Tre grandi bugie stanno uccidendo la nostra università. Molti professori lo sanno e, pur continuando a testimoniare ogni giorno con il loro comportamento concreto che la verità è un’altra, tacciono perché si sono convinti che non c’è più nulla da fare. È arrivato il momento di dire basta. Non possiamo sfigurare la responsabilità in rassegnazione e legittimare l’idea che non solo così fanno ma così pensano tutti. Almeno i migliori e più produttivi, posto che la loro voce – secondo il mantra di tutti gli ultimi governi – è la sola degna di essere ascoltata.

Sono così costretto a precisare, prima di proseguire, che la VQR ha assegnato alla mia università il secondo posto assoluto nel mio settore e che il mio “punteggio” è superiore a quello medio che ho contribuito a determinare. Dunque, almeno per gli indefessi zelatori del mainstream, delle due l’una: o la VQR non vale un granché come strumento per riconoscere i professori più bravi (come sono orientato a ritenere) o merito anch’io attenzione. La mia opinione è peraltro che questa attenzione è dovuta a tutti coloro che fanno con onestà il loro lavoro. La mia speranza è che tutti questi colleghi, quelli che dovrebbero essere davvero considerati “meritevoli”, trovino la passione, gli strumenti e la voce unita e forte che serve per dire che le bugie non le sopporteranno più e costringere il potere che decide e fa le leggi a cambiarle.

La prima bugia è quella che ha trasformato l’università italiana in un grande laboratorio di darwinismo sociale. Non si può non riconoscere che le norme varate in questi anni e l’applicazione che ne è stata data sono la reazione ad un esercizio a dir poco disinvolto dell’autonomia: alle università e ai professori non fa male la brutalità di qualche graduatoria. Si rischia però di scambiare il sacrosanto obiettivo di premiare la qualità e prosciugare gli stagni dell’inefficienza e dell’ozio in una guerra feroce di tutti contro tutti. Stiamo assistendo ad una mutazione antropologica del professore universitario, costretto a investire una parte sempre più consistente del suo tempo nella ricerca del modo più efficace per guadagnare risorse a spese di altri. L’aspetto più doloroso della polemica sulla assegnazione delle briciole di turn over disponibili per il 2013 non è l’ostinazione con la quale la ministra Carrozza ha rifiutato di correggere un provvedimento sbagliato. È il gelido silenzio dei rettori e della quasi totalità dei professori delle università del Nord. In campo sembra esserci una sola idea di università: la conoscenza avanza attraverso un processo di distruzione creativa che presuppone la lotta e nel quale la distruzione è certa, la creazione solo promessa e collaborare significa fondersi con il vicino perché la sopravvivenza è divenuta impossibile. La capacità di “fare sistema”, al contrario, è il presupposto della stessa qualità della ricerca e il governo di un paese come l’Italia non può limitarsi ad assistere alla desertificazione accademica e intellettuale di intere aree del suo territorio. Chi ha questa idea dell’università e si nasconde, lamentandosi solo intorno ai tavoli delle cene con gli amici, non è più una vittima. È un complice.

La seconda bugia è il mito dell’università senza didattica. La qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento è una priorità cruciale dell’agenda del cambiamento, perché da essa dipende la formazione di quei laureati «capaci di pensiero critico, creativi e flessibili che daranno forma al nostro futuro». Non lo dice un pericoloso sovversivo. Lo dice la Commissaria per l’educazione e la cultura dell’Unione Europea, presentando il Rapporto del giugno di quest’anno nel quale un gruppo di esperti ha ribadito la continuità fra questo imperativo e quello di «una ricerca che critica, perfeziona, scarta». Il riconoscimento del ruolo irrinunciabile della didattica, naturalmente, non manca mai nella retorica pubblica e in particolare in quella ministeriale. La realtà è quella di una serie di interventi che hanno orientato l’intero sistema degli incentivi in un’unica direzione, rinviando ad un futuro indeterminato provvedimenti premiali per i buoni “docenti” oltre che per i brillanti “ricercatori”. Siamo arrivati al paradosso che l’unico merito preso in considerazione per l’abilitazione degli aspiranti professori universitari è quello dei secondi, mentre l’attitudine ad insegnare, a formare i giovani capaci di pensiero critico, creativi e flessibili di cui abbiamo bisogno è considerata del tutto irrilevante. Con una pericolosa aggravante in agguato per i medici e soprattutto per i loro pazienti: quanto conta, a questo punto, la qualità dell’assistenza prestata nei policlinici? Coloro che resistono a questo riduzionismo suicida delle responsabilità dell’università pagano e pagheranno un prezzo crescente, appunto perché “perdono” il loro tempo in attività che non producono l’unico merito che l’istituzione riconosce: pubblicazioni, brevetti, contratti. Si possono studiare e sperimentare forme di differenziazione fra gli atenei e nell’impegno dei singoli docenti. Un’università dove non si insegna, tuttavia, non è più un’università e un’università dove si insegna male è una cattiva università, anche se “nasconde” nei suoi laboratori e nelle sue biblioteche aspiranti premi Nobel che i giovani non incontreranno mai.

