Questa è la terza parte della nostra analisi critica del piano nazionale anti-corruzione, sottoposto a consultazione pubblica fino al 15 settembre. Come già spiegato nella prima parte, il piano contiene una corposa trattazione dedicata ai sistemi universitari. Si tratta di un documento di estrema rilevanza, se si considerano le riforme che potrebbe essere messe in moto, non solo e non tanto per le misure di dettaglio suggerite dal documento, ma per la visione d’insieme che esso riserva alla autonomia dell’Università. “Ce lo chiede Cantone” potrebbe rivelarsi un prezioso refrain per chi vorrà vedere affermata politicamente una certa visione dell’Università italiana. Abbiamo scelto di pubblicare il testo corredandolo di finestre di commento  in blu. In tal modo queste osservazioni critiche potranno essere utilmente versate nel modulo predisposto per la consultazione pubblica, confidando che possano indurre chi di dovere a qualche riflessione suppletiva. Entro venerdì prossimo tutti possono far sentire la propria voce a Cantone. Qui.

Segue da Parte II

DOCUMENTO ANAC COMMENTATO – PARTE III

  1. Il reclutamento dei docenti

Tra le aree a rischio corruttivo cui potenzialmente tutte le pubbliche amministrazioni sono esposte (le c.d. “aree di rischio generali”), la l. 190/2012, all’art. 1, co. 16, include i concorsi e le prove selettive per l’assunzione del personale e le progressioni di carriera.

Per quanto riguarda i docenti universitari, il processo di reclutamento, a seguito dell’approvazione della legge 240/2010, investe sia il livello nazionale in cui i candidati sono valutati ai fini del conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale, sia quello locale gestito dai singoli atenei cui spetta valutare comparativamente le candidature presentate dagli abilitati ai fini della chiamata su posti di professore disponibili presso l’ateneo.

5.1 La procedura di abilitazione scientifica nazionale

Con riferimento alla procedura di abilitazione scientifica nazionale, fermo restando che l’attuale sistema, frutto di recenti interventi normativi adottati in materia, sembrerebbe offrire risultati da ritenersi positivi [Giudizio discutibile e opinabile. In realtà l’ASN si è rivelata una complessa sovrastruttura che ha generato un immane contenzioso nei Tribunali Amministrativi. Le stravaganze adottate nella valutazione (mediane, soglie, H-index) si sono rivelate una pesante complicazione di un processo che era già di per sé complesso], in particolare sotto il profilo dell’innalzamento della qualità dei docenti abilitati neo-assunti, non si rilevano particolari criticità con riguardo alla composizione delle commissioni nazionali, dal momento che il sorteggio, introdotto e rafforzato direttamente dal legislatore, è oggi considerato la maggiore garanzia per l’imparzialità dell’azione delle commissioni.

Diversamente, stante la crescente rilevanza assunta dalla classificazione delle riviste scientifiche (soprattutto quelle collocate in classe A) e l’incidenza che essa ha sull’operato delle commissioni nazionali per l’ASN, sono stati individuati profili critici quanto agli strumenti e ai metodi della valutazione attualmente usati nella classificazione delle riviste scientifiche. [La classificazione delle riviste da parte di ANVUR si è basata su criteri oscuri, incomprensibili e non condivisi con la comunità scientifica]

A norma delle previsioni di cui ai numeri 4 e 5 dell’allegato D del d.m. MIUR 7 giugno 2016, n. 120, per i settori concorsuali cui si applicano gli indicatori di attività scientifica non bibliometrici, l’ANVUR determina e aggiorna regolarmente, pubblicandoli sul proprio sito istituzionale: a) l’elenco di tutte le riviste di carattere scientifico dotate di ISSN; b) il sottoinsieme delle riviste di carattere scientifico definite «di classe A», ovvero dotate di ISSN, riconosciute come eccellenti a livello internazionale per il rigore delle procedure di revisione e per la diffusione, prestigio e impatto nelle comunità degli studiosi del settore, indicati anche dalla presenza delle riviste stesse nelle maggiori banche dati nazionali e internazionali.

Al numero 5 si precisa che, ai fini della classificazione delle riviste in classe A, nell’ambito di quelle che adottano la revisione tra pari, l’ANVUR verifica, rispetto alle caratteristiche del settore concorsuale, il possesso di almeno uno dei seguenti criteri: a) qualità dei prodotti scientifici raggiunta nella VQR dai contributi pubblicati nella rivista; b) significativo impatto della produzione scientifica, laddove appropriato.

