Segnaliamo ai lettori il seguente comunicato del gruppo “Ricercatori Determinati”, di cui anche ADI fa parte.

Il 25 dicembre il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca si è dimesso, in polemica con le scelte governative in materia di finanziamento dei suoi provvedimenti per la ricerca universitaria, a seguito dell’approvazione della Legge Finanziaria per il 2020. Per la prima volta, un titolare del MIUR rinuncia alla sua carica per il mancato ottenimento dei fondi richiesti per il rifinanziamento del comparto scolastico e universitario – una scelta che ha giustamente fatto fragore nell’opinione pubblica, e che ci consente di provare a fare il punto sullo stato del sistema dell’istruzione e della ricerca italiana. Per una volta, proviamo a farlo prendendo parola come personale di ricerca non strutturato, che non ha avuto voce in capitolo – come nessun’altra parte dei gradi più bassi della gerarchia accademica – in questa ennesima discussione sul rifinanziamento (pubblico) dell’Università (pubblica). A testimonianza di chi abbia titolarità sul discorso universitario e di quanta voglia ci sia di discuterne con i soggetti su cui si regge l’università, la crisi di governo è stata rapidamente riassorbita con la nomina di due nuovi ministri: Lucia Azzolina per l’istruzione, e Gaetano Manfredi all’Università e alla Ricerca. Crediamo che questo gioco non sia più accettabile e che non si possa rimandare il richiamo a una mobilitazione che coinvolga tutte le componenti universitarie inferiorizzate e messe regolarmente a tacere, come già si stanno attivando da anni altri settori lavorativi funestati dalle scelte politiche degli ultimi decenni.

I dati della Legge di Bilancio 2020 sono effettivamente più che allarmanti. A partire dal 2008, l’investimento pubblico sull’Università ha perso 1,5 miliardi di euro. In questa situazione, i soldi stanziati con questa finanziaria suonano come una presa in giro: 5 milioni di euro per il rifinanziamento del Fondo di Finanziamento Ordinario per le università italiane; 31 milioni per il finanziamento delle borse di studio per gli studenti – soldi in grado di coprire un fabbisogno di circa il 10% della popolazione studentesca; 25 milioni per aprire una nuova agenzia (Agenzia Nazionale della Ricerca), chiamata a indirizzare, con modalità ancora per nulla chiare, le attività di ricerca nel nostro Paese. Ma a cosa servirebbe rifinanziare l’università? Su quale sistema attualmente esistente si innestano i provvedimenti previsti dalla finanziaria?

Gli effetti delle politiche italiane per l’università avviate almeno a partire dal Bologna Process (1999), e proseguite con le successive riforme dell’Università compresa la Legge Gelmini del 2008, emergono chiaramente a partire dalla condizione del dottorato in Italia. Nell’immagine allegata sono mostrati i dati eloquenti dell’ultima Indagine ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia) relativi al numero di borse di dottorato in Italia.

La situazione non migliora se si guarda alle proporzioni tra personale di ricerca strutturato e non strutturato (e quindi precario): si è verificata un’inversione storica tra la quantità di personale stabilizzato (nel quadro attuale, professori associati e ordinari) e di personale precario (assegni di ricerca, titolari di borse di studio, Rtd-A ed Rtd-B). Nel 2018 erano ben 68.428 le persone assunte a tempo determinato, contro solo le 47.561 a tempo indeterminato, il che vuol dire che l’Università italiana, in questo momento, si regge sul lavoro precario, non garantito in termini contrattuali, previdenziali e assistenziali. Né è possibile in questo momento invertire la tendenza: la totale mancanza di un sistema di reclutamento ordinario produce carriere discontinue, spesso intervallate da lunghi periodi di disoccupazione che sono solo in parte tutelati da ammortizzatori sociali come DIS-COLL. Si tratta di carriere soggette alla disponibilità o meno di risorse che vengono dai fondi di ricerca dei docenti strutturati (che quindi ne hanno il pieno controllo) o da finanziamenti europei per singoli progetti di ricerca. Questa carriera altalenante prosegue finché non vengono indetti concorsi per la stabilizzazione, irregolari e difficili da prevedere perché non esiste più un sistema concorsuale ordinario.

