Articolo apparso su Astrid Rassegna 194 (1/2014)
Prima di entrare nel merito del documento (ANVUR – Gruppo di lavoro Database e nuovi indicatori), due precisazioni. La prima: chi scrive non fa parte di coloro che rimpiangono l’Università del pensatore fiero della propria solitudine con il cielo stellato sopra di sé e le moltitudini di discepoli ai propri piedi, e quindi è seriamente da apprezzare ogni proposta (anche quelle che nel merito non si condividono) tesa ad agevolare la valutazione didattica e scientifica del docente da parte della comunità scientifica di riferimento. Che, nel caso dell’A. di queste osservazioni, è quella del diritto e dei giuristi e dunque con questi limiti sono formulate e vanno accolte. In più, e si tratta della seconda, qui si considera l’elaborato di un gruppo di lavoro la cui denominazione presuppone un mandato specifico, sicché gli interlocutori sono due: gli estensori del documento e il committente (l’Anvur). E’ a quest’ultimo che sono rivolte queste brevi note.
Quanto ai contenuti, le perplessità sono forti a cominciare dalla chiarezza degli obbiettivi, che o non c’è o non è quella dichiarata, dato che della base bibliometrica si dice che è un mero supporto neutro (p.4) preliminare rispetto alle attività successive e che non predetermina scelte valutative mentre, come vedremo tra breve, le cose non stanno esattamente così.
Ma partiamo dallo strumento in sé considerato. Intanto, il presupposto della complessa operazione che viene presentata regge sull’opzione (accolta in questo caso come più in generale nelle attività di valutazione oggi svolte) di una particolare considerazione accordata alle riviste rispetto ad altre forme di produzione scientifica: una scelta che, almeno in questi casi, non persuade. Perché in quest’area i presupposti, le implicazioni e (anche) le modalità di rappresentazione della ricerca sono diverse, e questa diversità richiede consapevolezza e cautela.
Senza andare alle premesse basiche (perché no?), per esempio alla diversa accezione che il concetto di “legge” ha nelle scienze dure e in quelle giuridiche, e al diverso effetto che consegue alla sua violazione nelle prime (caduta integrale della legge, fino ad una nuova formulazione in grado di comprendere anche l’ipotesi “trasgressiva” che ha cancellato la vecchia) e nelle seconde (ampiamente scontata, anzi connaturata, ma apprezzabile solo ricostruendo a monte la “ratio” originaria della norma e a valle la sua effettività, in breve la storia complessiva sua e del contesto in cui opera), il che dunque comporta percorsi ricostruttivi e argomentativi ben diversi, restano corpose ragioni più pratiche.
Semplificando molto, nelle scienze giuridiche le riviste intese come pubblicazioni periodiche (in genere, bi o trimestrali) costituiscono strumenti di informazione (ormai superati dai collegamenti on line) e di primo approfondimento, salvo la presentazione di saggi più impegnativi dedicati a temi classici di carattere teorico o generale di cui si propongono nuove prospettive o si avanzano proposte di approfondimento. Il resto, e dunque la ricerca più ampia che mira al difficile confronto tra dinamiche di cambiamento (politiche, istituzionali, economiche, sociali), innovazioni operate (in via legislativa o giurisprudenziale, domestica o sovranazionale) e ordinamento esistente in modo da individuarne le ragioni, la portata e le implicazioni, necessita sovente di uno spazio sufficientemente ampio per potere dare conto di tutti questi profili e di quanto è stato elaborato in materia dalla dottrina e dalla ricerca precedente. Il che richiede una architettura molto più complessa e uno spazio assai più ampio, assicurati di norma da un lavoro monografico, e contemporaneamente spiega per quale motivo la maturità scientifica di un giovane ricercatore venga valutata preferibilmente su questo terreno.
Dunque, concludendo, applicare uno strumento complesso e costoso ad un terreno significativo ma non primario del settore in esame non è convincente.
Perché, e questo è un ulteriore aspetto critico, il sistema che viene presentato non solo è complesso e costoso (perché nei costi vanno contati anche quelli che si esternalizzano su autori, riviste ed editori) ma, proprio per queste ragioni, vulnerabile e facilmente esposto al blocco (vogliamo ricordare l’impasse di altre esperienze, a cominciare da quella della catalogazione dei beni culturali?). Basti pensare alla complessità delle variabili considerate, degli aspetti più squisitamente tecnici (software applicati), della alimentazione delle banche dati; al costo per gli editori dell’avvio (per il pregresso), del mantenimento, delle ricadute sulla organizzazione interna editoriale e produttiva; a quello per gli autori (cfr. punto 3.4 dello schema e la richiesta dello standard ORCID), a problemi specifici e non trascurabili come la differenza tra bibliografie finali e note a piè pagina.
