Il mondo aziendale, organizzato o rappresentato di volta in volta da Confindustria, think tank di vario tipo, media fiancheggiatori e perfino forze di governo, va ripetendo da tempo che l’università italiana non prepara i giovani al lavoro come dovrebbe. Eppure, i laureati italiani, se hanno la forza di abbandonare questo paese e vanno – poniamo – in Olanda o in Germania, trovano lavoro a volte immediatamente, a volte rapidamente; e lì si rivela che sono adeguati a produrre la molta ricchezza che vi si produce. Ad esempio molti miei ex studenti (laureati in Lettere o in Lingue, non in ingegneria elettronica), poche settimane dopo il loro arrivo in Germania, hanno un lavoro. Non un lavoro a caso: quello che volevano e per cui hanno studiato. Non solo: i nostri laureati, che escono da un sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. Certo, l’università italiana ha ancora molti difetti, e può migliorare. Ma – ovviamente – migliorerà se i governi, invece di strozzarla, ci investiranno adeguatamente. Tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università si rendano conto che la percentuale del PIL destinata a finanziare l’università è in Germania – a seconda del modo di calcolarla – da 2 a 4 volte la nostra, anche perché negli ultimi 10 anni è cresciuta del 23%; mentre da noi nello stesso periodo i governi l’hanno ridotta del 22%. Col risultato che ora siamo penultimi nell’Europa a 15 per il rapporto tra il finanziamento all’istruzione e il PIL. In questa situazione, e nonostante i vergognosi attacchi di ogni tipo, scuola e università  formano giovani adatti al mercato del lavoro nei paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle aziende in Italia ai giovani non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma, forse è il caso di ripensare chi è che non fa bene la sua parte.

 

 

Le periodiche polemiche come quella scatenatasi l’anno scorso dopo le dichiarazioni del ministro Poletti contro i giovani italiani che sono andati all’estero a cercare lavoro[1]hanno sullo sfondo un grave malinteso, di cui non per caso a suo tempo poco si è detto. Ma forse, più che quando infuria la polemica, è utile fare una riflessione quando le acque sono calme e tutti tendono a non pensare più al problema; che invece esiste sempre.

Il mondo aziendale, organizzato o rappresentato di volta in volta da Confindustria, think tank di vario tipo, media fiancheggiatori e perfino forze di governo, va ripetendo da tempo che l’università italiana non prepara i giovani al lavoro come dovrebbe, e come invece farebbero le università di altri paesi. L’università sarebbe dunque gravemente responsabile della crisi produttiva e del mondo del lavoro. Una delle ragioni per cui questa opinione di provenienza aziendale riceve un qualche credito è che – nell’attuale prevalere della mentalità economicistica – chi più evidentemente produce ricchezza ha più voce in capitolo. L’idea soggiacente è: siamo in crisi economica, il rimedio può venire solo da chi genera la ricchezza, quindi che ci piaccia o no coloro che generano la ricchezza hanno la visione che conta, e bisogna seguire le loro indicazioni.

Sarà utile occuparsi in un successivo intervento di quanto poco sia vero che l’istruzione e la ricerca scientifica producano meno ricchezza delle aziende, e dimostrare ciò che ai più attenti appare chiaro, cioè che istruzione e ricerca sono indispensabili per produrre ricchezza, anche se in modo meno visibile perché più a lungo termine. Qui ci limitiamo a osservare che ultimamente le aziende italiane di ricchezza ne generano meno dell’auspicabile. Ebbene, l’università, che invece deve generare sapere e saper fare, ne genera anche lei così poco? Perché le aziende, per non prendersi la colpa del fatto che non riescono più a produrre ricchezza, da tempo praticano sull’opinione pubblica una sorta di scaricabarile: la colpa non è nostra, dicono, ma – fra gli altri cattivi – della scuola e dell’università, che non preparano i giovani per il lavoro.

Ebbene, a quale lavoro l’università dovrebbe preparare ciascuno studente? Frequentando il mondo aziendale si constata che in ogni azienda si fa un lavoro diverso, e che in ogni comparto di una stessa azienda si fa un lavoro diverso; e perfino in ogni stanza dello stesso comparto della stessa azienda si fa un lavoro diverso. Quindi perfino arrivando da un’altra azienda dello stesso settore o da un’altra stanza della stessa azienda, per svolgere il nuovo lavoro per qualche mese si deve imparare il lavoro specifico della nuova posizione. Per ovvi motivi, la varietà dei compiti nel mondo del lavoro è tale, che chi pretendesse una preparazione specifica per il compito che gli toccherà dovrebbe indovinare in che stanza di che azienda lavorerà. Salvo che poi dopo un anno e mezzo verrà spostato ad altro incarico, e dovrà dedicare qualche mese a imparare quello. Anche per questo, ciò che l’università deve garantire non sono ometti e donnine che sappiano già svolgere uno o l’altro singolo incarico; ma persone che, avendo acquisito conoscenze generali nel settore che gli interessa, abbiano anche acquisito la capacità di imparare le cose – in larga parte imprevedibili – che gli serviranno in futuro.