La terza bugia coincide con l’illusione di curare i mali dell’università e, diciamolo con franchezza, di colpire i comportamenti deplorevoli di alcuni professori con una burocrazia asfissiante, che lascia indisturbati i potenziali malfattori e rende semplicemente impossibile il lavoro di tutti gli altri. Le nuove procedure per il reclutamento hanno imposto ad alcune commissioni di abilitazione di giudicare in pochi mesi centinaia di migliaia di pagine, in comodo formato PDF. Solo gli ingenui potevano immaginare che i tempi sarebbero stati rispettati. Solo gli ipocriti possono sostenere che prima del giudizio ci sia stata la lettura. E vedremo se il risultato finale di questa lunghissima e faticosissima procedura, una volta che le singole università avranno assegnato i (pochi) posti disponibili, sarà davvero un miglioramento dell’immagine pubblica dei professori e dei loro concorsi. Nel frattempo, i martiri di AVA, SUA e di grovigli normativi sempre nuovi e sempre più disperanti hanno cercato invano negli interminabili moduli del loro calvario la soluzione concreta ai problemi quotidiani di chi nell’università vive e insegna, a partire dalla insostenibilità prima di tutto etica di un sistema che si regge sul volontariato diffuso di molte persone e di molti giovani che sono il vero «requisito necessario» di tanti corsi di laurea. I controlli sono una garanzia a tutela degli onesti. Ma sono proprio loro a pagare il conto di questa ipertrofia parossistica della modulistica.

Le bugie più insidiose sono quelle che vengono nascoste dietro l’omaggio delle labbra. E questo è il nostro caso. La vera resistenza, mentre si va in aula a fare lezione e si continua a stare nei laboratori, partecipare a congressi e scrivere libri e papers, si fa oggi su questioni molto concrete. Provo a elencarne, come esempi illustrativi e non marginali, due per ciascuna bugia.