Considerato che il processo di valutazione delle riviste è potenzialmente esposto a situazioni di conflitto di interessi, l’ANVUR dovrebbe selezionare sempre i gruppi di lavoro riviste attraverso call pubbliche, con una chiara predeterminazione dei criteri di scelta. È altresì indispensabile assicurare

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l’applicazione di criteri oggettivi e predeterminati per la valutazione delle riviste previsti dalla normativa, criteri da cui i gruppi di lavoro possono discostarsi solo eccezionalmente e motivatamente. [Le classifiche delle riviste devono essere fatte da soggetti terzi e non da un’Agenzia governativa]

5.2 Procedure di reclutamento a livello locale

Nei limiti della programmazione triennale del fabbisogno di personale e in coerenza con le risorse assegnate, le università possono procedere alla copertura dei posti di professore di prima e di seconda fascia con chiamata a seguito di procedura selettiva ai sensi dell’art. 18 della l. 240/2010, ovvero concorsi aperti a tutti gli studiosi in possesso della ASN oppure mediante procedura valutativa con le modalità previste dall’art. 24, co. 6 della citata legge, consistente in una selezione riservata ai ricercatori a tempo indeterminato e ai professori associati, già in servizio nella stessa università, che abbiano conseguito l’ASN, inquadrabili rispettivamente come professori associati o ordinari. Quest’ultimo sistema di reclutamento era stato introdotto in via transitoria e poi più volte prorogato, da ultimo con il decreto-legge 244/2016, convertito, con modificazioni, dalla legge 19/2017(art. 4, co. 3-bis). L’Autorità ha rilevato che esso si presta, tuttavia, a pressioni indebite e pertanto se ne raccomanda un utilizzo contenuto.

Alle richiamate forme di reclutamento si aggiungono la chiamata diretta o per chiara fama disciplinata dalla legge 230/2005 e la procedura valutativa con le modalità previste dell’art. 24, co. 5 della l. 240/2010 (c.d. tenure track).

In via generale, occorre rilevare che il principale rischio nella fase di reclutamento locale si rinviene nelle pressioni che possono essere esercitate dai candidati locali, incentivate dai vincoli/condizionamenti di bilancio [Sono i vincoli di bilancio e l’assurda contabilità dei punti organico ad alimentare o, meglio, a costringere al localismo. La corruzione non c’entra niente. Sono gli effetti, ampiamente prevedibili, della L.240/2010 e dei provvedimenti derivati], verso la scelta di forme di reclutamento volte a favorire gli interni. Il localismo nel reclutamento, oltre a compromettere gravemente l’imparzialità del sistema, equivale a chiusura dei singoli atenei, non solo a soggetti meritevoli di altre università italiane, ma anche ai soggetti provenienti da università straniere e riduce gravemente la mobilità tra università diverse, uno dei punti di forza per assicurare libertà e qualità alla ricerca. Ciò a detrimento dell’attrattività dei centri di ricerca italiani nel sistema sempre più internazionalizzato della ricerca e dell’istruzione superiore. [Il problema si risolve solo superando la programmazione in termini di punti organico e stanziando risorse ad hoc vincolate per reclutare professori esterni]

Come anticipato, il quadro legislativo in merito agli aspetti procedimentali è molto scarno, avendo il legislatore rimesso la disciplina alla potestà regolamentare degli atenei. Le indicazioni contenute nei paragrafi successivi, pertanto, si rivolgono principalmente alle università affinché recepiscano nei regolamenti e nel PTPCT misure in grado di incidere su comportamenti scorretti e di prevenire episodi di corruzione, di parzialità, di conflitto di interesse. [Tutto inutile finché non si risolve il problema alla radice, come sopra scritto]

Di seguito si evidenziano i principali fattori di rischio corruttivo riscontrati in relazione al reclutamento dei docenti presso le singole università e, in particolare, nelle procedure espletate in virtù dell’art. 24, co. 6, della l. 240/2010, e si suggeriscono possibili misure per prevenirli.

5.2.1. Reclutamento dei professori ai sensi dell’art. 24, co. 6, l. 240/2010

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Al fine di ridurre al minimo pressioni indebite e contenere il ricorso dell’istituto della chiamata diretta previsto all’art. 24, co. 6, della l. 240/2010 gli atenei, anche attraverso specifiche previsioni regolamentari, possono:

– autonomamente stabilire il carattere di eccezionalità della chiamata diretta;

– prevedere che, ogni qualvolta l’ateneo vi faccia ricorso, debba essere prevista una motivazione rafforzata;

– assicurare, qualora vi siano una pluralità di candidati in possesso dei requisiti richiesti dalla legge per accedere alla procedura di chiamata, adeguate procedure valutative di tipo comparativo degli studiosi (12);

– definire modalità di presentazione delle candidature;

– prevedere l’istituzione di apposite commissioni giudicatrici.

Infine, allo scopo di bilanciare il ricorso alle chiamate dirette di cui all’art. 24, co. 6 da parte degli atenei e l’utilizzo di procedure concorsuali aperte agli esterni, si auspica, da un lato che gli stessi atenei aumentino, per quanto possibile, oltre la quota disposta per legge, le risorse finanziarie per l’assunzione di professori esterni, e dall’altro che venga potenziato, con adeguato intervento nazionale, il sistema di incentivi finanziari già esistente.

