La riforma Gelmini si è poggiata su una rappresentazione caricaturale dell’università italiana. La strada è stata spianata da una folta schiera di economisti: Roberto Perotti ci ha avvertito che “al di là della retorica, e con le solite dovute eccezioni che è sempre possibile citare, l’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale”, Michele Boldrin ci ha informato del “mediamente basso livello didattico e scientifico dell’università italiana”, Luigi Zingales ci ha ricordato che “nella classifica internazionale creata dall’università di Shanghai, … nel 2008 la prima italiana (Milano) si trova soltanto al 138esimo posto” ed ancora (ma non infine) Alberto Bisin e Alessandro de Nicola hanno risottolineato che “L’università continua a produrre anche se con alcuni distinguo, poca ricerca (Roberto Perotti docet).

L’incipit delle idee di Matteo Renzi sull’università ricalca queste visioni: “L’Italia, che in molti settori dell’industria e del commercio è ai vertici mondiali, non è ugualmente rappresentata ai vertici delle classifiche delle istituzioni universitarie e di ricerca.”

Vero o falso? Nel periodo 1996-2010, l’Italia è ottava al mondo come numero di pubblicazioni scientifiche e settima come numero di citazioni ricevute. Inoltreil buon livello degli atenei italiani in termini di citazioni è confermato anche dalla comparazione internazionale dei loro “impatti normalizzati” effettuata da SCImago … tutti gli atenei italiani tranne uno mostrano un impatto normalizzato superiore alla media mondiale”. E infatti, come ha messo in evidenza Marino Regini nel suo libro “Malata e denigrata: l’università italiana a confronto con l’Europa”, le classifiche degli atenei mostrano che vi sia un buon livello medio con una buona reputazione scientifica. I punti deboli, guarda caso, sono dovuti alle poche risorse: un basso rapporto docenti/studenti ed una scarsa internazionalizzazione di docenti/studenti. D’altra parte i dati Ocse, ci dicono che nell’alta tecnologia, sono innanzitutto le imprese a spendere troppo poco in ricerca e sviluppo e a impiegare un numero insufficiente di ricercatori.

Da una visione disinformata dell’università non possono che discendere ricette sbagliate e viziate da quella stessa ideologia che deforma la realtà. La ricetta di Renzi usa la stessa retorica del merito di gelminiana memoria; una formuletta semplice e buona per tutte le stagioni: competizione, merito ed eccellenza. Bisogna, infatti, “mettere a punto un sistema di valutazione delle università e sostenere quelle che producono le ricerche migliori. Anche in questo campo si devono introdurre meccanismi competitivi. … È un risultato che si può ottenere usando indicatori quantitativi sulla qualità della ricerca prodotta sul modello dell’Anvur e il parere di esperti internazionali autorevoli e fuori dai giochi. L’obiettivo è avere una comunità scientifica meno provinciale, che esporta idee e attrae talenti”.

Chiunque abbia minimamente seguito cosa sta combinando l’agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) non può che sorridere di fronte agli indicatori quantitativi sulla qualità della ricerca che sono disgraziatamente stati introdotti. Proprio qualche giorno fa il più importante settimanale internazionale d’informazione universitaria, il Times Higher Education, ha pubblicato una lunga analisi che sbeffeggia l’Anvur: prendendo spunto dalla vicenda delle “riviste pazze” (le riviste che l’Anvur ha catalogato come scientifiche, anche se non rispettavano i requisiti di scientificità), l’articolo ripercorre a fondo le discutibili scelte strategiche che hanno condotto, con la ricerca senza speranza di criteri indiscutibili, ad un vero disastro. Sarà inoltre interessante sapere quanti stranieri si sono cimentati nel presentare, immancabilmente in italiano, la domanda per l’abilitazione scientifica nazionale