La condizione contrattuale para-subordinata di chi lavora nella ricerca rende la posizione lavorativa del ricercatore molto più svantaggiata, sul piano assistenziale e previdenziale, rispetto a buona parte delle persone con un lavoro dipendente e subordinato (e basterebbe in questo senso pensare alle scarsissime tutele relative a maternità e malattia). Non avendo un vero “datore di lavoro” a cui rendere conto, salve le dinamiche baronali che determinano in linea di massima il finanziamento dei contratti e degli assegni per la sua posizione, le dinamiche del lavoro di ricerca appaiono invece piuttosto simili a quelle del lavoro autonomo, delle cooperative di servizi e dell’impiego di “finte partite IVA”, peraltro abbondanti nell’università dai servizi bibliotecari a quelli delle mense e del diritto allo studio universitario. Nel caso specifico del lavoro della ricerca, un’altra tara rende particolarmente difficili le condizioni del suo esercizio oltre alla para-subordinazione e al precariato: sono le modalità di valutazione della produzione scientifica da parte dell’ANVUR. Da queste ultime dipendono gli avanzamenti di carriera in senso più strettamente scientifico, e il criterio vigente è una valutazione tendenzialmente algoritmica dei prodotti scientifici, delle singole persone e dei dipartimenti. Questo meccanismo obbliga i ricercatori ad una “corsa alla pubblicazione”, con effetti disastrosi tanto sulla qualità dei contenuti quanto sul benessere personale. Nel privilegiare la quantità della ricerca sulla sua qualità, il sistema rivela tutta la sua inadeguatezza. La direzione dell’ANVUR è d’altronde in linea con i sistemi di valutazione internazionali, in ottemperanza all’integrazione sovranazionale dei sistemi di valutazione della ricerca che anni addietro venivano indicati come “aziendalizzazione” delle università. La differenza più evidente, anche senza voler mettere in discussione questo processo, è però che l’Italia investe complessivamente meno dell’1% del PIL sulla ricerca, rispetto alla media dell’1,5% dei paesi considerati dal rapporto Ocse “Education at Glance” del 2019.

Come la qualità dell’insegnamento risente delle condizioni di lavoro del personale di ricerca non strutturato sul quale si regge l’università, anche il peggioramento della condizione studentesca ha ricadute pesanti sul reclutamento del personale di ricerca. Infatti non solo – in assenza di un adeguato finanziamento pubblico, il gettito delle tasse studentesche influisce sulla capacità o meno degli atenei di assumere, specialmente nei settori meno interessanti per il finanziamento privato. Va aggiunto che per di più solo l’11% degli studenti iscritti beneficia di una borsa di studio, rendendo l’università un posto sempre più inaccessibile anche a causa della spasmodica ricerca di risorse che viene fatta pesare sulle fasce più deboli della popolazione studentesca. Solo il 6% degli studenti fuorisede usufruisce di un posto alloggio e più di 25.000 studentesse e studenti (i dati riguardano solo alcune regioni) sono idonei non beneficiari di posto alloggio, con una carenza strutturale di residenze e posti letto che costringono tante e tanti a rivolgersi al mercato privato, al caro-affitti e alla speculazione immobiliare che sta erodendo troppe città.

Dal punto di vista del lavoro di ricerca, il risultato è che sul totale degli assegnisti attualmente in servizio meno del 10% riuscirà, al termine di un lungo e frastagliato percorso, a divenire un professore di seconda fascia (professore associato), unica possibilità di stabilizzazione attualmente prevista per chi lavora nella ricerca. Detto in altri termini, oltre il 90% dell’attuale personale di ricerca verrà espulso dall’Università. Ci può forse stupire che negli ultimi anni il principale dibattito nazionale e internazionale relativo alla ricerca universitaria sia quello sul benessere psichico di chi lavora nella ricerca? La frammentazione delle relazioni sociali, frutto inevitabile della competizione; la mancanza, talvolta, di spazi fisici riconosciuti dove svolgere il proprio lavoro; l’obbligo all’internazionalizzazione (che si traduce in una lunga diaspora che conduce i ricercatori a cambiare non solo città ma Stato); l’assenza di un orizzonte di certezza lavorativo: sono solo alcuni dei fattori che maggiormente contribuiscono a generare una fragilità esistenziale, emotiva, psichica, ivi compresa la difficoltà a progettare la propria vita secondo i propri bisogni, aspirazioni e desideri e trovando continuamente in conflitto la propria realizzazione personale e collettiva con la propria realizzazione lavorativa. Lascia tutto e seguimi. In questo vediamo niente di più e niente di meno che lo stesso meccanismo che molti altri comparti del lavoro già in mobilitazione vivono quotidianamente: a loro va tutta la nostra solidarietà, che molt_ di noi esprimono già concretamente attraverso la mobilitazione attiva in loro vicinanza come in vicinanza delle altre lotte sociali e civili che in questo paese avvengono. Bisogna reagire immediatamente pretendendo il miglioramento delle condizioni di lavoro e di studio nel settore universitario almeno attraverso il rifinanziamento pubblico dell’università. Va pretesa una riforma immediata del reclutamento e del pre-ruolo, eliminando le forme di precariato e para-subordinazione. Il sistema attuale di valutazione della ricerca va radicalmente ripensato, a partire dalla soppressione dell’ANVUR. Occorre migliorare le condizioni di studio in Italia, aumentando il Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio di almeno 200 milioni di euro, senza che ciò abbia ricadute sulle altre componenti del mondo universitario e in particolare sul reclutamento del personale di ricerca.