  1. Gli incentivi premiali devono essere sempre assegnati con risorse realmente aggiuntive e comunque non essere mai tali da mettere di fatto “fuori gara” chi si trova agli ultimi posti. Il Decreto Ministeriale sull’assegnazione dei punti organico per il 20 per cento del turn over per il 2013 è l’esempio di ciò che non dovrebbe mai essere fatto.
  2. La “razionalizzazione” del sistema è un esercizio di responsabilità politica e non il risultato di una guerra. Un governo può e qualche volta deve tentare con ogni mezzo di “imporre” la qualità alle università che finora non sono riuscite a garantirla, perché può e deve salvaguardare sul territorio alcuni fondamentali presidi di sviluppo della conoscenza e trasmissione del sapere. Questo impegno non va confuso con la difesa del diritto di ogni campanile ad avere la sua università e con l’equivoco per il quale tutte le università sono uguali.
  3. Devono essere definiti finalmente, in modo chiaro e inequivocabile, gli obblighi didattici di tutti i professori universitari, unitamente a credibili meccanismi di controllo. Non appare irragionevole pretendere il rispetto di una soglia minima di ore di didattica frontale, a prescindere dai risultati nell’attività di ricerca. Gli incentivi premiali distribuiti alle e dalle università devono obbligatoriamente prevedere entrambe le voci, assegnando alla didattica non meno del 40 per cento. È vero che valutare la didattica non è facile. L’esperienza della VQR ha dimostrato però quanto incerti siano i risultati anche della valutazione della ricerca. Se si accetta questa incertezza per la seconda, non c’è motivo di rifiutarla per la prima.
  4. Le risorse del turn over, nel quadro di una programmazione attenta alla specificità e alle esigenze dei singoli corsi di laurea, devono essere assegnate in misura non inferiore al 70 per cento alla copertura degli insegnamenti che sono garantiti da forme di volontariato sostanzialmente o letteralmente gratuito o dai ricercatori, il cui impegno didattico non deve eccedere il limite del 60 per cento di quello fissato per i docenti di prima e seconda fascia, a meno che non venga riconosciuto un incremento non simbolico della retribuzione. Fermo restando che questi insegnamenti devono essere attivati o mantenuti solo quando sono indispensabili per garantire i requisiti necessari dell’offerta formativa.
  5. Deve essere fissata e garantita una soglia di abbattimento degli oneri burocratici connessi all’attività didattica e di ricerca in misura non inferiore al 50 per cento. Si può partire, per raggiungere questo risultato, dal numero delle voci e da quello delle parole previsti nei diversi moduli di valutazione, richiesta di fondi, autorizzazione e controllo di spesa, nonché dal numero dei pareri richiesti per arrivare all’assunzione di una decisione da parte dell’organismo competente.
  6. Le liste degli abilitati a livello nazionale non possono creare situazioni di marcata asimmetria fra le diverse classi concorsuali e/o settori scientifico-disciplinari dal punto di vista del rapporto percentuale con i docenti in servizio e con i candidati “sopra soglia”, con le conseguenti ricadute sulle concrete possibilità di “chiamata”. Se questo dovesse essere il risultato della prima tornata, diventerebbe inevitabile l’introduzione di parametri o di un tetto uguali per tutti. In ogni caso, i problemi dei concorsi universitari non si superano complicando inutilmente le regole, ma costringendo le persone a “metterci la faccia”. Le procedure di chiamata devono limitarsi all’obbligo di una lezione e di una discussione pubbliche, alla presenza dei docenti e degli studenti del Dipartimento che effettua la chiamata.

La lista dovrebbe essere naturalmente molto più lunga, articolata e dettagliata nei passaggi operativi. Ma è sufficiente per capire come ci si colloca e accettare la vera sfida che l’università che resiste ha oggi il dovere di proporre prima di tutto alla politica. A coloro che in parlamento saranno disponibili a sostenerla, soprattutto nel momento in cui sarà discusso il disegno di legge delega che il governo si appresta a presentare e che diventerà inevitabilmente il banco di prova delle “buone intenzioni” di tutti. La bugia più grande, che genera tutte le altre, è quella di chi, mentre sostiene che non si può volere il merito senza volere la guerra e che i più bravi non devono perdere tempo ad insegnare, ha trasformato le università in altrettanti uffici di polizia occupati a contare i moduli e le parole che contengono anziché a stanare le rendite di posizione dei fannulloni irrecuperabili (ne conosco pochi) e soprattutto a ricreare le condizioni nelle quali tutti si sentano stimolati e responsabilizzati a fare bene. Perché è così che si moltiplicano anche le occasioni per distribuire premi.

Resistere nella convinzione che un diverso e più inclusivo impegno per il merito è possibile non significa difendere nepotismi, inefficienze e avanzamenti di carriera per anzianità. Significa – questo sì – scegliere la strada più difficile. Ma è proprio per questo che ne vale la pena.