Questo significa che le persone devono uscire dall’università sapendo (1) che cosa vuol dire approfondire un problema quanto serve, senza accontentarsi di soluzioni approssimative; e (2) come andare a cercare le informazioni quando gliene servono di nuove che ancora non conoscono. Studiare ad alti livelli serve a questo. Non importa se ci si laurea sulla tradizione manoscritta della Chanson de Roland o sull’impiego di un nuovo batterio nel processo di produzione di sacchetti per la spesa biodegradabili: se si lavora bene – e ben guidati – alla tesi di laurea, ci si avvicina molto a capire a che livello di precisione e di efficienza l’umanità è in grado di affrontare un problema. Di conseguenza, non ci si accontenta più dei livelli inferiori. Questa è la ragione delle norme che hanno sempre richiesto titoli di studio più alti come condizione per i livelli di responsabilità più alti. Non si tratta di tentativi di mantenere in vita privilegi di classe; si tratta di adibire ai compiti difficili chi sa fare le cose difficili.

Secondo una mentalità meccanica e semplicistica, l’università non preparerebbe al lavoro perché non produce individui bell’e pronti, già impiegabili in una precisa posizione – miracolosamente indovinata fra le migliaia possibili. Cioè, individui che per un’altra posizione sarebbero inadeguati. In realtà non è di questo che c’è bisogno; ma nell’attuale lungo periodo di crisi economica questa sommaria accusa è servita molto bene a scaricare sul sistema dell’istruzione buona parte delle responsabilità che in realtà sono del mondo aziendale. Tuttavia non è difficile verificare che è falsa. Basta liberarci da meccanismi condizionati che impediscono di vedere il nesso fra le cose che pure già conosciamo.

I laureati italiani, se hanno la forza di abbandonare questo paese e vanno – poniamo – in Olanda o in Germania, trovano lavoro a volte immediatamente, a volte rapidamente; e lì si rivela che sono adeguati a produrre la molta ricchezza che vi si produce. Non si tratta solo della notissima “fuga dei cervelli”, per cui i giovani scienziati italiani fanno ottima figura nelle istituzioni di ricerca di mezza Europa e degli Stati Uniti,[2] e ottengono molti bandi europei ERC Consolidator.[3] Si tratta semplicemente della fuga di laureati che vogliono fare il lavoro per cui hanno studiato. Queste persone, ad esempio molti miei ex studenti (laureati in Lettere o in Lingue, non in ingegneria elettronica) hanno subito anni di frustrazioni e di sfruttamento in Italia. Poche settimane dopo il loro arrivo in Germania, hanno un lavoro. Non un lavoro a caso: quello che volevano e per cui hanno studiato. Vengono assunti perché sono preparati. La cosa più emozionante nei loro racconti non è nemmeno che finalmente risolvono i loro problemi economici; è che riscoprono di essere bravi. In anni di fallimenti si erano convinti di valere poco, ed ecco che un’azienda tedesca gli dice: sei al livello che ci serve. Non erano loro, ma chi non li voleva assumere in Italia, a non valere abbastanza.

Se i nostri laureati trovano lavoro più facilmente all’estero che qui, significa che i nostri laureati non sono ben preparati, oppure che il nostro sistema economico non è capace di offrire lavoro? Insomma, come si può dare la colpa all’università italiana, se chi ne esce non può lavorare in Italia, ma può presso aziende di altri paesi? Come si può dire che l’università italiana non prepari adeguatamente per il lavoro, se prepara adeguatamente per lavorare proprio nei paesi dove il lavoro è organizzato secondo standard che producono più ricchezza?