Il pezzo forte del programma di Renzi riguarda però le tasse universitarie e i prestiti d’onore. Ricordiamoci che l’Italia: (1) ha solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni, (2) è solo 31-esima su 36 nazioni per quanto riguarda la spesa per educazione terziaria rapportata al PIL, (3) durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la spesa in formazione cresceva, solo l’Estonia ha ridotto le spese più dell’Italia; (4) la spesa cumulativa per studente è inferiore alla media OCSE e ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate; (5) che le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi Bassi e Portogallo e (6) il diritto allo studio si sta riducendo ad una presa in giro in un paese in cui il 20-30% degli aventi diritto non ottiene la borsa di studio. Inoltre secondo la Commissione Europea nel piano strategico denominato Europa 2020 i paesi UE sono chiamati a ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% nella popolazione di età compresa tra i 18 e i 24 anni e a conseguire una percentuale di laureati pari almeno al 40% nella fascia di età tra i 30-34 anni. Vista la situazione italiana sarebbe dunque necessario agevolare il diritto allo studio così che si raddoppi in meno di dieci anni il numero di laureati.

Come si fa? Renzi lo spiega così: “Agli atenei che vi sono interessati deve essere consentito di aumentare le tasse universitarie in funzione di progetti di eccellenza didattica, trovando al tempo stesso compensazioni per le famiglie con redditi medi o bassi. Agli studenti devono essere offerti prestiti per coprire integralmente i costi, prevedendo che la restituzione rateizzata – parziale o integrale – inizi solo quando essi avranno raggiunto un determinato livello di reddito… Consentire a tutti gli studenti universitari di finanziarsi gli studi e le tasse.”

Dunque, aumentare le tasse universitarie e concedere, per pagarsi gli studi, prestiti con “l’obbligo per le Università di stabilire accordi con almeno tre banche (di cui almeno una locale e almeno una nazionale) per i finanziamenti agli studi universitari, garantiti da un fondo pubblico di garanzia”: un’ideona che diventerà un incentivo memorabile non c’è che dire.

D’altronde sono vari anni che un folto gruppo di economisti, più meno gli stessi che sono piuttosto critici della ricerca italiana come ricordato sopra, agitando slogan del tipo “dare ai poveri un’università gratis ma di pessima qualità è una truffa”, continua ad insistere sulla necessità di liberalizzare le tasse universitarie. L’anno scorso è stata presentata una’interrogazione ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione (primo firmatario Pietro Ichino) che proponeva di sperimentare in Italia il modello Browne, contestato in Inghilterra all’unisono tanto dalla comunità accademica quanto dagli studenti, che alzava a 9.000 sterline (10.000 euro) la retta universitaria annua per studente, proponendo agli studenti meno abbienti di pagarne i costi avvalendosi di mutui bancari con interessi al 2,2/3%.

Questa proposta non consiste affatto nel far pagare l’università di più ai ricchi e di farla pagare di meno ai poveri. Quello che succederebbe è di escludere non solo i ceti meno abbienti, ma anche quelli medi, dall’istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale, introducendo inaccettabili disparità territoriali e condizionando anche la scelta del corso di studi. Se l’istruzione è un investimento all’accorto studente-investitore converrà optare per gli studi potenzialmente più remunerativi.

Insomma Renzi proponendo la continuità dell’Anvur continua sulla stessa vacua direttrice competizione-eccellenza della Gelmini senza curarsi della valanga di polemiche generate dall’Anvur e che sono state ben sintetizzate dal giudice della Corte Costituzionale Sebino Cassese: “l’Anvur ha ucciso la valutazione con la sua disattenzione dei limiti della valutazione e del contesto nel quale essa andava ad inserirla. Non sono stato completo nel dir ciò. Bisogna anche aggiungere che l’Anvur ha ucciso se stessa, consegnando il compito di dire l’ultima parola sulla valutazione ai giudici amministrativi.