5.2.2. Adeguata programmazione per il reclutamento dei docenti

Un fattore di rischio che può esporre gli atenei a pressioni indebite e a decisioni non correttamente ponderate e adeguate rispetto all’effettivo fabbisogno si riscontra laddove sia assente o non venga predisposta un’adeguata programmazione dei reclutamenti, sia a livello di ateneo che di dipartimento.

Possibili misure

Con riguardo alla programmazione del reclutamento dei docenti (es. Piani triennali per la programmazione del reclutamento del personale, da adottare annualmente dal consiglio di amministrazione dell’ateneo ai sensi del d.lgs. 29 marzo 2012, n. 49) gli atenei dovrebbero:

– garantire il concorso di tutte le componenti dell’università alla definizione degli atti di programmazione, fermi restando i vincoli normativi al riguardo [Già così avviene];

– essere orientati da criteri oggettivi e comuni a tutte le università che tengano conto, ad esempio, del numero di professori già presenti nei dipartimenti [Lesivo dell’autonomia];

– unire le esigenze di natura didattica e di ricerca del dipartimento con quelle di merito dei  possibili singoli candidati all’upgrade; [Già così avviene]

. adottare un sistema più aperto alle procedure di reclutamento dall’esterno; [Possibile con l’eliminazione dei punti organico e riconoscendo una vera autonomia budgetaria degli Atenei]

– rendere trasparenti i processi decisionali e le motivazioni delle scelte effettuate, anche facendo conoscere le ragioni della mancata attivazione di alcuni insegnamenti;

– assicurare la massima conoscibilità di tutti gli atti di programmazione.

12 Cfr., sul punto, TAR Lazio, sez. III Bis, sentenza 20 marzo 2017, n. 3720, e la giurisprudenza ivi citata. L’intervento regolamentare ipotizzato nel testo del documento è a fortiori necessario, atteso che il predetto orientamento giurisprudenziale ritiene doversi applicare, in mancanza di norme regolamentari che disciplinino il caso della sussistenza di una pluralità di candidati, il D.P.R. n. 117/2000 che comunque concerne un sistema di reclutamento del personale universitario precedente alla riforma operata dalla legge n. 240/2010.

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5.2.3. Conflitti di interesse fra partecipanti al reclutamento e personale dell’ateneo

Altro fattore di rischio rilevato è la possibile esistenza di situazioni di conflitto d’interesse fra chi partecipa alle procedure selettive e il personale presente, a diverso titolo, nell’ateneo, potenzialmente alla base di situazioni di nepotismo e di assenza di imparzialità delle decisioni di assunzione.

Possibili misure

Si sottolinea che già il legislatore, nella legge 240/2010, aveva previsto una specifica ipotesi di vera e propria incandidabilità alla procedura selettiva. Si tratta dell’art. 18, co. 1, lett. b), ultimo periodo, e lett. c), della legge n. 240/2010, ai sensi delle quali ai procedimenti per la chiamata dei professori e dei ricercatori universitari e per il conferimento degli assegni di ricerca, nonché di contratti a qualsiasi titolo erogati dall’ateneo, non possono partecipare «coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo».

Stante l’esistenza di detta disposizione legislativa, si raccomanda alle università di garantirne la rigorosa applicazione. È auspicabile, quindi, che:

– le università adottino disposizioni regolamentari coerenti con la ratio della disposizione, assicurandone la massima applicazione ed evitando prassi interpretative ed applicative elusive, tenendo conto anche delle interpretazioni che la giurisprudenza ha elaborato per la norma in questione (13);

– le commissioni giudicatrici nella fase di verifica dell’ammissibilità delle domande procedano ad un attento controllo dell’insussistenza di dette preclusioni.

Si ricorda che la norma è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso di includere tra le situazioni genetiche dell’incompatibilità anche il rapporto di coniugio (14). Sul tema, si è ritenuto di aderire all’indirizzo interpretativo che estende la clausola dell’incompatibilità anche al rapporto di convivenza more uxorio assimilandolo, ai fini in questione, al rapporto di coniugio.

Quanto all’ambito oggettivo della disposizione, invece, la giurisprudenza ha esteso l’ipotesi di incandidabilità anche al procedimento di reclutamento per chiamata diretta di cui all’art. 24, co. 6, della legge n. 240/2010, sulla base della considerazione che se «la ratio dell’incompatibilità vale per le procedure concorsuali, a maggior ragione deve valere per le chiamate dirette» (15). Ne consegue che le medesime considerazioni fanno ritenere di poter estendere la norma in argomento anche alla procedura di reclutamento di cui all’art. 24, co. 5, della legge n. 240/2010.

Sempre sul piano oggettivo, gli orientamenti giurisprudenziali hanno ritenuto di applicare la clausola di incandidabilità in ogni fase della procedura di reclutamento, e non solo se essa si realizza nel momento finale della stessa (nel caso dei ricercatori coincidente con la “proposta di contratto”) (16).