È anche sulla base di questo che chiamiamo tutte e tutti a mobilitarsi, il 9 gennaio 2020, per una giornata di lotta nella quale chiedere:
– un rifinanziamento adeguato e strutturale del comparto università e ricerca, in misura tale da poter quantomeno ritornare, nei più brevi tempi possibili, ai livelli pre-crisi;
– una riforma del reclutamento per Università ed Enti di ricerca, da effettuare con un concorso annuale ordinario, per invertire il trend che ha portato alla proliferazione sistematica della popolazione precarizzata e consentire, a ciascun lavoratore, una programmazione chiara della propria vita;
– una riforma del pre-ruolo, eliminando i contratti para-subordinati in favore di forme lavorative e previdenziali dignitose e riducendo, se non eliminando, i lunghi periodi di disoccupazione che si moltiplicano fino a una ipotetica stabilizzazione;
– la soppressione dell’ANVUR e un ripensamento radicale della valutazione della ricerca a partire da criteri qualitativi e non più quantitativi;
– l’aumento per almeno 200 milioni del Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio, così da garantire borse di studio, alloggi e residenze.

Riuniamoci in presidi e assemblee, pensiamo e costruiamo insieme l’alternativa con tutti i mezzi necessari: divisi siamo niente, uniti siamo tutto!

Ricercatori Determinati – Pisa

 

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16 Commenti

  1. Sono d’accordo nel sostenere i giovani che mostrano interesse e qualità per la ricerca. Sarò con loro a patto che ci si faccia carico anche dei ricercatori a tempo indet. dei PA che, pur avendo tutte le caratteristiche di un ordinario sono stati giudicati non idonei. Sono d’accordo se si combatte per smantellare una direzione verticistica degli atenei. Se si chiede lo smantellamento dell’anvur, dell’asn, se si stabiliscono criteri certi per gli avanzamenti di carriera, liberandoci da vendette, accordi sottobanco, esclusioni clamorose.

  2. Carissimi,
    come “ribelle” della prima ora da tempo provo a ragionare sulle ragioni della nostra debolezza.
    Oltre a quella contrattuale esiste, a mo’ avviso, quella della bassa attrattività del sistema ricerca italiano.

    Ho provato ad analizzare la situazione in un articolo su LinkedIn

    The poor Italian attractiveness for researchers and the government of the mediocre men

    https://www.linkedin.com/pulse/erc-grants-italian-results-government-mediocre-men-guido-perboli

    Fatemi sapere che ne pensate

  3. Caro collega,
    Ho letto con interesse il tuo post sulla mancanza di attrattività della ricerca italiana.
    Partire dagli ERC per cercare di capire le ragioni della mancanza di “attrattività” della ricerca italiana mi pare non molto oculato visto che gli ERC funzionano solo per i paesi che investono in modo consistente sulla ricerca (https://www.roars.it/a-proposito-di-horror-lerc-e-gli-starting-grant-2014/) e che i ricercatori italiani prendono un numero di ERC tutto sommato non secondario rispetto ad altri. Pur tuttavia purtroppo l’80% se lo porta in un’altra nazione ed ancora peggio va per i vincitori ERC stranieri che (non) vengono in Italia.
    Queste tre cose insieme fanno pensare che le cause possano essere dovute più a problemi di carattere organizzativo e sistemico, piuttosto che ai difetti dei singoli individui che tu elenchi (pur sempre presenti ma d’altra parte gli stronzi esistono dappertutto).
    Quindi mi pare tutto sommato un post dove si elencano molti dei vizi appartenenti a tutto il mondo accademico, a prescindere dalla latitudine, tentando piuttosto superficialmente di attribuirne la paternità ai soli italiani (o quasi).

    Per rimanere nell’ambito stretto delle cause prossimali, ti inviterei a riflettere sulle ragioni tecnico/organizzative alla base delle enormi difficoltà della ricerca italiana, e quindi linko un intervento della compianta Prof.ssa Tramontano:
    https://www.roars.it/anna-tramontano-la-situazione-italiana-nel-contesto-del-finanziamento-internazionale/
    la quale spiega, meglio di chiunque altro, le ragioni sistemiche/organizzative alla base delle difficoltà italiane in ambito europeo.

    Per allargare un po’ di più la visione, inoltre, analisi interessante potrebbe essere quella che riguarda il ritardo dell’Europa nei confronti del resto del mondo; qualche anno fa il Global Young Academy (GYA), gruppo di studio formato da giovani scienziati riunitisi nel corso del World Economic Forum “Summer Davos” del 2008, e di cui linko i risultati sotto, afferma, basandosi su una survey tra gli addetti ai lavori, che in Europa il problema maggiormente sentito come ostacolo da quasi tutti quelli che lavorano nell’ambito della ricerca risiede nella mancanza di sicurezza del lavoro.
    “Job insecurity is encountered as a career obstacle by 83% of the respondents from Europe (see Table 14)”
    La causa principale viene individuata dal GYA nella differenza di trattamento delle carriere in Europa e nel resto del mondo: “This is clearly related to differences in the science and higher education systems both within Europe and compared with the rest of the world. Whereas in most parts of the world, permanent or tenure track positions are also available to early career researchers, many systems in Europe, e.g. the German higher education system, mainly offer fixed-term contracts to the postdoctoral and early career researchers, reserving permanent job opportunities for a small fraction of scholars at the professorial level.”
    https://globalyoungacademy.net/wp-content/uploads/2015/06/GYA_GloSYS-report_webversion.pdf