Tra l’altro, se vogliamo domandarci quali siano le responsabilità del sistema universitario nella crisi del sistema paese, dobbiamo tenere conto anche di quali siano le risorse che il sistema paese fornisce all’università per svolgere il suo compito. In Tabella 1 si può vedere quali fossero nel 2010 le risorse di budget e di personale a disposizione di quattro atenei europei (di cui uno italiano) paragonabili per dimensioni, quando erano già in fase avanzata (ma oggi ancora aggravata) le sciagurate riduzioni di spesa e di personale messe in atto da tutti gli ultimi governi a danno delle università italiane, tagli purtroppo politicamente favoriti dalla diffamazione che di esse fanno i cosiddetti ambienti “produttivi”.

Tabella 1 – Dati (2010) sul rapporto fra numero di studenti e risorse a disposizione di alcune università europee paragonabili per dimensioni (Fonte: G. Domenici, Riforma universitaria e (dis)investimenti in ricerca e formazione, in «Journal of Educational, Cultural and Psychological Studies (ECPS Journal)», n. 3, 2011. )

Ebbene, i nostri laureati, che escono da un sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. Se non riescono a impiegarsi altrettanto facilmente in Italia la colpa, palesemente, non è dell’università italiana. Anzi, tenendo conto delle risorse sempre più ridotte a sua disposizione, l’università italiana ha retto finora in maniera ammirevole ed eroica. In realtà chi ci sta dentro sa che non potrà reggere a lungo, e che rischia il collasso, perché si è raggiunto un livello di definanziamento insostenibile, e le conseguenze cominciano a non essere più arginabili.[4] Quindi le forze politiche che si propongono di eliminare le tasse universitarie hanno avuto una bella idea, ma perché non si tratti solo di una misura demagogica devono prevedere adeguate risorse anche perché chi si è iscritto gratis trovi poi un’università in grado di funzionare.

Certo, l’università italiana ha ancora molti difetti, e può migliorare. Ma – ovviamente – migliorerà se i governi, invece di strozzarla, ci investiranno adeguatamente. In ogni caso, per adesso abbiamo avuto un sistema di istruzione così “inferiore” al sistema paese, che abbiamo esportato masse di laureati. Enormemente di più di quanti ne abbiamo importati. Si mettano una mano sulla coscienza tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università, dando ai governi di ogni colore un pretesto per infierire su uno dei settori strategicamente più essenziali per la vita e per l’economia di un paese. Si rendano conto che la percentuale del PIL destinata a finanziare l’università è in Germania – a seconda del modo di calcolarla – da 2 a 4 volte la nostra, anche perché negli ultimi 10 anni è cresciuta del 23%; mentre da noi nello stesso periodo i governi l’hanno ridotta del 22%. Col risultato che ora siamo penultimi nell’Europa a 15 per il rapporto tra il finanziamento all’istruzione e il PIL.[5] In questa situazione, e nonostante i vergognosi attacchi di ogni tipo subiti direttamente dal loro personale,[6] scuola e università di fatto (grazie al quotidiano sacrificio di quello stesso personale) formano giovani adatti al mercato del lavoro nei paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle aziende in Italia ai giovani non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma, forse è il caso di ripensare chi è che non fa bene la sua parte.

NOTE

[1] Qui una delle tante riflessioni critiche sull’argomento: http://temi.repubblica.it/micromega-online/%e2%80%9ccaro-poletti-lei-si-deve-vergognare%e2%80%9d/

[2] Si vedano i periodici rapporti del CNRS francese sulla preponderanza dei ricercatori italiani nelle istituzioni francesi, o altre fonti come le seguenti:

http://cache.media.education.gouv.fr/file/Actions_Marie_Sklodowska-Curie/00/4/Mobilite_internationale_des_chercheurs_et_attractivite_de_la_France_305004.pdf

http://www.lidimatematici.it/blog/2015/04/20/insegnanti-in-fuga/

http://www.repubblica.it/economia/2015/03/23/news/il_laureato_emigrante_un_capitale_umano_costato_23_miliardi_che_l_italia_regala_all_estero-110242042/?ref=HREC1-2

[3] http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/erc-consolidator-per-giannini-un-successo-ma.flc

[4] Si vedano ad esempio questi documenti e interventi:

https://ilmanifesto.it/universita-al-collasso-nel-2018-oltre-9-mila-docenti-in-meno/

https://www.crui.it/images/documenti/2016/Primavera_Universit__PILASTRI_SU_CUI_FONDARE_LO_SVILUPPO_SOCIALE_ED_ECONOMICO_DEL_PAESE.pdf

http://it.blastingnews.com/lavoro/2017/11/universita-e-ricerca-sono-al-collasso-ecco-tutti-i-numeri-dopo-anni-di-tagli-002166949.html

https://www.facebook.com/ArchiviSpotPolitici/videos/1490016134452460/

[5] Dati OCSE e CRUI. Qui si trovano informazioni recenti sul problema del finanziamento della ricerca in Italia, che è parallelo a quello dell’istruzione: https://www.youtube.com/watch?v=PYAcU-_Zh_A