13 Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 15 novembre 2016, n. 4704.

14 Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 4 marzo 2013, n. 1270.

15 Così Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 15 novembre 2016, n. 4704 cit.

16 Si veda, in materia di reclutamento di ricercatori, Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, sentenza 21 novembre 2016, n. 417. Invero la sentenza citata fa riferimento alle procedure di reclutamento dei ricercatori, prospettando per le procedure di reclutamento dei professori l’assenza del rischio di non imparzialità delle decisioni nelle fasi precedenti a quella finale. Ciò in considerazione, in particolare, della diversa disciplina prevista dalla legge n. 240/2010 per il reclutamento dei professori che prevede la partecipazione “a monte” anche del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. l’indizione dell’abilitazione scientifica nazionale. In realtà tale argomento solo in parte sembra cogliere nel segno, perché la disciplina legislativa della fase “locale” delle procedure di reclutamento dei professori (art. 18) e dei ricercatori (art. 24) è sostanzialmente analoga, per cui le conclusioni tratte dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana per il reclutamento dei ricercatori sembrano poter essere estese a quello dei professori.

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5.2.4. Formazione delle commissioni giudicatrici e conflitti di interesse dei componenti

La composizione irregolare delle commissioni o la presenza di soggetti che siano in conflitto di interessi con i candidati può pregiudicare l’imparzialità della selezione. Le disposizioni legislative non disciplinano né le regole di formazione delle commissioni né lo svolgimento dei loro lavori, rinviando ai regolamenti universitari.

Possibili misure

Per quanto riguarda la composizione delle commissioni, si raccomanda alle università di prevedere nei propri regolamenti che:

– per l’individuazione dei componenti, si ricorra alla modalità del sorteggio tra i sorteggiabili per le commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale. [Misura pericolosa e controproducente. E’ il dipartimento che nella sua autonomia propone la commissione. Solo l’organo collegiale può valutare al meglio la situazione, anche per evitare i conflitti di interesse dei sorteggiabili per le commissari ASN] Detta modalità può, eventualmente, essere temperata nei settori di ridotta consistenza numerica;

– i componenti appartengano al medesimo settore concorsuale messo a concorso;

– ove possibile, sia rispettato il principio delle pari opportunità tra uomini e donne nella formazione delle commissioni giudicatrici; [Auspicabile, ma che c’entra con la corruzione?]

– venga garantita la massima trasparenza delle procedure prevedendo che le commissioni per il reclutamento dei ricercatori e dei professori associati siano composte di almeno tre membri in maggioranza esterni e, per il reclutamento dei professori ordinari, di almeno cinque membri di cui uno solo interno. Si avrebbe in tal modo un sistema di “garanzie crescenti” in relazione alla crescente rilevanza delle posizioni accademiche; [Evitare regole rigide. Dare fiducia all’autonomia degli Atenei. Senza fiducia non si costruisce un sistema virtuoso]

– l’incarico di commissario in un concorso locale sia limitato ad una procedura all’anno, eventualmente estendibile a un numero massimo di due/tre procedure all’anno per i settori di ridotta consistenza numerica. [Idem]

Con riferimento alle ipotesi di conflitto di interesse dei componenti le commissioni giudicatrici, la l. 240/2010 non contiene specifiche disposizioni.

Si rammenta che il tema del conflitto di interessi in questi casi è stato affrontato dall’Autorità nella delibera del 1 marzo 2017, n. 209, sia con riguardo alle norme giuridiche e agli orientamenti giurisprudenziali riferiti ai concorsi universitari, sia alle modalità di verifica dell’insussistenza di cause di astensione in capo ai componenti.

Quanto al primo aspetto, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai concorsi universitari si applicano le ipotesi di astensione obbligatoria di cui all’art. 51 c.p.c. (17) in quanto strettamente connessi al trasparente e corretto esercizio delle funzioni pubbliche.

17 La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha di recente chiarito che gli artt. 1 e 6-bis della legge n. 241/1990 non hanno inciso sui principi consolidati in materia di commissioni di concorso, basati sull’applicazione delle cause tassative di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c.; ciò anche in considerazione della prevalenza della disciplina speciale relativa al regime delle incompatibilità rispetto a quella generale del procedimento amministrativo, anche se cronologicamente successiva (cfr. CdS, sez. III, sentenza 28 aprile 2016, n. 1628).

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«Pertanto, qualora un componente della commissione concorsuale si trovi in una situazione di incompatibilità prevista dal citato art. 51 c.p.c., ha il dovere di astenersi dal compimento di atti inerenti la procedura stessa; allo stesso modo, l’amministrazione interessata, valutata l’esistenza dei presupposti predetti, ha l’obbligo di disporre la sostituzione del componente, al fine di evitare che gli atti del procedimento risultino viziati (Circolare n. 3/2005 Dip. Funzione Pubblica»).