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50 Commenti

  1. Possiamo discutere su come e quanto impegnare il tempo nella didattica, ma resto dell’opinione che nelle UNIVERSITA’ didattica e ricerca debbano essere impegni di tutti.
    Per fare solo didattica ci sono già i licei e le scuole di specializzazione, per fare solo ricerca ci sono già i centri di ricerca. Altrimenti, cosa mai distinguerebbe l’università da quelle altre istituzioni?
    D’accordo che c’è chi fa tutto e chi fa nulla, ma forse pretendere un minimo di didattica non potrebbe contribuire a contenere le sperequazioni?
    Forse bisogna distinguere tra scienze per cui il sapere è cumulativo e consolidato, che hanno una “didattica di servizio” più di routine (il corso di “analisi matematica1” probabilmente si insegna così, identico a se stesso, da diversi decenni) e scienze invece meno cumulative, dove anche (e forse soprattutto) i corsi di base possono essere fatti “bene” o “male” o “molto male” a seconda delle competenze effettive del docente e della sua capacità/passione per l’insegnamento.
    Insegnare fisica1 o insegnare etica1 probabilmente, dunque, implica competenze didattiche diverse, e quel che Semplici sta dicendo (se mi posso permettere l’esegesi) è che i migliori produttori di sapere di “etica” dovrebbero sentirsi maggiormente responsabili anche della formazione primaria, che invece in alcuni casi viene considerata “routine” e delegata al “servitore” di turno.
    Partecipando allo stesso tipo di discipline indisciplinate, resto dell’opinione che i più bravi (nella ricerca) dovrebbero mettere il loro sapere a disposizione di tutti, anche (e soprattutto) delle matricole, per dare loro un’impronta fin dall’inizio. Sperare che ti arrivino “formati” al dottorato dopo che li hai lasciato in pasto ai meno competenti mi pare contraddittorio (ripeto, per discipline come la mia, antropologia culturale, per cui ci sono mille modi diversi di insegnare gli “elementi base”).

    • Sono perfettamente d’accordo sul fatto che i corsi introduttivi sono importantissimi e non devono essere considerati penose incombenze per gli ultimi arrivati. Amo citare il caso della Terminologia filosofica di Theodor W. Adorno: si tratta della sbobinatura di un corso introduttivo destinato a chi non aveva mai sentito parlare di filosofia in vita sua, un corso che evidentemente il grande Adorno non considerava umiliante tenere (e il risultato è all’altezza dell’autore: fortunato chi è stato introdotto alla filosofia in quel modo!).

      Il problema semmai è che i primi corsi devono sempre più introdurre, oltre che alla materia specifica, anche al metodo di studio, a nozioni di cultura generale, all’ortografia e alla sintassi italiana, all’aritmetica (poco tempo fa una collega mi ha riferito che nessuno in aula era in grado di dire quanti fossero i trattati di Plotino perché nessuno apparentemente sapeva quanto faceva 6 per 9), tavolta alle tecniche di attenzione per seguire una lezione senza giocare con l’iPad, eccetera. Questi sono compiti meritori, ma che certo erano completamente fuori dall’orizzonte di Adorno. Parlare di didattica nell’Università dovrebbe significare anche affrontare questi problemi in maniera trasparente, altrimenti rischiamo che l’insegnamento venga sempre più considerato un compito pesante ed estraneo alle proprie competenze.

  2. Non si può, innanzitutto, non condividere il significato complessivo del testo di Stefano Semplici: è un segnale importante che si aggiunge a quelli, non molti in verità, finora manifestati con chiarezza contro il modello di darwinismo sociale e di psicologia pavloviana che ha assunto la pur pienamente legittima questione della valutazione dell’attività didattica e di ricerca nell’Università italiana. Bisognerebbe distinguere, fra l’altro, il problema dei doveri da quello della qualità.
    Fornire strumenti per verificare l’effettivo compimento dei doveri e, al tempo stesso, valutare la qualità dei doveri – didattica e ricerca – obbligatoriamente assolti. L’eccellenza, là dove c’è, emerge da sola: non si può obbligare nessuno ad essere eccellente, mentre si può obbligare chiunque a compiere il proprio dovere fino in fondo e, subito dopo, a valutarne la qualità. Sui criteri per la valutazione della qualità, è necessario comprendere che ne vanno messi in campo molteplici e che, come qualcuno ha già scritto, essi vanno anche considerati “in progress” perché possono esservi molte differenze tra i criteri adottati rispetto agli “oggetti” valutati. Nell’Università, inoltre, viene formata la gran parte delle donne e degli uomini che svolgeranno professioni e parteciperanno alla vita della comunità: non saranno tutti ricercatori ma tutti dovranno avere conoscenze adeguate ai ruoli che assumeranno e sufficiente apertura critica per non essere ridotti a mere funzioni di un impersonale apparato tecno-sociale.

