raccordo; la sottrazione (con il decreto n. 18 del 2012) ai Dipartimenti del potere di spesa; la professionalizzazione della figura del Rettore, dominus ma non più di una comunità d’appartenenza, bensì di una lobby separata e politicizzata.

E poi, la rinuncia al confronto e l’esclusione della rappresentanza che ha fatto migrare la sede delle decisioni didattiche e scientifiche dai tradizionali organi collegiali (i vecchi Consigli di facoltà) a commissioni, giunte o rinsecchiti organi istituzionali.

Una sfiducia che si esprime in modo esemplare in sede di valutazione dell’attività didattica e scientifica. L’Anvur, un organo ministeriale, non certo la comunità degli studiosi, dovrà stabilire che fare, come fare, chi vale, in base a quali criteri. Tutto ciò utilizzando parametri non culturali. Numeri, mediane, algoritmi, il caso (dell’estrazione): tutto è meglio per valutare chi “merita” di diventare professore, purché non sia la comunità degli studiosi a decidere. Questa ha perduto ogni credibilità.

Non voglio difendere il vecchio sistema — siamo tutti coinvolti, forse tutti un po’ colpevoli — ma se anche fosse vero — e io non credo — che la comunità degli studiosi universitari italiani non può più essere lasciata all’autogoverno è chiaro che lo spirito distruttivo e sanzionatorio della 240 non ha nulla da dire in positivo al rinnovo dell’università.

6. Rimettersi in gioco: la questione del sapere, nonostante l’università.

In questa situazione mi paiono importanti tre considerazioni.

1) Se vogliamo salvare l’idea d’università non ci rimane che mettersi in gioco. Tanto non c’è molto da perdere. Il silenzio dell’accademia appare invece assordante.

2) Nel vuoto del modello, rimettersi in gioco non vuol dire tanto contrastare il nuovo che avanza, bensì — con più ambizione — porre al centro della riflessione e del proprio operare la questione del sapere. Se non ci si vuole arrendere allo slogan della cultura come merce (dominante ormai l’immaginario collettivo) ci si deve porre il problema della trasmissione di una coscienza critica come compito dell’università autonoma. Autonoma perché critica e non finalizzata al mercato, non espressione del mainstream, non assoggettata a nessun tipo di potere. Un’università incondizionata (Derrida).

Rimettersi in gioco, ripensare il sapere e la sua capacità di costituire massa critica e riflessiva per le nuove generazioni non è facile. Ad essere onesti con se stessi, forse, non se ne ha neppure una gran voglia, visti la crisi e il clima di depressione che c’è in giro. Ma, con altrettanta franchezza, bisogna affermare che non è sopportabile continuare a tutelare il proprio particolare. Non è accettabile la prassi (l’habitus mentale) da troppi seguita di criticare il nuovo (le nuove norme, le riforme, le altrui debolezze), ma poi cercare di approfittarne comunque per favorire la propria categoria, la propria posizione, i propri amici. Si finisce per perdere così, tutti quanti assieme, l’orizzonte generale — l’interesse generale — rappresentato da un’università come centro di cultura. L’unica prospettiva entro cui valga la pena operare.

3) Il sapere e la cultura non sono morti, però è vero che oggi essi operano spesso fuori dall’università. A volte nonostante l’università. Può darsi che all’università si possano ancora incontrare profonda saggezza e vivace intelligenza, ma solo per caso. Si possono accidentalmente trovare grumi di conoscenza critica in qualche corso che ha passato — chissà perché — il vaglio  delle strutture adibite a controllare esclusivamente Crediti Formativi Universitari (Cuf) e Settori Scientifico Disciplinari (Ssd). Con qualche fortuna, passeggiando nei corridoi delle “strutture di raccordo” (le ormai obsolete ex Facoltà), si possono anche incrociare sapienze non convenzionali. Non è poi così infrequente, leggendo alcuni “prodotti” catalogati in modo esoterico dall’Anvur, che ci si accorga come, a dispetto dell’asettico linguaggio ministeriale, si continui a scrivere e a pensare per conoscere e per riflettere al di là della cronaca e del contingente, al di là dei numero dei caratteri richiesto per superare qualche mediana concorsuale.  Il sapere critico, tuttora, può sempre trovarsi nel chiuso di qualche stanza, locali ormai non più così affollati vista la riduzione del numero dei docenti. Ma tutto questo sta lì per caso.  O forse perché la coscienza critica e il sapere hanno ancora bisogno dell’università. Dobbiamo trovare un modo per far si che anche l’università torni ad aver bisogno della sua comunità.

 Pubblicato su Giurisprudenza Costituzionale 3/2013.

 

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3 Commenti

  1. L’articolo di Azzariti, per molti versi condivisibile, inizia con un errore quando parla di “calo di 58.000 iscritti” in dieci anni. In realtà, il dato dei
    58.000 studenti in meno si riferisce agli immatricolati (cioè studenti entrati per la prima volta nel sistema universitario) e non agli iscritti, che sono gli studenti di un qualunque anno di corso. Il calo annuale delle immatricolazioni è, naturalmente, reale e di lungo periodo.

  2. La stampa nazionale sta continuando a sparare sull’università pubblica con articoli faziosi e indegni di giornali che riteniamo “autorevoli” vedasi ad esempio http://www.corriere.it/cronache/14_gennaio_26/dai-prof-universitari-dirigenti-pubblici-truffa-doppio-lavoro-nero-26da2320-865a-11e3-a3e0-a62aec411b64.shtml
    possibile che non possiamo pubblicamente partire con una campagna di boicotaggio nei confronti di questo giornale bocconiano. I professori di ogni ordine e gradi leggono repubblica corriere e forse sole24. Diciamo di non leggerli più. E’ una reazione troppo grezza la mia? Forse ma non ne possiamo più dei pregiudizi della stampa di regime che Roars ha più volte e efficacemente smantellato

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