Dall’altra parte fa un passo in più, spinto dai suoi spin doctors per cui ora e sempre “lo Stato è parassita il mercato crea ricchezza”: senza considerare il fatto che negli USA i prestiti per conseguire l’istruzione superiore stanno diventando la principale voce dell’indebitamento privato, che in Inghilterra vi è stato un crollo delle iscrizioni all’università dopo la riforma Browne, propone di aumentare le tasse universitarie introducendo un sistematico indebitamento degli studenti, a cui dovranno far ricorso soprattutto gli studenti delle classi meno abbienti: ma tanto la crisi economica è colpa dello Stato spendaccione e corrotto e non di una finanza incontrollata. Più che il nuovo che rottama il programma di Renzi sull’università è la saga delle idee obsolete da rottamare.

(Pubblicato su Micromega 20 novembre 2012)

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52 Commenti

  1. Le paginette di Sylos Labini, in un paese civile, avrebbero indotto Renzi a ritirarsi dalle primarie del pd e a candidarsi per un bel partito conservatore. E ci sono tanti giovani illusi che costui sia un riformista. Che disastro!

    • Deh, in un paese civile ci sarebbe la Stampa. E questa avrebbe evidenziato che le sue affermazioni, ma soprattutto i dati falsi di Perotti & co. su cui si fondano, sono scientificamente autorevoli quanto possono esserle predizioni sulla fine del mondo.
      Invece, la “grande stampa” e la TV che glo fa il verso, tengono bordone a codesti imbonitori da sagre paesane.
      Sigh!

  2. Quanto siete cattivi tutti quanti!
    Povero Renzi, non è cattivo, solo, vuole tanto essere moderno che deve pur pescare idee purchessiano tra gli “spin doctors” de noantri, tipo Ichino, Perotti, Giavazzi, ecc. Non è colpa di Renzi, lui è un recipiente ed un amplificatore, un piacione dalla battuta facile, ottimo per, come si dice, ‘intercettare voti’.

    La vera colpa è del livello ampiamente cialtronesco ed arretrato degli economisti-ideologues di casa nostra. Gente che scopriva Milton Friedman quando il mondo provava la flexsecurity. Gente che usa senza pudore nel dibattito pubblico un’idea di produttività che neanche mia nonna (produttività concepita come ‘effort’, capacità soggettiva di faticare), fingendo di ignorare, in perfetta malafede, che il concetto economico di produttività non dipende dalla quantità di prodotto fatto, ma dalla quantità di prodotto VENDUTO (che presuppone un mercato capace di assorbire il prodotto). Gente che non ha alcun pudore a dire, per il beneficio del dibattito pubblico, che più concorrenza eguale senza resti a più efficienza, fingendo di nuovo di ignorare infinite analisi su market failures, esternalità, beni difensivi, monopoli naturali, ecc..
    Povero Renzi, non prendetevela con lui, lui vuole solo disperatamente piacere. Dite al suo babbo, però, di fargli frequentare compagnie più raccomandabili…

  3. “Ricordiamoci che l’Italia: (1) ha solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni, (2) è solo 31-esima su 36 nazioni per quanto riguarda la spesa per educazione terziaria rapportata al PIL”
    ———-
    Questo non significa che l’investimento sull’educazione in Italia va a beneficio di una frazione ristretta della popolazione? Per esempio la Russia investe in educazione la stessa proporzione del suo PIL dell’Italia (grosso modo: 4.8%) pero’ a vantaggio del ~58% della sua popolazione che risulta laureata. Un’utilizzo molto piu’ efficiente delle risorse in termini di beneficio diffuso nel paese. Se si prendono i dati dalle tabelle OCSE linkate in quest’articolo, viene fuori che il sistema italiano e’ 30-esimo in classifica (60% della media OCSE) in questo senso (a me risultano peggiori solo Austria, Messico e Brasile, questi ultimi per motivi ovvii di crescita economica). A me questi dati sinceramente sorprendono ma mi pare che i numeri siano questi…

    Per quanto riguarda l’indebitamento degli studenti, esistono esperienze che a quanto ne so sono positive. In Australia le universita’ (pubbliche) mi pare costino varie migliaia di dollari e gli studenti contraggono debiti (HEPL) che ripagano solo se il loro futuro guadagno supera una soglia e che vengono prelevati come percentuale del reddito una volta inseriti nella forza lavoro. Eppure l’Australia ha accesso all’educazione terziaria molto diffuso (45% laureati contro i nostri 20% a fronte di un’investimento in termini di % PIL simile al nostro), una societa’ con una mobilita’ molto elevata e un sistema universitario che attrae studenti e docenti da tutto il mondo.