[6] Non possiamo trattare qui quel sopruso nei confronti degli insegnanti che rappresenta la riforma della “Buona Scuola” imposta dal governo Renzi, né soffermarci sui motivi per cui i dipendenti dell’università sono gli unici in tutto il pubblico impiego a cui sono stati cancellati cinque anni di progressione di carriera. Sull’inimicizia di un’azione politica economicistica verso il mondo della scuola, e sui suoi effetti nefasti, si veda comunque: https://ilfoglietto.it/notizie/editoriali1/5452-in-italia-l-istruzione-segna-il-passo-grazie-a-una-classe-politica-impreparata.html; e sull’analogo per università: http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/cosi-gli-economisti-stanno-distruggendo-luniversita/.

(Pubblicato su Micromega 11 gennaio 2018)

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9 Commenti

  1. Verissimo. La nostra università ancora (per poco) prepara abbastanza bene. Le aziende una volta erano anche grandi e strutturate ed era pacifico che la formazione al lavoro veniva fatta in azienda, perchè in ogni azienda i lavori che si possono fare sono molteplici. Il neolaureato doveva ‘solo’ saper imparare in fretta ogni lavoro e questo succedeva e succede ancora se gli si da questa possibilità. Ora le aziende Italiane fanno schifo, perchè solo così possiamo riassumerne lo stato. Sono destrutturate o strutturate secondo logiche manageriale fintamente efficienti. L’Università dal canto suo ha scelto non solo per sua colpa di staccarsi sempre più dalle aziende a vivere nel mondo felice della ricerca nella accezione Anvuriana. Quindi tra un pò constateremo che l’Università non preparerà neanche più bene. Se lo Stato e le parti sociali, come si dice, ovvero in questo caso la Confindustria, non vogliono e non sono in grado di usare l’asset Università per la crescita complessiva di ognuno e del Paese, perderemo anche i vantaggi che ancora ci derivano da una ormai vecchia rendita di posizione. Il problema è che noi universitari dovremmo saper spiegare e lottare per esigere queste cose, senza rinchiuderci ulteriormente nel nostro mondo Anvuriano.

  2. Sicuramente, il periodo di formazione aziendale è considerato una perdita di tempo e denaro (sebbene di pochi mesi per i ragazzi preparati) per la maggior parte degli imprenditori, specie nostrani.
    per non parlare del periodo dedicato a r&d spinta…
    uniamo il fatto che i vari manager, capetti, direttori… (tendenzialmente non laureati) non apprezzano i contributi concettuali di chi ha una solida cultura di base.

    per ciò che riguarda l’università: la preparazione dei giovani è ancora molto buona, soprattutto grazie all’approccio teorico e fondante;
    ciò che forse manca è un briciolo di collaborazione in più: ma perché non sviluppiamo in ambito universitario sw tipo CAD, mesher, FEM, CFD ma anche gestionali, database… facendo risparmiare alle nostre aziende i costi elevatissimi delle licenze?

    • Ho più volte sviluppato strumenti CAD FEM e gestionali personalizzati. Ora sempre meno me lo chiedono, perchè le aziende sono chiuse a riccio e lamentano problemi di budget perfino per accendere le luci in ufficio la sera. Inoltre la burocrazia dell’Università e le finalità Anvuriane mi costringono sempre più a non lavorare, o almeno a fare un lavoro che per me non può definirsi tale. Il cane si morde la coda ed il sistema si impoverisce sempre più.

  3. come immaginavo purtroppo.
    tanto per completare lo scenario:
    dal punto di vista dei sw, una licenza per 1 macchina di un noto codice per CFD costa sui 15keuro/anno; esiste almeno un equivalente free (eg. OpenFOAM) i cui solver sono comparabili per moltissime applicazioni.
    solo in una azienda che conosco lo usano, benché in tutte ci si lamenti del budget, in effetti.
    nel mio piccolo, sto cercando di migrare da un noto sw pay di rapid prototiping a Python qui dove lavoro ma nessuno sembra entusiasta…