Ai concorsi universitari è altresì applicabile il principio contenuto all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 7 maggio 1948, n. 1172, tuttora vigente, che dà rilevanza, quale causa di incompatibilità/astensione obbligatoria dei commissari, anche ai rapporti di affinità (e non solo a quelli di parentela) fino al quarto grado tra commissari, oltre che tra candidati e commissari (18).

La citata delibera ANAC ha quindi precisato che «ai fini della sussistenza di un conflitto di interessi fra un componente di una commissione di concorso e un candidato, la collaborazione professionale o la comunanza di vita, per assurgere a causa di incompatibilità, così come disciplinata dall’art. 51 c.p.c., deve presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità, continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale» (19).

Occorre, inoltre, richiamare l’orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto che l’esistenza di cointeressenze di carattere economico non esaurisce il novero delle ipotesi in cui può configurarsi un obbligo di astensione in capo al singolo commissario, pur rappresentandone una delle ipotesi più sintomatiche e ricorrenti nella pratica, e che l’applicazione alle operazioni valutative dei generali canoni di imparzialità, obiettività e trasparenza impone di guardare con particolare rigore alle forme più intense e continuative di collaborazione, specialmente se caratterizzate da forme di sostanziale esclusività. Secondo il Consiglio di Stato, in tali ipotesi sussiste un obbligo di astensione laddove emergano indizi concreti di un rapporto personale di tale intensità da fare sorgere il sospetto che il giudizio possa non essere improntato al rispetto del principio di imparzialità, quale – ad esempio – «la circostanza per cui uno dei commissari sia coautore della quasi totalità delle pubblicazioni di uno dei candidati» (20). [Misura gravemente controproducente. Impedirebbe la costituzione di Scuole o gruppi di ricerca. Non ci sono previsioni simili in alcun modello internazionale. La collaborazione alla ricerca non può essere causa di incompatibilità, non è conflitto di interesse, non c’entra niente con la corruzione. E’ il modo con cui nel mondo si fondano e si fanno crescere i gruppi di ricerca]

Quanto alle modalità di verifica dell’insussistenza delle cause di astensione l’Autorità, nella delibera n. 209/2017, ha richiamato l’art. 11, co. 1, del d.P.R. 487/1994 («Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi») ai sensi del quale «I componenti [della commissione], presa visione dell’elenco dei partecipanti, sottoscrivono la dichiarazione che non sussistono situazioni di incompatibilità tra essi ed i concorrenti, ai sensi degli articoli 51 e 52 del codice di procedura civile». [Già viene sempre fatto]

Possibili misure

È altamente raccomandato che le università:

– assicurino che nelle dichiarazioni rese dai commissari sia esplicitata la tipologia di eventuali rapporti a qualsiasi titolo intercorsi o in essere fra i componenti della commissione e i candidati, affinché gli atenei possano essere agevolati nelle operazioni di verifica delle autodichiarazioni rilasciate;

18 La disposizione recita: “Non possono far parte della stessa Commissione membri che siano tra loro, o con alcuno dei candidati, parenti od affini fino al quarto grado incluso”. La norma fa riferimento alle commissioni per il ruolo di assistente ordinario, di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 1172/1948.

19 Così la citata delibera dell’ANAC. Si veda, altresì, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ivi citata.

20 Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 24 settembre 2015, n. 4473, e la giurisprudenza ivi citata. Nel caso di specie il Presidente della Commissione di concorso era risultato il primo coautore di oltre il novanta per cento delle pubblicazioni allegate dal secondo ai fini della partecipazione alla procedura selettiva (trentasette pubblicazioni su un totale di quaranta).

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– che siano indicate procedure per verificare che i commissari nominati non incorrano nelle cause di astensione dalla valutazione previste dalla normativa e come interpretate dalla giurisprudenza.

Scarsa trasparenza dei criteri e delle procedure di valutazione

L’assenza di conoscenza di criteri predefiniti e delle procedure di valutazione seguite concorre alla possibilità di assumere scelte orientate a favorire taluni candidati.

Possibili misure

Nel disciplinare i processi di reclutamento è opportuno che:

– i regolamenti degli atenei prevedano che i candidati abbiano conoscenza dei criteri di valutazione stabiliti dalla commissione; [Auspicabile. Purtroppo non tutti gli Atenei hanno adottato regolamenti in tal senso]

– la verbalizzazione delle attività di valutazione, nonché i giudizi espressi sui candidati, diano conto dell’iter logico che ha condotto alla valutazione conclusiva delle candidature; [Già viene sempre fatto]

– in particolare, con riguardo alla procedura di cui all’art. 18 della l. n. 240/2010, poiché la giurisprudenza ha qualificato tale procedimento quale vero e proprio concorso pubblico, è auspicabile che gli atenei concordino principi e regole procedimentali comuni, che possano attenuare le distanze tra i regolamenti delle singole università, in particolare per ciò che riguarda i criteri che le commissioni devono seguire (ad esempio, che la commissione debba compiere una vera e propria valutazione comparativa);