    PS- non conosco nei dettagli la proposta di Renzi, non ho avuto tempo di leggerla e non la sto difendendo. In compenso, quella di Bersani bastano 45 secondi per leggersela…

    • Per quanto riguarda l’efficienza, si può usare come indicatore il costo cumulativo medio per studente: si vede che l’Italia è sedicesima su 25 nazioni considerate e sta sotto la media OCSE (B1.3a, pag 230 di Education at a Glance 2012 http://www.oecd.org/edu/eag2012.htm2012; il dato della Russia è mancante). Se vogliamo fare un confronto Russia-Italia dobbiamo ricorrere alla spesa per studente (non cumulativa) che è un indicatore un po’ meno adatto ai confronti perché risente delle diverse durate dei corsi di studio (per una discussione si veda: https://www.roars.it/universita-cio-che-bisin-e-de-nicola-non-sanno-o-fingono-di-non-sapere/). Nella Table B1.1a (pag. 228 di Education at a Glance 2012 http://www.oecd.org/edu/eag2012.htm2012) sono riportate queste cifre (al netto della spesa universitaria per R&D):
      Russia: 7.368 USD
      Italia: 5.980 USD
      Solo se includiamo le spese R&D, l’Italia (9.562 USD) supera la Russia (7.749 USD) le cui spese in R&D universitaria sono minime, ma nella discussione che stiamo facendo sembra più corretto esaminare le cifre al netto di R&D.
      ________________________
      Per quanto riguarda i prestiti, a prima vista mi sembra che il sistema australiano sia abbastanza simile al nuovo sistema britannico. La discussione sarebbe lunga, ma di sicuro non c’è un largo consenso tra gli studenti inglesi sulla positività dell’esperienza:
      http://www.corriere.it/gallery/esteri/11-2012/londra/01/londra-studenti-piazza-contro-governo_85d7430a-33f2-11e2-a480-b74fe153b15c.shtml#1
      Più in generale, c’è un timore diffuso che la finanziarizzazione della spesa per l’istruzione universitaria favorisca un incremento del costo per la collettività e possa condurre a vere e proprie bolle finanziarie. Aveva destato senzazione un report di Moody’s che individuava nella futura (e apparentemente inevitabile) esplosione della bolla dei prestiti universitari una bomba di dimensioni non inferiori a quella dei mutui subprime:
      https://www.roars.it/indebitarsi-per-studiare-soluzione-o-problema/
      I prestiti sembrano favorire l’aumento dei costi (sia negli USA che in UK dove un numero inaspettatamente alto di atenei ha scelto di andare verso il tetto ammissibile delle tasse) causando indebitamenti crescenti e nelle fasi di crisi difficilmente ripagabili. Ne seguono problemi di insolvenza oppure aumento del debito pubblico, se lo stato fa da garante.