    • Credo che il quadro piuttosto desolante descritto dalle “Tre bugie” di cui parla Semplici sia veritiero. Lo è senz’altro per quanto concerne gli aspetti burocratici, che sono comuni anche alla scuola media superiore. Per quanto concerne la didattica e il tempo ad essa destinato, per quanto possa risultare difficile stabilire il cumulo di ore che dovrebbe essere idealmente ad essa dedicato da ogni docente, credo che, se la ricerca è un nutrimento importante per una didattica efficace, sia vero anche il contrario, e cioè che una ricerca che rinunci a integrarsi con l’azione didattica non sappia avvalersi di un suo fecondo strumento per divenire più efficace. Entrambe, poi, potrebbero in prospettiva conseguire risultati migliori se ci fosse una migliore e più articolata sinergia tra la didattica universitaria e quella in uso nelle scuole secondarie superiori, specialmente per quanto concerne il lavoro da fare sul metodo di studio.
      Gustavo Micheletti

  3. Credo sia difficile per chi opera nell’Università non essere d’accordo con lo spirito di quanto sottolineato da Stefano Semplici. Personalmente condivido anche gran parte dei dettagli e soprattutto l’urgenza alla quale si richiama: rompere il muro di silenzio grazie al quale stiamo colpevolmente lasciando passare una trasformazione radicale della natura stessa delle istituzioni universitarie.
    Lasciare che il meccanismo di stritolamento dell’Università pubblica in generale e di determinati Atenei più “deboli” in particolare (il “darwinismo sociale”, cui Semplici faceva riferimento) proceda senza che si levino voci numerose e consistenti significa non soltanto rendersi responsabili di una colpevole acquiescenza i cui effetti ricadranno su (relativamente) incolpevoli generazioni di giovani; significa anche rinunciare di fatto a quella che dovrebbe essere una caratteristica propria del docente: la consapevolezza critica dei processi dei quali si è parte e la volontà di contribuire democraticamente alla determinazione del loro corso. L’una e l’altra, mi sembra, vengono meno e/o ci sono negate.
    Un’esigenza forte che traspare dagli interventi di commento, vadano in un senso o in un altro, è la partecipazione a un dibattito pubblico, attraverso cui, anziché lasciare che sporadici (ma calibrati) interventi di plastica facciale mutino le fattezze dell’Università, discutere davvero di una “idea di Università”. Ebbene, nell’idea di Università che condivido, ad esempio, ricerca e didattica non possono in alcun modo andare scissi: la liceizzazione è forse anche il frutto di una logica che lascia ai meno propensi alla ricerca il compito di insegnare ai più giovani, quando invece è proprio quella della didattica di servizio la prima linea della formazione dei futuri laureati, sulla quale vorrei vedere impegnate anche le menti più brillanti e creative. Certo, un’ora di lezione per dottorandi richiede più impegno di un’ora per un primo anno di corso di laurea triennale; ma questo argomento non implica la sparizione dalle aule di alcuni; semmai, implica una più equa distribuzione degli oneri e degli onori.
    Ma non c’è solo il tema didattica/ricerca: nell’idea di Università che condivido, altro esempio, gli Atenei sono una sorta di presidi sul territorio; quelli che sorgono in aree più disagiate vanno rafforzati, non indeboliti.

  4. Dichiarandomi sostanzialmente d’accordo con l’appello lanciato da Stefano Semplici, vorrei permettermi di aggiungere: quale livello e modalità di partecipazione, nell’ambito di questa resistenza, per studenti e dottorandi? Non è un mistero che al “quarto stato” dell’accademia italiana siano spesso delegati oneri e doveri della docenza, e che troppo spesso questa traslazione di competenze risulti in un complicità fattuale con il modello di Università che qui si critica duramente. Perfettamente in linea con la necessità, espressa nell’ultimo commento da Francesco Aronadio, spero vivamente che la partecipazione a un dibattito veramente pubblico non escluda a priori le categorie di confine tra studenti e ricercatori. “Capacità di fare sistema”, a parer mio, significa anche questo.