    Infine, per guardare il panorama da 4000 metri ci si potrebbe chiedere, a voler essere pignoli, le cause remote di tale differenza. Ci si potrebbe quindi imbarcare nell’analisi del sistema socio-economico che attualmente l’Europa ha adottato e che la fa da padrone in occidente, il liberismo capitalista, quello che considera qualsiasi cosa, quindi anche la scienza ed il lavoro dei suoi addetti, un prodotto mercantilistico (alla stregua di qualsiasi altro prodotto commercializzabile) a cui attribuire un valore -esclusivamente- monetario. A quel punto qualcuno potrebbe intervenire sottolineando che in un tal sistema è fondamentale mantenere questo status quo, dando tanto a pochi e poco a tanti; che la vecchia missione delle università, diffondere conoscenza che di solito fa bene a tutti gli individui anche indirettamente, deve andare in soffitta: la “nuova” missione delle università è legata soltanto al ritorno economico di breve termine, proveniente esclusivamente dall’innovazione tecnologica (come afferma rammaricandosene Sir Konstantin Novoselov, https://www.timeshighereducation.com/news/graphene-nobelist-dont-ask-universities-drive-innovation ); che i precari della ricerca devono restare tali (lo dico con dolore, con buona pace dei Ricercatori Determinati) come i topolini nella ruota; che i metodi di valutazione della ricerca sono utili proprio a questo scopo, quello di aumentare le differenze dove possibile in modo da redistribuire in modo diseguale ed arbitrario le risorse e magari darle a qualcuno con i vizietti da te elencati.
    A questo scopo si è formato anche un nuovo lessico, completamente interiorizzato e tanto di moda tra i giovani precari della scienza: eccellenza; merito; attrattività; competizione; competenza. Tutti termini relativi usati in modo assoluto e spregiudicato.
    Un non senso, ma bisogna pur convincere gli schiavi che è il migliore dei mondi possibili.
    E ci riescono.
    Cordialmente

  4. Mi pare convincente ciò che dice Salvatore Valiante circa il lessico che infetta anche i giovani ricercatori. Quel che,però, mi pare ancor più temibile è la mobilità dei referenti di queste parole: merito, rigore scientifico, ecc. sono attribuiti ad alcuni referenti e sottratti poi senza alcuna giustificazione… Trattasi di un linguaggio nel quale nessuno crede, ma pericoloso…

  5. Caro Salvatore,
    ovviamente la mia non pretendeva ij essere una analisi generale e sono d’accordissimo una visione sistemica sua necessaria, ma sinceramente quel che viene percepito dal singolo è poi quel che fa da deterrente.
    Sono da anni valutatore di progetti per i ministeri sia in Italia, sia all’estero (Canada in particolare) ed ho progetti tre che in Italia in Canada, grazie alla doppia affiliazione, e in altre nazioni ed ognuna ha le sue follie.

    Sinceramente ci sono due diversi fattori però che giocano contro l’Italia

    Essere Europei. I miei colleghi nord americani additano un paio di colleghi da anni come esempio (negativo) per i loro giovani. Li additano come esempio del fallimento del sistema Italiano ed Europeo, visto che per CV e per progetti (accademici ed industriali) avrebbero dovuto essere ordinari da un pezzoeli avrebbero voluti come direttori di Centri, ma loro si sono incaponiti a servire questa Nazione.

    Poi ci sono le peculiarità dell’Italia. La VQR ha dei sonori difetti, ma oltre che dei difetti, ha anche evidenziato delle criticità.

    Ad esempio se ti occupi di un certo argomento insisti su almeno tre SSD (evito di fare il nome dell’ssd). In uno le mediane sono quasi 10 volte inferiori agli altri due. Non c’è qualcosa che non quadra? Forse in uno dei raggruppamenti non si fa ricerca, ma sì fanno bellamente i cavoli propri?

    Alcune grandi istituzioni sono risultate avere performance VQR inferiori a istituzioni meno blasonate in settori per i quali sono note. In primis la VQR ha il difetto che strutture più piccole possono spuntare voti maggiori di quelle più grandi (tra le altre problematiche). Sinceramente però io avrei analizzato l’andamento dei dipartimenti di riferimento della grande istituzione, magari scoprendo che in uno dei dipartimenti gli outlier se ne vanno e ci sono diverse discontinuità (forti interruzioni della produzione) nei CV da almeno 15 anni, oltre ad una concentrazione di risorse su aree dove la produzione scientifica arriva ad essere a 4/5 mani (strutturate). Le istituzioni non erano note per la bontà del Dipartimento, ma per l’eccellenza di alcuni ed è evidente un malgoverno Dipartimento (è semplice individuare la causa guardando alle figure apicalj e relativi concorsi)

    Malgoverno italico. Sinceramente quando parla di persone ad un certo livello, solo in Italia ho visto CV dove, togliendo uno o due collaboratori come coautori, la persona diventasse una nullità. Per molto meno un collega è stato chiamato nella mia area pezzente per anni e non più invitato ai consessi internazionali che contavano.
    Inoltre l’assenza di limiti alla libera professione porta a follie come la dichiarazione dei redditi del cosiddetto prod. Giuseppe Conte. In altri luoghi (vedi ad esempio la Francia) sì sarebbe dovuto dimettere da professore da tempo. Eppure qui tutti dicono che sia una cosa normale. Ad essere sincero in altri luoghi non sarebbe,per lo stesso motivo, preside te del consiglio. Per ragioni di opportunità edi eticità.