    • Il costo per studente si intende studente presente nel sistema o studente che prende la laurea (i link non mi funzionano)?
      ——————————————-
      Non sono un’economista ma paragonare il costo/studente da paese a paese mi pare strano: perfino il Big Mac costa una quantita’ diversa in ogni paese. Per curiosita’ ho calcolato quanti $ del PIL/pro capite vengono spesi in ogni paese per laureare l’1% della popolazione. Questo mi pare un indicatore utile perche’ mi dice quanti $ del reddito di ogni singolo cittadino vengono usati per l’educazione della popolazione, che si considera un bene comune. L’Italia appare 28-esima (84$ del PIL/pro capite viene speso per laureare l’1% della popolazione, negli UK si e’ a 44$ per lo stesso risultato). Si puo’argomentare che un $ negli UK vale di piu’ che in Italia. In questo caso i spuo’ guardare la frazione del PIL/pro capite che viene spesa e questi sono i dati che ho riportato prima, dove l’Italia esce 30-esima con il 2.4 per mille del PIL/pro capite usato per laureare ogni 1% della popolazione. Gli UK spendono solo l’1.26 per mille per ottenere lo stesso risultato.
      ————————————————
      Per quanto riguarda l’indebitamento studentesco, dell’Inghilterra ancora si sa poco dato che il nuovo corso e’ iniziato da troppo poco. Sarei sorpreso se gli studenti non protestassero un aumento delle tasse universitarie! Bisogna vedere se ci sono benefici nel lungo periodo e per questo e’ ancora molto troppo presto. Gli USA sono un caso diverso dato che non si ripaga il debito in maniera proporzionale al reddito post-lauream. E’ vero che in America si parla molto dell’aumento del costo dell’educazione (delle previsioni di Moody’s non so se fidarmi ultimamente…) e queato e’ senza dubbio un grosso problema che va affrontato ma per il momento tutti gli indicatori suggeriscono che il college rimane un investimento “sicuro” nel senso che l’aumento di reddito che consegue l’aver ricevuto il BA o BS ne compensa ampiamente il costo. Questo e’ ancora piu’ vero in tempi di crisi dove chi ha un’educazione terziaria trova lavoro e chi non ce l’ha non lo trova. Una domanda da porsi e’ se e’ meglio avere un titolo di studio che costa poco ma che comporta un’aumento di reddito modesto oppure pagare di piu’ e ottenere un titolo di studio che consente di aumentare notevolmente il proprio reddito per il resto della propria vita professionale.
      Comunque io avevo riportato l’esempio dell’Australia solo per mostrare che esiste almeno un caso dove un aumento del costo dell’educazione e l’introduzione di prestiti per gli studenti (per altro credo istituiti nella forma corrente da un goveno laburista, non da un massa di liberisti fascistoidi) ha prodotto un ottimo sistema universitario e certamente non ha generato gli scenari apocalittici previsti da Sylos Labini di esclusione dei “ceti meno abbienti, ma anche quelli medi, dall’istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale, introducendo inaccettabili disparità territoriali e condizionando anche la scelta del corso di studi.” Questa prova di esistenza dimostra che queste misure non sono da escludere a priori.

    • 1) La spesa studente è discussa qui

      2) In genere le tabelle OCSE a cui si fa riferimento (a partire dal costo studente) sono date in $ PPP (L’esempio più semplice di PPP è costituito dall’indice Big Mac)

      3) Il problema è chi ripaga il debito nel caso in cui non si ha un salario adeguato. Se è l’ateneo che deve restituirlo questo chiaramente introduce un condizionamento fortissimo non solo sulla scelta dei corsi di studio da parte degli studenti ma anche sull’offerta da parte degli atenei. Ne ho discusso qui e qui .