  5. È difficile, lavorando all’Università e in una Facoltà che non ha il suo fulcro professionale e di interessi fuori dalla stessa, non essere sostanzialmente d’accordo con Stefano Semplici.
    Approfitto dell’occasione per parlare un po’ di una questione che sembra solo una delle tante che affaticano gli Atenei, ma che è da ritenere centrale per le sue implicazioni generali. Nell’appello Stefano Semplici menziona “i martiri di SUA e AVA”; ai tormenti di queste procedure, si possono aggiungere i grovigli dei “requisiti minimi” e di trovate similari e affini sui corsi di laurea. Io credo che molti operatori universitari, non necessariamente solo le persone più avvertite, si siano accorti che questa pseudoefficientista catasta di provvedimenti non è altro che un confuso arrabattarsi per evitare la sola cosa che avrebbe senso per un governo, ovvero assumersi una responsabilità politica. L’unico provvedimento che abbia un senso è quello che richiede una percentuale di copertura con docenti in organico dei SSD caratterizzanti per poter tenere in piedi un corso di laurea. Il resto è costituito da miserabili trucchetti escogitati per non prendersi la responsabilità almeno di avviare una discussione su cosa sia opportuno e strategico che i diversi ambiti disciplinari e culturali nell’Università insegnino, quali siano le loro missioni formative in relazione all’esigenze del paese. Non si ha il coraggio (dobbiamo pensare nemmeno i presupposti culturali e politici) di discutere di qualità e indirizzi della formazione. Si preferisce invece escogitare meccanismi che lasciano prosperare o morire i corsi di laurea nei diversi atenei in maniera casuale, in conseguenza dei rapporti di forza che ivi si sono creati, spesso in ragione di un malthusianesimo cieco. E tutto questo magari agitando come un eidolon l’autonomia universitaria, che peraltro in cento altri casi i nostri governanti non si peritano di annichilire.
    Gli Atenei sono inondati da ukase e procedure di limitazione e valutazione dei corsi di laurea di cui gli sfortunati destinatari non cercano nemmeno più di capire la ragione e lo scopo, sempre che vi sia qualcosa da capire, ma, esausti, si limitano a reperire meccanicamente la maniera più rapida e indolore per esaudire. Di ciò il Moloch ministeriale ha precisa contezza, ma si placa con questi sacrifici: gli va bene l’ipocrisia, ciò che deve rimanere prioritario è di non essere costretto a far politica dell’istruzione.
    Altrettanto insopportabile della irresponsabilità politica dei nostri governanti è il comportamento dei Rettori, che fin qui, invece di difendere le loro istituzioni e i loro governati (in particolare i cirenei che in questi anni si sono occupati di “requisiti minimi/necessari” e di AVA-SUA) dall’aggressione normativa e regolamentare, si sono asserviti a questo andazzo del Ministero nella speranza che poi venisse loro lanciato qualche osso. Con la logica del “si salvi chi può”. Con la motivazione, spesso, che la presenza di un qualsivoglia sistema di valutazione e di controllo/limitazione sia preferibile all’assenza: una posizione tacciabile perlomeno di ideologismo e certamente aberrante rispetto alla logica della ricerca scientifica, della ricerca della soluzione adeguata, che dovrebbe governare l’ Università in tutte le sue manifestazioni, non solo quelle strettamente legate alla ricerca.
    Io mi domando cosa abbia finora trattenuto i Presidenti e Coordinatori di Corso di Laurea dal rassegnare in massa le dimissioni. Dal dare un segno ai loro Rettori che la situazione non è più tollerabile, dai punti di vista funzionale, istituzionale e anche intellettuale. Un segno che porti i massimi responsabili degli Atenei a difendere le loro istituzioni e a lanciare un segnale al Ministero attraverso una forma di disobbedienza civile, una dichiarazione di ritorno alle basi: quella di garantire didattica e ricerca e allo stesso tempo di rifiutarsi di esaudire le richieste di controllo e valutazione del Ministero (AVA-SUA, “requisiti minimi/necessari” e affini e assimilabili, tranne il requisito della copertura dei SSD), almeno fino a che esse siano costituite da espedienti e non risultino conseguenza di un progetto articolato, discusso e condiviso, basato sulle necessità e priorità formative culturali e professionali del nostro paese.