– per alcune procedure di reclutamento, ove compatibile con la normativa, venga prevista una valutazione di carattere oggettivo, ad esempio, la presenza di almeno una prova scritta con garanzia di anonimato per l’ottenimento di un contratto a tempo determinato di ricercatore. [Controproducente. Le prove scritte si prestano a valutazioni poco obiettive. Si devono valutare curriculum, titoli e produzione scientifica. Eventualmente la capacità e l’esperienza di insegnamento. Il “temino” non si fa più nemmeno per le prove di dottorato]

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8 Commenti

  1. – venga garantita la massima trasparenza delle procedure prevedendo che le commissioni per il reclutamento dei ricercatori e dei professori associati siano composte di almeno tre membri in maggioranza esterni e, per il reclutamento dei professori ordinari, di almeno cinque membri di cui uno solo interno. …. [Evitare regole rigide. Dare fiducia all’autonomia degli Atenei. Senza fiducia non si costruisce un sistema virtuoso]
    .
    Non è solo questione di “fiducia” ma anche di dare “responsabilità” a chi pagherebbe le eventuali conseguenze di errori. Nel momento in cui un ateneo, un dipartimento viene valutato anche sulla base dei risultati del reclutamento appare bizzarro che la responsabilità di questo sia principalmente in mani esterne.

  2. I membri esterni di commissione non esistono!
    L’università è formata dalle c.d. “Scuole”, che si sono formate perché un professore particolarmente virtuoso ha iniziato a (uso il linguaggio di un tempo, ma sempre attuale) “mettere in cattedra i suoi allievi”.
    Questi allievi, diventati associati e ordinari fanno pressione per ottenere altri posti per i propri allievi sotto il controllo del capo-scuola di riferimento.
    Di conseguenza, i falsi “esterni” saranno professori esterni sì rispetto all’ateneo, ma inevitabilmente connessi con le varie scuole, siano essi amici o nemici, oppure persone da aiutare o da non aiutare.
    Qualcuno dovrebbe dirlo a chi propone certi suggerimenti, sia esso politico o para-politico.

  3. Correzione:
    “Questi allievi, diventati associati e ordinari IN ALTRI ATENEI, fanno pressione per ottenere altri posti per i propri allievi sotto il controllo del capo-scuola di riferimento”. Ecco che si crea la c.d. “Scuola”, che comanda o si fa comandare a seconda dei rapporti di forza con le altre”.

  4. Ma è innaturale che un candidato risultato vincitore di un concorso abbia pubblicato la quasi totalità dei suoi testi con uno o più commissari. Roars fa finta di non vedere. Le scuole non possono crearsi sul principio della cooptazione ma sulla libera circolazione delle idee e del coagularsi naturale di alcuni studiosi attorno a un’idea.

  5. Ricevo questo commento dal Collega Paolo Torroni

    Ho notato che non vi sono commenti alla voce 5.2.3. Conflitti di interesse fra partecipanti al reclutamento e personale dell’ateneo – probabilmente perché si tratta di un aspetto che tutto sommato interessa una parte minoritaria, ancorché significativa, del personale accademico, le cosiddette “coppie accademiche”.

    Vi invio al riguardo un commento al documento dell’ANAC che tocca proprio quella voce. Il documento è stato redatto in collaborazione con alcuni colleghi consapevoli del problema. Purtroppo le coppie accademiche negli ultimi anni sono state oggetto di una vera e propria “crociata” dai caratteri fortemente populisti, e purtroppo gli organi accademici si sono dimostrati più sensibili ai problemi politici e mediatici che non a quelli di qualità del reclutamento e di pari opportunità. Il tema però potrebbe meritare una discussione aperta su ROARS.

    Cordiali saluti,
    Paolo Torroni

    ===

    Osservazione sul punto 5.2.3. Conflitti di interesse fra partecipanti al reclutamento e personale dell’ateneo

    Il conflitto d’interesse nel reclutamento del personale universitario, in particolare del corpo docente, è un tema introdotto dalla riforma Gelmini (l. 240/2010), che negli ultimi anni è stato oggetto di vari provvedimenti amministrativi e revisioni statutarie, di codici etici, e di procedure di reclutamento di numerosi atenei italiani.

    Preme sottolineare che il testo della 240 non individua un conflitto nel rapporto di coniugio, né rileva conflitti di interesse generici nelle procedure selettive, ma al contrario individua in modo puntuale come motivo di incompatibilità la relazione di parentela o affinità (non il coniugio) con un professore (non con un ricercatore, figura che il legislatore ha tenuto ben distinta da quella del professore) all’interno di uno stesso dipartimento. Definisce inoltre tale incompatibilità in relazione a una particolare procedura di reclutamento, definita nell’art. 18 dello stesso testo, e non in relazione a quella definita dall’art. 24 dello stesso testo.