Ma vi sono aspetti più sostanziali, e di fondo, che sollevano più di un interrogativo sulle ambiguità o quantomeno sulle alterazioni che l’applicazione di questa metodica comporta se non si rapporta con flessibilità e cautela (non si vede né l’una né l’altra) alle specificità del terreno al quale si intende applicare. La ricognizione non dice molto dei pluricitati autori più maturi, in quanto tali presenti da più tempo su una determinata tematica senza contare che non mancano prassi di co-firma sia come presentazione del giovane che come rappresentazione di una scuola accademica e del suo operato, né dice molto dei giovani, in quanto tali dotati di scarse citazioni proprio quando è proprio la valutazione di questi ultimi ad essere, insieme, più necessaria e meno affidabile a dati quantitativi.
Si potrebbe proseguire (ad esempio, un testo scaricato – indicatori d’uso – e non richiamato, e dunque non citato, dai dati bibliometrici è un più o un meno?), ma è tempo di passare ad altro e in particolare alle implicazioni che, anche prescindendo dagli interrogativi che si sono sollevati, ricadono sul sistema. Tra le varie, quella più inquietante è l’effetto standardizzante che da tutto questo deriva non solo sui soggetti, ma sulle forme utilizzate e di conseguenza su aspetti essenziali della produzione scientifica. I modi di redigere un testo, di inserire le note sintetiche o estese, di indicare o meno una bibliografia finale, di pubblicare su un volume, su una rivista o su una voce enciclopedica non sono frutto del caso ma corrispondono nella maggior parte dei casi al ruolo assegnato ad un testo, al taglio della esposizione, alle scelte del comitato scientifico, alle sensibilità di un certo filone culturale, alla natura e al numero dei destinatari.
Può darsi che queste scelte non siano sempre effettuate nel modo migliore, ma non è sradicandole per agevolarne il censimento informatizzato che si risolve il problema. Semplicemente lo si nega, il che non è mai corretto, e in più si rischia di dare corda a dinamiche tecnico-informatiche che a volte sono ingenue, a volte lo sono meno, ma che spesso tendono ad autoalimentarsi ponendo le premesse per prospettive e applicazioni sempre più impegnative (v. l’accenno alla interazione con altre banche dati e sistemi).
Qualche annotazione finale. Nessuno nega l’utilità di dati riguardanti la ricerca e della loro agevole disponibilità, ma preoccupano derive informatico-quantitative dominate dall’horror vacui specie se non si verificano i presupposti dell’intervento immaginato vale a dire che vi siano esigenze che l’analisi quantitativa può soddisfare in mancanza di alternative e con un rapporto proporzionato costi/benefici. Tra l’altro, risolvere un problema in via informatica (posto che così sia), significa spesso porre le premesse per aprirne altri che prima non c’erano: come mantenere il sistema, come curarne la correlazione con altri sistemi quantitativi, come aggiornare il software, e così via il tutto moltiplicato alla enne dal fatto che si vogliono evitare operazioni manuali sostituendole con automatismi (che, a loro volta……).
E poi, diciamo la verità, in casi come questi si ha l’impressione che si voglia semplicemente sfuggire al tema di fondo, la valutazione della qualità. E’ una cosa difficile, è vero, e lo è non solo tra diversi settori disciplinari ma anche al loro interno, basti pensare ad esempio alle scarse relazioni tra ingegneria civile e gestionale). Ma il fatto è che a un problema vero si dà una risposta poco convincente, oltretutto in odore di fuga dalle responsabilità dei valutatori.
Insomma: che si vada al merito, una buona volta, e si motivi perché si o perché no senza mettere in primo piano poco credibili appoggi ad altre sponde.
Mi si potrebbe obbiettare che la valutazione è altro e che si tratta solo di dati conoscitivi. Bene, ma se è una banca dati solo preliminare, non si vede perché si debbano utilizzare risorse pubbliche (e addossare ai privati incombenze gravose) solo per questo: se invece è qualcosa di più….allora torniamo alle considerazioni appena operate.
In breve: si intende colmare quella che è avvertita come una lacuna (mancanza di strumentazioni quantitative nelle scienze sociali) senza spiegare perché tale mancanza è una lacuna; lo si fa con una complessa rilevazione che presuppone una serie di importanti operazioni preliminari di metodo (tecnica della citazione), di merito (natura e classificazione delle riviste di cui si raccolgono le citazioni) e tecniche (software) con effetti standardizzanti di cui non si valuta né il risvolto culturale né il peso che è addossato a soggetti esterni (autori, editori, gruppi di lavoro operanti presso le riviste), lasciando per di più ai margini alcuni elementi significativi, in particolare i temi delle riviste vs. monografie e degli autori giovani e anziani.