  6. Gent.mo Dettori, la Sua analisi è ottima. Cosa ha trattenuto? Il conformismo più cieco, l’adeguarsi al potere e, con le solite e numerose eccezioni, una generazione di docenti-capi non all’altezza. Dove insegno io sono stati i miei colleghi, e non il ministero, ad affossare le posizioni più serie e dignitose con forme di mobbing indecente. Sbandierando tabelle e regolamenti hanno fatto fuori o messo all’angolo insegnamenti seri e formativi con il pretesto che attiravano pochi studenti. Promuovono megacorsi con didattica superficiale e di basso livello, rifiutando di trasmettere la cultura che pure ebbero la fortuna di ricevere dai loro maestri.

  7. Concordo pienamente con la descrizione di Stefano Semplici (darwinismo, elogio della ricerca e disinteresse per la didattica, senso di spaesamento di fronte al Moloch-SUA), ma soprattutto con la necessità di dire basta e di far sentire la propria voce di protesta, magari non solo per i corridoi dei Dipartimenti e nemmeno nei vari collegi dei Docenti.

  8. E’ evidente che tutti, nonostante qualche lieve differenza di enfasi, siamo inorriditi dalla deriva dell’Università, in cui crediamo e per cui spendiamo tutte le nostre energie.
    Concordo in particolare con le parole di Stefano Semplici e con quelle di Emanuele Dettori:
    1. la didattica non sembra contare, l’ANVUR non ha trovato modalità per valutarla, e rischia di essere irrilevante negli affannosi tentativi di distribuire equamente (nei casi migliori) i pochissimi punti organico che ci vengono assegnati.
    E’ vero che un qualche controllo dall’alto è benvenuto: si sono evitate, così, alcune storture e alcuni sprechi (un Ateneo per ogni campanile, come scrive Stefano). Ma i tagli lineari del turnover sono equivalenti a quelli che per eliminare la pletoricità di alcune strutture tagliano, per esempio, gli indispensabili posti in un pronto soccorso. Che non bastino cinque pensionamenti in una disciplina per avere un posto di ricercatore rischia di rovinare qualsiasi cattedra e qualsiasi buona intenzione di fare il proprio lavoro, ricerca o didattica che sia.
    2. AVA, SUA eccetera: anche in questo caso penso che una qualche valutazione sia utile. Ma come può, l’ANVUR, pensare che nel novembre del 2013 si siano già prodotti miglioramenti rispetto alle valutazioni consegnate nel maggio dello stesso anno? Che senso ha chiederci di indicare gli elementi migliorabili, quando il problema principale è spesso – come nel CdL a cui appartengo – che il turnover lascia un manipolo di docenti seri e impegnati a combattere disperatamente per offrire una didattica accettabile al migliaio di studenti che vi afferiscono, e nel frattempo (la notte, nei weekend) continuare a scrivere e studiare?
    E infine: come può la sinistra non rendersi conto che continuare a dedicare lo 0,9 del PIL (contro il 2, 3, o più di Paesi civili, non solo la Germania ma anche la Corea) non potrà farci uscire dalla stagnazione in cui ci troviamo?

    Daniela Guardamagna
    (Direttore del Dipartimento di Studi umanistici
    Università di Roma “Tor Vergata”)

  9. Pubblico di seguito, anonimamente, quanto ho scritto in forma privata al Prof. Semplici, a seguito di questo stesso post. Successivamente abbiamo, di comune accordo, deciso di renderlo pubblico.

    ***

    La ragione per cui Le scrivo è semplice: ringraziarla.

    Ho letto il post che recentemente (lunedì 18 se non sbaglio, a ogni modo solo oggi riesco a scriverLe) ha pubblicato su Roars. Su Roars la polemica sterile e isterica vince assai spesso. Ed è ciò che mi rende quel sito – a volte – insopportabile.