    Ciononostante, la 240 è stata seguita da una serie di interpretazioni ampliative del testo originale promosse ora da tribunali amministrativi regionali, ora da convegni di direttori generali, ora dal consiglio di stato, e infine, come traspare dal documento in consultazione, dall’autorità nazionale anticorruzione.

    Un primo passo è stata l’aggiunta tra i motivi di incompatibilità del rapporto di coniugio o convivenza more uxorio. La motivazione della sentenza del CdS del 4/3/2013 che introduce questa interpretazione parla tra l’altro di familiarità tra giudicante e giudicato, e non tra dipartimento e giudicato, ignorando che non sono i dipartimenti a giudicare i candidati, ma le commissioni giudicatrici preposte.

    Alcuni atenei hanno poi esteso l’incompatibilità alla categoria dei ricercatori, come se la presenza nello stesso dipartimento di un coniuge ricercatore potesse influire sul reclutamento di un professore. La cosa è inverosimile: tant’è che i regolamenti prevedono l’esclusione dei ricercatori da ogni discussione riguardante le carriere dei professori.

    Le preclusioni individuate dall’art. 18 della 240 sono poi state estese alle procedure ex art. 24 (sentenza CdS del 15/11/2016), impedendo così alle coppie ogni qualsiasi progressione di carriera.

    Il presente documento in consultazione, infine, ufficializza, in un certo senso, il concetto di conflitto d’interesse in quanto applicabile non solo tra giudicante e giudicato (come dovrebbe essere), ma, addirittura tra chi partecipa alle procedure selettive e il personale presente, a qualsiasi titolo, nell’ateneo.

    Questa serie di interpretazioni sembra essere motivata dalla tesi secondo la quale la presenza di coppie in uno stesso dipartimento sia alla base di situazioni di nepotismo e di assenza di imparzialità delle decisioni di assunzione.

    Preme però sottolineare che non è stato mai presentato alcun dato oggettivo che corrobori tale tesi. E i dati non mancherebbero, giacché i dipartimenti negli ultimi anni sono stati valutati secondo numerosi indicatori, quali ad esempio la produttività scientifica e i giudizi degli studenti sulla qualità della didattica. Ebbene, non è stata mai rilevata alcuna correlazione statisticamente significativa tra il legame di coniugio o convivenza e una minore produttività scientifica o qualità della didattica dei soggetti interessati, rispetto alla totalità degli altri 50.000 membri del corpo docente e ricercatore. Quindi la tesi per la quale si sta portando avanti questa “crociata” contro le coppie accademiche sembra essere del tutto priva di fondamento oggettivo.

    Più che contribuire a una migliore qualità del settore universitario, queste interpretazioni ampliative del testo di legge hanno invece via via introdotto un elemento di discriminazione sempre più forte nei confronti dei soggetti interessati.

    Un caso esemplare potrebbe essere quello di due ricercatori (o professori), reclutati prima del 2010 da due dipartimenti diversi, che si fossero sposati, magari avessero avuto dei figli, e lavorato, fino al 2010, sempre in dipartimenti diversi, per poi ritrovarsi, proprio a causa della 240, all’interno dello stesso dipartimento. Già, che la 240 ha imposto tra le altre cose una riduzione nel numero dei dipartimenti, creando quindi essa stessa nuove situazioni di conflitto. Questi due ricercatori si troverebbero quindi d’un tratto privi di ogni prospettiva di carriera, discriminati nei confronti di tutti gli altri ricercatori in Italia o all’estero che non fossero coniugati con alcuno dei membri del dipartimento in questione. Le possibilità a questo punto, per questi due ricercatori, sarebbero tre: rinunciare entrambi a ogni prospettiva di carriera; o sparpagliare la famiglia in aree geografiche distinte; o, paradossalmente, recidere il rapporto di coniugio, in modo da poter rimanere vicini all’ex-famiglia.

    Il problema chiaramente si pone anche per i membri di uno stesso dipartimento che non fossero ancora ufficialmente una coppia ma che lo volessero diventare. Si pone, a maggior ragione, per due precari della ricerca, perché il primo a essere assunto bloccherebbe l’altro, costringendolo a trovare lavoro altrove. Si pone per la coppia di accademici residenti all’estero che volessero lavorare in Italia. E via dicendo.

    Queste interpretazioni ampliative della 240 non rappresentano quindi, come potrebbe sembrare a prima vista, un efficace strumento di lotta alla corruzione, ma piuttosto un deterrente per matrimoni e convivenze, presenti e future. Esse introducono in modo sempre più invasivo un forte elemento discriminatorio nei confronti di una parte del personale accademico, che ha effettuato in passato o volesse effettuare in futuro determinate scelte famigliari. L’intera impostazione, oltre che ingiustificata, sembra contravvenire ai principi sanciti dall’articolo 3 della Costituzione, secondo la quale tutti i cittadini dovrebbero avere le stesse opportunità.