      4) La bolla dei prestiti è discussa qui e qui

    • 1) anche se il costo/studente e’ basso, non capisco perche’ ma rimane il fatto che la bassa percentuale dei laureati nella popolazione fa si’ che il costo dell’educazione (expenditure on educational institutions) incide sul PIL/pro capite in maniera piu’ elevata che negli altri paesi. A ma pare questo significhi che il cittadino italiano medio fa piu’ sforzo economico a far laureare i suoi concittadini che decidono di finire la loro educazione terziaria rispetto agli altri paesi OCSE.
      2) non potendo controbattere alle sue auto-citazioni sull’argomento dell’aumento delle tasse universitarie e indebitamento degli studenti e le loro catastrofiche conseguenze per motivi di spazio, voglio solo fare un’osservazione molto cinica. Come lei osserva, la spesa per l’universita’ e’ una frazione minima dell’indebitamento pubblico. E’ chiaro che levare o mettere piu’ soldi all’universita’ e’ una questione ideologica, non di far quadrare i conti del paese. Pensare che questo governo o un qualsiasi governo futuro prossimo (che sia Renzi, Bersani, Berlusconi IV o Alfano) aumenti l’investimento sull’universita’ e’ una pia illusione, se lei la vuole coltivare faccia pure. Mi auguro di sbagliarmi di grosso ma sinceramente data l’aria che tira non credo. Anche chi dichiara di voler investire (Bersani), lo fa in maniera cosi’ vaga che lo capiscono anche i muri che alla fine non se ne fara’ nulla perche’ la vacuita’ delle sue proposte tradisce uno scorso interesse per l’argomento. Quindi, realisticamente occorre armarsi per cercare di supplire alle risorse che fatalmente si eroderanno nel modo che danneggi gli studenti e il loro accesso allo studio il meno possibile. In quest’ambito l’esempio australiano mostra almeno una “existence proof” che si puo’ costruire un sistema universitario di qualita’, non discriminatorio, con tasse universitarie moderatamente elevate ($8000/anno non mi pare eccessivo) e un sistema di prestiti agli studenti che pare funzionare.

    • 1) ancora non ha capito come leggere i dati OCSE. la spesa cumulativa per studente è tra le più basse tra i paesi OCSE questo è il fatto. Il sistema universitario costa e il resto si spende per spese ordinarie e ricerca. Ed anche i questi settori si spende molto meno rispetto ai paesi OCSE,
      2) Come le ho detto, suggerendo di approfondire l’argomento, il problema è chi ripaga il debito in caso di inadempienza. L’esempio Australiano non è il riferimento né dell’interrogazione di Ichino né della proposta di Renzi. Si informi di cosa si tratta e per farlo deve approfondire un po’, per questo le ho dato qualche link

    • 1) Parliamo di cose diverse. La frazione di PIL/pro capite che si impiega per laureare ogni studente in Italia e’ fra le piu’ alte (un po’ meglio se si usano solo le “core educational expenditures” trovate qui https://www.roars.it/universita-cio-che-bisin-e-de-nicola-non-sanno-o-fingono-di-non-sapere/). Questo e’ un fatto pure mi pare.
      2) Lei deve essere capace di prevedere il tasso d’inadempienza nel lungo periodo per fare previsioni cosi’ fosche sull’accesso allo studio.

    • Se ho ben capito, l’indice considerato da Federico è la frazione [PIL pro capite]/[laureati per 100 abitanti]. Se è così, Federico sta (erroneamente) considerando come misura di efficienza il rapporto tra i seguenti due termini:
      1. Numeratore: % laureati sulla popolazione totale
      2. Denominatore: PIL diviso per la popolazione totale.
      Mi sembra di poter dire che il termine relativo alla popolazione (presente sia al numeratore che al denominatore) si semplifichi e pertanto ciò che sta considerando è il rapporto tra:
      1. Numeratore: numero laureati
      2. Denominatore: PIL.
      Da un lato è corretto affermare che il numero di laureati in Italia in rapporto al PIL è basso. Tuttavia, questo indicatore è un dato di output (normalizzato rispetto al PIL) che non dice nulla sull’efficienza del sistema universitario. Per avere una misura di efficienza bisogna confrontarlo con un dato di input, per esempio esaminando il seguente rapporto:
      1. Numeratore: numero laureati diviso PIL
      2. Denominatore: spesa per università diviso PIL.
      Il PIL si semplifica perché presente sia al numeratore che al denominatore e ci ritroviamo a valutare la spesa per singolo studente. Come già detto, le durate dei corsi di studio (e anche le percentuali di fuori corso che, in contrasto con le leggende che circolano in Italia, non sono un fenomeno solo italiano: https://www.roars.it/profumo-italia-unico-paese-con-i-fuoricorso-ma-e-vero/) differiscono da nazione a nazione. L’OCSE affronta esplicitamente il problema e per ottenere una misura di efficienza relativamente confrontabile utilizza la spesa cumulativa per studente. Come già detto altre volte, relativamente a questo indicatore l’Italia è sedicesima su 25 nazioni e sta sotto la media OCSE.