C’è da chiedersi: ma non varrebbe la pena dedicare anche solo una piccola quota di tutte queste energie, peraltro richieste a tutti (compreso il gruppo di lavoro che ha elaborato la proposta), per studiare anche in via sperimentale forme di valutazione di qualità e di merito degli elaborati che per esplicitazione e solidità dei criteri seguiti, autorevolezza di chi le formula, esaustività di argomentazioni e la pubblicità della loro circolazione, rendano riconoscibili e dunque responsabili i giudizi e le motivazioni?
A che serve l’autonomia universitaria se la comunità scientifica non è in grado di assumersi queste responsabilità?
[…] Anvur, data base bibliometrica italiana aree umanistiche e sociali: note a margine […]
“La prima: chi scrive non fa parte di coloro che rimpiangono l’Università del pensatore fiero della propria solitudine con il cielo stellato sopra di sé e le moltitudini di discepoli ai propri piedi, e quindi è seriamente da apprezzare ogni proposta (anche quelle che nel merito non si condividono) tesa ad agevolare la valutazione didattica e scientifica del docente da parte della comunità scientifica di riferimento”. Bene: faccia qualche esempio di questi pensatori, così vediamo chi non andava bene nel passato delle nostre università.
Dire che “nelle scienze giuridiche le riviste intese come pubblicazioni periodiche (in genere, bi o trimestrali) costituiscono strumenti di informazione (ormai superati dai collegamenti on line) e di primo approfondimento, salvo la presentazione di saggi più impegnativi dedicati a temi classici di carattere teorico o generale di cui si propongono nuove prospettive o si avanzano proposte di approfondimento”, mi pare riduttivo e discutibile.
Perchè gli unici saggi degni dovrebbero essere quelli su “temi classici”? L’emersione di nuove istanze nella società e la crescente rapidità dei mutamenti socio-economici e tecnologici, mal si concilia con l’idea della monografia che impegna lo studioso per anni. Si possono invece avere analisi di qualità elevata anche su temi nuovi che ben si collocano in una rivista, come per altro accade in altre nazioni.
Definire poi le riviste solo fonte di informazione vuol dire dimenticare come alcuni articoli apparsi sulle riviste (e non per forza su temi classici) abbiano rappresentato tappe fondamentali del sapere giuridico. Che poi le riviste siano equiparabili alle risorse online mi pare un’ulteriore forzatura, che affianca prestigiose pubblicazioni a siti web dozzinali.
In generale, forse sarebbe tempo per rimeditare il “culto della monografia”, anche alla luce dell’esperienza maturata in altri Paesi e, nello stesso tempo, occorrerebbe non dipingere le riviste come mere rassegne informative, cosa che specie nelle scienze giuridiche in molti casi non è.
Nell’àmbito della letteratura italiana, non sembra si sia tenuto conto delle mediane, se non per bocciare pretestuosamente alcuni candidati (con ragionamenti di questo tipo: i risultati raggiunti dal candidato non consentono di non tener conto del mancato superamento delle mediane – fatto, quest’ultimo, che però non sembra aver impedito, per oscure ragioni, ad altri candidati di ottenere l’abilitazione).
Condivido pienamente la considerazione relativa alla necessità di superare il “culto della monografia”.
Nel giudizio a me relativo: http://abilitazione-miur.cineca.it/public/documenti/giudizi/2012/Giudizi62365.pdf
(dal quale apprendo, peraltro, grazie al prof. Esposito, di avere dedicato a Pirandello “un’agile volumetto”, con l’apostrofo: opera ragguardevole, se non altro, per la sua inaudita androginia) mi si riconoscono benevolmente “solida cultura” e un paio di “pregevoli” saggi, ma si lamenta la mancanza di un adeguato “cimento monografico” (sebbene mi venga, in pari tempo, un po’ contraddittoriamente, riconosciuto il merito di una monografia).
In sintesi, un libro agile ma denso o un pregevole articolo dovrebbero essere preferibili ad una monografia corposa ma insulsa.
Ma, si sa, “virtù non luce in disadorno ammanto”.
In un’altra classe di concorso, la cui commissione ha forse tenuto maggiormente conto delle mediane, ho invece ottenuto l’abilitazione, superandole tutte e tre. Certo, le mediane non sono vincolanti (se non erro, si è calcolato che, in fisica, Higgs, per assurdo, avrebbe stentato a superarle). Ma credo che ci vorrebbero motivazioni fortissime, adeguatamente documentate ed argomentate, per concedere l’abilitazione a chi non raggiunge neppure una mediana, così come per negarla a chi le supera tutte.