    Invece la sua lettera per l’università che resiste, l’ho trovata molto bella, molto intelligente, estremamente puntuale rispetto alla situazione odierna.
    La bellezza – che può sembrare una proprietà secondaria in un articolo in fondo di natura diagnostica e terapeutica – deriva non solo dalla prosa che, me lo conceda anche se poco c’entra in questa mail tale giudizio, mi è molto piaciuta; deriva soprattutto dal fatto che ha toccato corde emotive ulteriori. Anzitutto perché la sua diagnosi appassionata. L’ho trovata esemplare! Magari mi sbaglio, e Lei è molto bravo con le parole, però mi è parso che ci fosse, dietro a tutto quanto ha scritto, una ben chiara e ponderata coscienza della situazione universitaria italiana. Questo richiede tempo e studio; ma il tempo e lo studio lo richiede anche la stesura di un testo facilmente comprensibile ed efficace – ciò che lei ha fatto. Una diagnosi fatta per passione, perché – questo mi sembrava di poter ricavare dalla lettura – Lei crede nell’università e, soprattutto, intende impegnarsi in prima persona per risollevarne le sorti.
    L’intelligenza, perché non ha puntato il dito contro spauracchi ideologici, levando vessilli non meno ideologici, ma si è impegnato a elencare una serie di mali endemici o indotti sui quali è bene lavorare. Ha fornito insomma ragioni, ha argomentato, ecc. Niente di più filosofico, si dirà; però lo ha fatto senza trattare di filosofia ma di cose diversamente urgenti e tendenzialmente amministrative e comunque in un tempo in cui è raro, su queste cose (e su molte altre, anche filosofiche), incontrare argomentazioni e ragionamenti e prove ed esempi e concrete soluzioni a problemi.
    Estremamente puntuale: credo di non dovere dire nulla su questo, per quanto ho detto sopra e perché mi ha semplicemente convinto.

    Ma la ringrazio anche per la prognosi e per la cura. Altrettanto equilibrate ed appassionate. Ad esempio per la denuncia dell’istigazione ad accantonare la didattica, che non è solo fatta di ore di lezione, ma di insegnamento umano e di vera crescita. Questa almeno è stata la mia esperienza e posso quindi testimoniare che è illusorio credere che si possa puntare tutto sulle pubblicazioni (ammesso e non concesso che io sia un buon testimone). La ringrazio per la speranza che animava ogni sua parola. Non ho letto resa, ho letto oggettiva preoccupazione e oggettiva consapevolezza che la situazione è rimediabile.

    Ci tengo però a precisare che il punto principale sul quale sto battendo è uno: lei ha perso del tempo per l’università, per parlarne e rifletterci. Soprattutto lo ha fatto con lo sguardo rivolto al futuro. Questo mi ha fatto sentire la sua prossimità. La mano tesa a noi più giovani o ragazzini o meno giovani, che investiremmo sull’università (con o senza l’intenzione di lavorare nelle università) e vediamo invece lo sfacelo perpetrato a colpi di tagli e soluzioni amministrative raramente responsabilizzanti. La ringrazio perché ha voluto – intenzionalmente o meno – creare un’alleanza con noi, sentendosi responsabile per noi e per l’istituzione che rappresenta e desiderando rilanciarla al futuro. (Per altro, Lei ha dimostrato, mi sembra, che la classe docente non è solo piegata su se stessa, non ha solo buone parole per gli allievi e chi gravita attorno all’università, ma c’è chi intende spendersi per chi non ha privilegi, eventualmente anche mettendoci la faccia.)
    Responsabilità è l’ultima parola da lei usata su cui mi vorrei soffermare. Nei concorsi, nella formazione, nella didattica, nella produzione, a me sembra che a volte l’immensa macchina giuridico-amministrativa dell’università (e, a dirla tutta, italiana) si preoccupi di curare solo due aspetti della vita istituzionale: inibire le spese, deresponsabilizzare chi è responsabile, o comunque offrirgli molteplici vie di fuga. Anche per questo richiamo, ho trovato il suo post (o articolo) molto pertinente, stimolante e consonante (consolante?). Qualche anno fa Lei aveva fatto circolare un testo in cui, questa responsabilità, la metteva a disposizione degli studenti chiedendo – sostanzialmente – di essere giudicato. Già allora volevo scriverLe per ringraziarLa, perché era un atto “ridicolo”, privo di senso, “ingenuo”. Eppure, proprio per questo, (per me) dirompente, necessario – e se ha compiuto quel gesto non credo che abbia bisogno di una mia glossa in merito.
    Allora non le scrissi; questa seconda volta ho dovuto, anche se non ho potuto farlo lunedì stesso.

    La ringrazio insomma per le sue parole, per il suo tempo e per l’esempio che, almeno a me, ha dato. Per le sue ragioni e le sue passioni, che hanno così bene saputo arricchire le prime e tanto bene con esse convivere in una lettera che ha avuto il raro pregio d’essere, prima di tutto, un buon nutrimento.

    ***

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