    • Mi fanno tenerezza i colleghi che guardano alle mediane e ai voti VQR pensando che possano rivelare interi SSD che si fanno i cavoli propri e i “malgoverni dei dipartimenti”. Se (avendo gli strumenti tecnici per farlo) li avessero guardati da vicino si renderebbero conto che outlier e differenze macroscopiche sono quasi sempre spiegate da proprietà degli indicatori (spesso maldefiniti) che poco o nulla hanno a che fare con il merito. Per farsi un’idea, basta rileggersi i dialoghi tra Peppe e Gedeone. Passata la tenerezza, mi fa un po’ impressione che i colleghi siano così creduloni nell’accreditare classifiche prive di validazione scientifica. In ogni caso, pensando a due architetti di indicatori anvuriani che si incrociano per la strada mi viene da dire «Mirabile videtur quod non rideat anvurianus, cum anvurianum viderit».

  6. Caro prof. De Nicolao,
    senza nulla togliere alla sua esperienza, decisamente maggiore della mia, non voglio certo dire che bastino 4 numeri o sistemi semi-automatici per trovare i problemi. I numeri e le statistiche vanno letti ed interpretati, ma qualche domanda ogni tanto bisogna pur porsela. Se poi la risposta è che è lo satrumento ad essere il problema, ben venga, ma le assicuro che ogni tanto (sarà anche solo per fortuna) qualcosa ne esce.
    Tra le altre cose quando parlavo di outlier evidentemente non sono stato preciso: non parlo di valori VQR (sono valori volutamente medi, che servono proprio per eliminare l’effetto di chi è più produttivo e non in maniera malevola, ma per accentuare alcune discrepanze nella produttività) e quando parlo di malgoverno intendo dire danno alla collettività documentabile tramite indivisuazione di persone produttive che se ne vanno o che si arrestano nella propria produttività. Uno può essere un caso, oltre i 5 diventa una regola e a quel punto un controllo lo farei. Se poi addirittura un esercizio con diversi problemi come la VQR evidenzia simili situazioni, forse siamo a livello rosso.
    Del resto sono il primo a dire che, se in una struttura devo creare una strategia, non posso rincorrere la metrica di un terzo, anche perché potrebbe non adattarsi a me e perché devo condividerla e poterla calcolare ed analizzare in autonomia. Quel che si può (e a volte di deve) fare è di avere sistemi di allerta automatici e semi-automatici che permettano di evidenziare potenziali criticità in modo che chi è al governo si possa concentrare sui punti chiave. Con un po’ di autocritica in più forse non sarmmo al livello di delegittimazione della figura del Professore che c’è ora.
    Ma di sicuro sono un Candido alla Voltaire che poco ha compreso del sistema universitario.

  7. Caro Guido,
    “quel che viene percepito dal singolo è poi quel che fa da deterrente”

    -per alcune delle ragioni (non le uniche) che ho scritto precedentemente, dubito che la percezione del singolo faccia da deterrente, in particolare per un sistema socio-economico dove è ostacolato lo sviluppo e diffusione del pensiero critico individuale quale base fondamentale per lo sviluppo (non crescita) culturale della società. In questo ambito una fetta consistente dell’Accademia, non solo italiana, sta facendo il suo porco lavoro.

    “Sinceramente ci sono due diversi fattori però che giocano contro l’Italia. Essere Europei.”

    -Per carità Guido ritira quello che hai detto sull’Europa!!! Potresti essere tacciato di pensare criticamente.
    A parte questo penso che converrai che i colleghi nord americani non sono immuni da casi eclatanti di scientific misconduct, avendo loro inventato diversi metodi per falsificare i ranking (auto citazioni a go go, cross citazioni, salamizzazione dei dati etc.) oppure di nepotismo accademico oppure ostacolo alle carriere di individui più brillanti. Il che non cancella il problema, semmai aiuta e spinge a guardare la questione da un punto di vista sistemico più che di endemismo locale.