    C’è anche un’importante questione di parità di genere, in quanto la preclusione danneggia in modo maggiore chi all’interno della coppia è più “indietro” dal punto di vista della carriera accademica, ed è un fatto che in Italia le donne già subiscono una diseguaglianza nel percorso di carriera. I colleghi di prima fascia di sesso femminile sono solo il 20% del totale. Questo è uno dei motivi per cui negli USA le “regole antinepotismo” che precludessero la carriera di coppie sono state abbandonate già dagli anni settanta, in virtù del fatto che tali regole danneggiavano il coniuge “più debole”, quasi sempre la moglie, che era costretta, in generale, a cercare lavoro in una università “minore” non distante da quella “maggiore” dove insegnava il marito, o addirittura a rinunciare ad una carriera universitaria.

    Il problema è anche dei dipartimenti. Infatti questa preclusione non danneggia solo gli individui, ma anche i dipartimenti che non potrebbero assumere due coniugi eccellenti che si presentassero sul mercato del lavoro accademico “in coppia”. Tant’è vero che oggi, non solo in USA ma in molti altri paesi avanzati come il Canada e la Germania, la normativa in materia tende ad agevolare, anzichè ostacolare, le coppie in cui entrambe le parti intraprendono una carriera universitaria. Questo anche nella ragionevole considerazione del fatto, statisticamente molto frequente, che l’instaurarsi di relazioni coniugali trova origine proprio dall’incontro di persone che condividono lo stesso ambiente lavorativo.

    Un problema di fondo che fa da comune denominatore a tutte le succitate interpretazioni della 240 è la confusione, introdotta dalla 240, tra una criticità del rapporto tra “giudicante” e giudicato, e quella del rapporto tra “dipartimento” e giudicato. Il giudicante nelle procedure concorsuali non è il dipartimento, ma la commissione giudicatrice, che solitamente comprende membri esterni al dipartimento. I casi di incompatibilità tra candidato e commissario sono già definiti. Il presente documento in consultazione in questo senso è peggiorativo in quanto non solo consolida interpretazioni ampliative fortemente discriminatorie, senza offrire una solida motivazione, ma ufficializza il concetto sbagliato per cui l’esistenza di un legame, nella fattispecie di coniugio o convivenza, fra chi partecipa alle procedure selettive e “il personale presente, a diverso titolo, nell’ateneo” (non già nella commissione giudicatrice, ma addirittura nell’ateneo) sia “potenzialmente alla base di situazioni di nepotismo e di assenza di imparzialità delle decisioni di assunzione”.

    Colpisce anche il fatto che questa forma di conflitto d’interesse venga associata esclusivamente al personale universitario, e a nessun’altra categoria del pubblico impiego. Ad esempio la parte del documento sul reclutamento del personale nelle autorità di sistema portuale non rileva alcun problema in relazione alla presenza di coniugi o conviventi nell’autorità di sistema portuale.

    La proposta che viene fatta è che il documento in consultazione venga modificato in modo da tener conto della discriminazione esistente all’interno del sistema di reclutamento universitario che colpisce le coppie che, a seguito di una serie di interpretazioni ampliative della 240, si trovano escluse dalle procedure selettive di determinati dipartimenti. In particolare, si propone che il rischio di conflitto d’interessi venga correttamente definito come sussistente tra giudicante e giudicato, e non tra chi partecipa alle procedure selettive e il personale presente, a diverso titolo, nell’ateneo.

    Inoltre, si propone che venga fatta una distinzione tra lo status quo e le situazioni di potenziale conflitto che si dovessero creare in futuro, in modo che scelte famigliari effettuate in un contesto diverso da quello attuale non siano motivo di una discriminazione nel contesto odierno.

    • Francamente trovo alquanto discutibili queste argomentazioni, e trovo piuttosto sorprendente che un numero elevato di colleghi non le percepisca come tali. Come si può stare a cavillare sul fatto che il legame di coniugio non costituirebbe parentela? Come si può sostenere, in buona fede, che – in particolare con le norme per il reclutamento previste dalla legge 240 – “Il giudicante nelle procedure concorsuali non è il dipartimento, ma la commissione giudicatrice”? Ancor più, come si può dirsi sorpresi del fatto che “questa forma di conflitto d’interesse venga associata esclusivamente al personale universitario, e a nessun’altra categoria del pubblico impiego”? Ma quale altra categoria del pubblico impiego presenta le peculiarità, in tema di reclutamento, della nostra? Attenzione, non voglio dire che il problema del nepotismo nell’Università non sia stato strumentalizzato e ingigantito, negli ultimi anni, da certa stampa; ma argomentazioni in favore delle “coppie accademiche” (a me vengono i brividi ad usare questa espressione) come quelle proposte, non ultimo il risibile riferimento a situazioni accademiche come quelle canadese e statunitense (sistemi – per fortuna, finché dura – molto diversi dal nostro) non ci aiutano nel momento in cui proviamo a restituire dignità alla categoria.

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