  4. Lombardi Vallauri descrive in modo cristallino ciò che sappiamo essendo curiosi del mondo aziendale, un po’ perché ci interessa sapere ciò che fanno i nostri studenti una volta laureati, un po’ perché costretti dall’invasione dell”“aziendalismo” da accatto che subiamo all’università e nella scuola: “in ogni azienda si fa un lavoro diverso, e che in ogni comparto di una stessa azienda si fa un lavoro diverso; e perfino in ogni stanza dello stesso comparto della stessa azienda si fa un lavoro diverso. Quindi perfino arrivando da un’altra azienda dello stesso settore o da un’altra stanza della stessa azienda, per svolgere il nuovo lavoro per qualche mese si deve imparare il lavoro specifico della nuova posizione. Per ovvi motivi, la varietà dei compiti nel mondo del lavoro è tale, che chi pretendesse una preparazione specifica per il compito che gli toccherà dovrebbe indovinare in che stanza di che azienda lavorerà. Salvo che poi dopo un anno e mezzo verrà spostato ad altro incarico, e dovrà dedicare qualche mese a imparare quello.” È una dinamica anche affascinante, che ci conferma giorno per giorno – per senso di responsabilità nei confronti degli studenti – nel continuare a offrire conoscenze generali, capacità di approfondire una questione (nella tesi di laurea), e attraverso entrambe, formare “la capacità di imparare le cose – in larga parte imprevedibili – che gli serviranno in futuro”.

  5. Metà del lavoro è pubblico,
    metà del lavoro è privato.
    Perché pensare solo al collegamento università-aziende?
    Nei concorsi pubblici (extra-università), non viene considerato il titolo di dottore di ricerca, non vengono considerate le pubblicazioni universitarie, non vengono considerati i contratti di insegnamento, non vengono considerati gli assegni di ricerca.
    Quando dico “considerati” intendo come sostituzione delle prove scritte ed orali che in Italia (Paese sottosviluppato per quanto riguarda le modalità di reclutamento nella Pubblica Amministrazione) continuano dai primi del 900.
    Vergogna Italia!

  6. “scuola e università formano giovani adatti al mercato del lavoro nei
    paesi in assoluto più progrediti” “i nostri laureati, che escono da un sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. ”

    Parole sante! Sono un po’ in ritardo, scusate, ma gtazie mille per il contributo!

  7. Giungo tardi al dibattito, ma noto anch’io l’evidente sconnessione fra università e mondo del lavoro, in Italia, ma devo dire anche all’estero (in parte).

    L’ideale sarebbe che uscissero dalle università persone con tali caratteristiche: solide basi teoriche, versatilità critica e padronanza degli istituti appresi negli studi, capacità di considerare la laurea un nuovo punto di partenza sia culturale che professionale, pragmatismo del capire le esigenze del mondo aziendale, capacità interpersonali spiccate, quoziente di intelligenza decente, inter- e multidisciplinarietà radicata nel pensiero, capacità collaterali come diplomi d’arte e conservatorio, consapevolezza dei propri diritti lavorativi e delle clausole legali per i contratti di lavoro.

    Relata refero, ma troppi giovani sento lamentare “non era il lavoro che mi immaginavo”… E la cosa che ne rallenta la presa di coscienza è la smania di apparire sui social, che dissimula l’emergenza nazionale dietro anonimi numeri da Istat ma che in realtà riguardano anche il nostro vicino di casa o compagno di banco.
    Quanto ai datori di lavoro, lamentano troppo spesso di non riuscire a trovare candidati per alcune posizioni o peggio di essere “costretti alla paranoia”, diffidando nichilistici di qualsiasi cosa leggano sui CV, roba che farebbero storie persino al papa che vuole entrare a S. Pietro. Fanno storie perché sono stufi dello scolaretto che pensa che un problema aziendale abbia una soluzione scritta su qualche libro, o che si ostini a pensare secondo i compartimenti delle sue materie scolastiche, quando vorrebbero un ibrido (con gli anni nessun laureato resta fedele agli studi fatti, gli ingegneri imparano l’economia, gli economisti imparano la comunicazione, i matematici imparano la psicologia, i filosofi imparano l’informatica etc)…
    Non mi stupisce che siano emigrati alcuni giovani meritevoli viste le proposte qui, tuttavia ne sento molti tra di loro anch’essi delusi dall’estero nonostante siano ricercatori, speranzosi di tornare in Italia un giorno con una posizione dignitosa.
    Nè mi stupisce che le aziende ricorrano ad intermediari sempre meno trasparenti che aggravano la disoccupazione frizionale.

    Temo che ancora una volta la soluzione sarà calata dall’alto, come dall’alto si forma la classe dirigente.

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