    “Poi ci sono le peculiarità dell’Italia. La VQR ha dei sonori difetti, ma oltre che dei difetti, ha anche evidenziato delle criticità.”
    -Ecco io qui cambierei la frase in:”Poi ci sono le peculiarità dell’Italia. La VQR.”
    Non si è mai visto in ambito scientifico un metodo più farlocco della VQR dell’Anvur e non si sono mai visti tanti presunti scienziati credere che una serie di numerini magici possano essere utili a capire quali settori scientifici lavorino e quali no. Pensa che c’e gente che ha proposto di dare le stanze nei dipartimenti in base alla VQR, davvero!!!
    Al massimo si può ammettere che tale caffeomanzia da stapazzo sia utile a chi ha la governance delle strutture per stilare una classifica pseudooggettiva dei bbbbuoni e dei kkkkattivi, in modo da avere una pseudogiustificazione quando si deve realizzare la distribuzione delle risorse (diseguale e arbitraria in base al meccanismo individuato nel mio precedente commento).
    Il tutto alimentato anche da un aspetto importante: il dominio culturale di una NON-scienza come l’Economia, da sempre scienza sociale ma da relativamente poco autoproclamatasi “scienza dura” al gran consiglio del re, grazie alla profonda ignoranza (o furbizia a seconda dei casi) di chi pensa che aggiungere dei numeri più o meno a caso dia un valore intriseco superiore agli argomenti.

    “Alcune grandi istituzioni sono risultate avere performance VQR inferiori a istituzioni meno blasonate in settori per i quali sono note. In primis la VQR ha il difetto che strutture più piccole possono spuntare voti maggiori di quelle più grandi (tra le altre problematiche). Sinceramente però io avrei analizzato l’andamento dei dipartimenti di riferimento della grande istituzione, magari scoprendo che in uno dei dipartimenti gli outlier se ne vanno e ci sono diverse discontinuità (forti interruzioni della produzione) nei CV da almeno 15 anni, oltre ad una concentrazione di risorse su aree dove la produzione scientifica arriva ad essere a 4/5 mani (strutturate). Le istituzioni non erano note per la bontà del Dipartimento, ma per l’eccellenza di alcuni ed è evidente un malgoverno Dipartimento (è semplice individuare la causa guardando alle figure apicalj e relativi concorsi)”

    Appunto, Guido. Questo ragionamento è completamente senza senso perché presuppone che i dati VQR siano capaci di evidenziare differenze di produzione tra i bbbuoni e kkkattivi. Quello che fa la VQR è semplicemente evidenziare le differenze in risorse ECONOMICHE preesistenti tra le strutture, non di bravura (sfido chiunque a parametrare la bravura in modo oggettivo); quindi fa una classifica che grossolanamente nel migliore dei casi è fortemente biased sulla differente potenza economica delle strutture confrontate. E va bene così per molti: basterebbe considerare il value for money delle strutture per vedere davvero chi produce in modo efficiente e chi sperpera denaro pubblico.

    Resta di fondo l’enorme differenza di scopo che la valutazione stile VQR può avere. Secondo me, invece di essere usata come è usata ora per aumentare le disuguaglianze, far morire settori scientifici e/o strutture, ipertrofizzare altri/e in modo del tutto arbitrario, potrebbe essere utile per migliorare la qualità media delle strutture, fondamentale per la diffusione della conoscenza e del pensiero critico, a loro volta basilari per lo sviluppo armonico della società.

    Poi mi sveglio e capisco:
    https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/01/07/ricchezza-e-disuguaglianza-il-patrimonio-dei-500-paperoni-mondiali-nel-2019-e-salito-del-25-e-tra-gli-ultraricchi-solo-il-13-e-under-50/5648026/

    Cordialmente

    • Caro Salvatore,
      come sostengono in diversi e diceva ai suoi Marchionne, per poter operare si deve controllare, per controllare misurare.
      In questa ottica la VQR NON può essere utilizzata per valutare i buoni o i cattivi per un semplice motivo, non è nemmeno una misura. Manca, infatti, della caratteristica principale: la replicabilità. Un qualunque metodo di misura deve rendere la misura stessa replicabile per poterne controllare i risultati. Le misure devono servire ad elabortare strategie fatte dai docenti, non formulette e tabelline.

      Nel 1300, quasi 1400, come diceva un grande comico, un economista oramai quasi dimenticato in Italia, tal Bernardino da Siena, diceva che le 4 virtù di un imprenditore (ma vale anche per un qualsiasi manager) fossero efficienza, efficacia, valutazione del rischio e assunzione delle responsabilità. Non vedo le ultime due molto presenti, nell’accademia italiana
      In Italia sono decenni che l’intelligentia universitartia si nasconde dietro il dito delle leggi e dell’impossibilità di valutare e non si assume la responsabilità delle proprie azioni anche grazie all’esistenza di commissioni, concorsi, valutazione comparative e non. Non esistono né le misure perfette, né tantomeno gli algoritmi di valutazione.
      Esistono però gli indicatori che, se resi replicabili e disponibili alla comunità, possono aiutare i professori ad elaborare una serie di azioni fattive, con tempi, risorse ed obiettivi quantificabili. I professori, non gli algoritmi.

      Le misure, inoltre, possono aiutare a valutare e a tenere sotto controllo l’operato di chi si pone a capo delle strutture prima che i danni siano irreversibili. Con il nostro sistema della non assunzione della responsabilità la persona risponderà che ad essere cattivo è chi lo misura. Oppure troverà un nemico, identificabile con una persona, da colpire perché male assoluto andando di ufficio in ufficio (così non ci sono prove). Ma poi ne servirà un’altra, di persona, per continuare a mostrare i muscoli, in una sorta di guerra santa. Ti garantisco che lo dico per averlo visto e vissuto in prima persona.

      Dopodiché ogni sistema ha le sue storture. Se ad esempio si vogliono vedere quelle della UK, basta leggere ad esempio Solar, di McEvan (tra l’altro divertente, nella sua visione cinica di una certa ricerca).

      Per il resto ringrazio tutti per gli spunti, perché era tanto tempo che non parlavo in maniera così coswtruttiva con dei miei colleghi. E’ bello veder emergere tante visioni, derivanti dalle diverse estrazioni culturali e sono certo che, se lo si fosse fatto anni fa, con un minimo di autocritica e tanto coinviolgimento di tutte le voci, ora non avremmo VQR e ANVUR, perché non avremmo avuto bisogno di farci commisariare per le cavolate fatte nel passato.

    • @ Guido
      “In questa ottica la VQR NON può essere utilizzata per valutare i buoni o i cattivi per un semplice motivo, non è nemmeno una misura.”
      Forse non è chiaro: è stato fatto proprio questo.

      “Nel 1300, quasi 1400, come diceva un grande comico, un economista oramai quasi dimenticato in Italia, tal Bernardino da Siena, diceva che le 4 virtù di un imprenditore…”
      A Frittole non si viveva tanto bene perché qualcuno, tal Giuliano Del Capecchio, aveva l’esclusività del controllo per operare a proprio piacimento sulla vita degli altri; basta chiedere a Vitellozzo.
      Fino a pochi anni fa ne facevamo un vanto, l’istituzione di pesi e contrappesi tra le diverse parti dello Stato e della società ognuna con le sue prerogative, limitazioni e visione.
      “le 4 virtù di un imprenditore…”
      Sono assenti in accademia perché non ci sono né imprenditori né manager. Se in accademia si producessero profilattici o automobili sarei d’accordo sulla frase. Ma il ruolo sociale dell’accademia, sebbene sia comune credere sia un altro, non è quello.
      Tra l’altro le 4 virtù “teologali” dell’imprenditore non le si vede molto presenti neanche tra chi appartiene alla categoria imprenditoriale, viste le notizie di cronaca, visto l’attuale stato di parte dell’economia occidentale (per dettagli vedi commenti precedenti) e dell’ecologia mondiale.

      “Le misure, inoltre, possono aiutare a valutare e a tenere sotto controllo l’operato di chi si pone a capo delle strutture…”
      Mi pare che stai continuando a considerare i comportamenti degli individui, appartenenti a TUTTI i settori sociali, un problema esclusivo (o quasi) dell’accademia (in particolare italiana). Penso di aver già evidenziato la carenza di base di questo modo di ragionare.
      Comunque, questo è un punto molto delicato da trattare perché si tratta di andare ad agire sul ruolo sociale che si vuole dare all’accademia. La trasformazione in imprenditori degli accademici, tanto auspicata da molti e contenuta palesemente nel tuo scritto, porta infatti anche ad un cambiamento dei ruoli e degli obiettivi dell’accademia ed anche ad un ripensamento della sua indipendenza rispetto agli altri corpi dello Stato.
      È meglio un’accademia sotto il controllo del governo, nella quale “l’arbitrarietà baronale” non sarà tollerata (davvero???) sarà annientata (o meglio implementata nell’arbitrarietà di sistema? Sappiamo tutti che in queste condizioni -fluide- chi ha il controllo da il POTERE) o è meglio un’accademia indipendente (davvero) dal governo di turno (attenzione: indipendente non dalla assunzione di responsabilità nei confronti della società) nella quale l’indipendenza,da una parte consistente degli appartenenti alla categoria, purtroppo si è trasformata negli anni in una diffusa “arbitrarietà baronale” ?
      Io non ho una risposta certa e ferma, ma penso che ognuno dei corpi sociali abbia un ruolo determinato ed è fondamentale che non vi siano sovrapposizioni, per permettere come già detto lo sviluppo armonico della società.

      Tuttavia, dopo 10 anni di riforma -a costo zero- dell’università in senso neoliberista, penso che si possa tranquillamente affermare che i maiali orwelliani, FUORI e DENTRO l’accademia, sono stati i primi ad adattarsi alla nuova narrazione imprenditoriale per acquisire (entrando in accademia) o conservare (quelli che già c’erano), a dispetto delle anime belle, “l’arbitrarietà baronale”.
      In questo giochetto chi ci perde sostanzialmente (e qui le statistiche sono molto d’aiuto) è soltanto la platea di riferimento dell’università: i giovani studenti.
      Finché funzionerà il giochetto di farli sentire tutti come tanti Steve Jobs, tutto ok, gli si potrà fornire -competenze- sufficienti per far in modo che la maggior parte di loro abbia lavori precari dentro una vita precaria. Una piccola parte, ovviamente selezionata secondo i migliori standard meritocratici, potrà accedere alle stanze di potere; magari possiamo applicare il metodo francese, basato sul classismo più estremo delle grandi ecoles, per selezionare la classe dirigente dall’infanzia.
      Se per caso dovessero capire di essere i topolini nella ruota prima di avere interiorizzato completamente la mentalità dello schiavo, allora…

      “ora non avremmo VQR e ANVUR”
      Non temere, ora abbiamo anche l’ANR, a diretta nomina governativa. Cosa vuoi di più dalla vita?

      “non avremmo avuto bisogno di farci commisariare per le cavolate fatte nel passato.”
      Avere piena consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti della società, porta a non sentire il bisogno di commissariamenti dall’esterno e ad agire dentro la comunità di riferimento per incrementare la diffusione di comportamenti professionalmente etici.
      A maggior ragione se la balia esterna non ha uno spessore etico più elevato.

      La tua risposta a mariam sembra molto ragionevole. Il tuo amico dell’ultimo capoverso ha purtroppo ragione in pieno, sic. E sarebbe questo il lavoro per cui vengo pagato con fondi pubblici?
      Passare tutto il tempo a trovare, scrivere, inviare progetti che -indipendentemente dalla qualità del progetto- hanno il 2-5% di possibilità di essere finanziati? Non è spreco di denaro pubblico questo?

      Cordialmente

  8. Conclusioni? Lavorare, esercitare pensiero critico, non cedere a generalizzazioni. Per quel che so e ho visto: non credere all’esistenza di utopiche terre negli altri paesi. Tuttavia, se ci uniamo, non è detto che non sia possibile rendere i nostri ambienti migliori e più giusti.

    • Cara Mariam, non credo che fuori sia tutto rosa e fiori. A suo tempo sono andato in Canada con un visto di lavoro e non pensavo di tornare perché non pensavo avrebbero aperto una posizione. Lavoro molto anche con la Francia e collaboro con alcuni colleghi norvegesi per alcui progetti del loro ministero dei trasporti. Ogni sistema ha pregi e difetti. Quiello che mi fa rabbia dell’Italia, però, è un malcostume che permette ad alcuni di fare i professionisti con stipendio pagato dai cittadini o di amministrare strutture pubbliche, pagate con fondi pubblici, senza assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

      Per il resto esistono casi di buona amministrazione in Italia e pessima all’estero. Per dare un esempio di buona amministrazione e di come si possa lavorare insieme e fare qualcosa di buono, posso dire che da me sia il passato rettore, sia l’attuale, portano avanti misure perequative tra docenti. Una delle prime è stata quella di dare un seed grant a tutti gli RTDa e RTDb, per permettere loro di avere un minimo di autonomia.

      Una seconda opportunità è data dal finanziamento diffuso, una somma di danaro in fondi data a tutti gli strutturati. Fondi che però possono essere spesi solo in alcune voci (legate alla ricerca). All’inizio non ero molto d’accordo con quest’ultima azione, perché i fondi ero abituato a trovarmeli, ma poi,in effetti, mi sono accorto che alcuni colleghi in effetti con quei fondi hanno ricominciato a fare ricerca. Altri poco producevano e poco producono, ma gli è più complicato dire “non faccio ricerca perché non ho fondi”. E’ ovvio che queste sono azioni che si fanno se hai i soldi, ma i soldi arrivano grazie al lavoro di tutti che si spendono a trovare progetti, cosa che porta via una marea di tempo in azioni che poco hanno a che fare con il motivo per il quale siamo rimasti in Università.

      Come mi diceva un mio amico (non italiano), goditi il post-doc, perche quando sarai professore passerai il tuo tempo a cercare fondi per pagare lo stipendio a chi fa la ricerca perché tu non ne hai più il tempo perché devi cercare fondi. Un po’ triste, ma vero.

  9. Mi rivolgo a tutti quelli che leggono ROARS: gennaio è passato e non vi è stato nessuna presa di posizione da parte del personale docente delle Università. La profezia facile si è avverata: è difficile ottenere qualcosa perché i nostri gruppi sono divisi, perché ognuno preme per ottenere soddisfazione per sé, ma non miglioramenti per tutto il settore.
    Personalmente ritengo che l’allentamento della tensione all’interno delle facoltà sia possibile solo annullando la conduzione verticistica che ha di fatto tarpato ogni libertà, persino quella di insegnamento, che ha tirannicamente imposto politiche gestionali, riordinato gli organici, indebolito discipline. La messa in discussione del sistema del reclutamento e della progressione carriera è ineludibile: l’attuale sistema ci sta condannando alla mediocrità, alla miseria umana, alla prevaricazione, con costi anche sul piano delle nostre esistenze.
    So che è difficile denunciare (io stessa ricorro ad un nome ben diverso dal mio), ma vorrei incoraggiare tutti quelli che non sono contenti a farlo, con i mezzi che ritengono possano non esporli, ma per far conoscere. Il male che è dentro l’Univ. si sta riversando sui nostri studenti: stiamo loro insegnando la legge del più forte, ad essere opportunisti, cattivi con chi è minoranza, adulatori con i potenti. Ancorati nel loro presente di perfidia ed arroganza, non pensano certo al futuro dei giovani.

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