      L’uso di normalizzazioni acrobatiche non è nuovo da parte di chi, contro l’evidenza, cerca di mostrare che l’università italiana è sovrafinanziata. Un precedente riguardante la produttività scientifica è discusso in un mio post precedente:
      Quanta ricerca produce l’università italiana: risposta a Bisin
      https://www.roars.it/quanta-ricerca-produce-luniversita-italiana-risposta-a-bisin/

    • @ federico:
      “l’esempio australiano mostra almeno una “existence proof” che si puo’ costruire un sistema universitario di qualita’, non discriminatorio, con tasse universitarie moderatamente elevate ($8000/anno non mi pare eccessivo)”

      A lei non pare eccessivo? Questo è un interessante dato informativo circa i suoi redditi, ma per la maggior parte degli italiani significa l’impossibilità di mandare i figli all’università senza indebitarsi. Non mi interessa intortarmi in discussioni di fino su quanto poco o pochissimo investiamo in formazione. Se vuole negarlo, o non ha mai messo il naso fuori di Italia o parla solo per il gusto di provocare.
      Lei chiama tutti ad un senso di sano realismo: tanto – dice lei – soldi in più non ne cacceranno; tanto vale rassegnarsi a far pagare agli studenti tasse che li costringeranno ad indebitarsi. Ora, vede, se uno si indebita significativamente per studiare questo lascia solo due opzioni: o TEME di non riuscire a restituire i soldi, e allora, almeno in un sistema come quello italiano semplicemente rinuncia all’educazione terziaria, oppure NON teme di non riuscire a ripagare, e ciò, se non è dovuto a fonti nascoste di reddito è dovuto ad un sistema di garanzie statali per cui lo stato comunque si accollerà i debiti insolventi. In questo secondo caso facciamo come in Italia si è sempre fatto: carichiamo sul debito pubblico futuro problemi presenti.
      Altre opzioni non ci sono.
      Lei chiama al realismo di accettare un ulteriore contazione dell’impegno pubblico nell’educazione. Beh, questa è una legittima posizione politica. Una posizione politica che, per quel poco che conta il mio giudizio, mi repelle in profondità e che non sono disposto ad accettare in nessun caso, qualunque ragionamento costi/benefici lei mi faccia balenare davanti agli occhi (anche ragionamenti ben più convincenti di quelli da lei addotti).

    • @ Andrea Zhok: la mia non e’ una posizione politica, temo solo che cosi’ si finira’, basta che lei mette il naso fuori dal suo studio e ascolti l’opinione pubblica. Spero di essere smentito dai fatti.
      Per quanto riguarda le tasse universitarie e l’indebitamento, le faccio l’esempio seguente per farle capire perche’ non credo che $8000/anno siano eccessivi. Diciamo che il costo totale per una laurea in legge sia $32,000 (costo per il contribuente, cioe’ lei ed io, facciamo 4x$8000). Se poi con questa laurea divento avvocato e guadagno $200,000/anno, non le pare fattibile che la laurea me la paghi in toto? Non crede che un futuro avvocato possa permettersi $8000/anno di tasse universitarie? Con i soldi che il contribuente ha risparmiato (perche’ non ha pagato la laurea dell’avvocato dato che questo se l’e’ pagata da solo) ci finanzia in parte una bella laurea in filosofia per qualcuno che magari guadagnera’ di meno nella sua vita contributiva e che paghera’ meno di $8000/anno, facciamo $4000/anno. Ora lei non mi puo’ seriamente sostenere che un mutuo di $16,000 (4x$4000) da ripagare nel corso di un’intera vita lavorativa sia una cosa insostenibile. Se questo meccanismo non le basta possiamo anche mettere un costo diverso alle lauree. Una laurea in economia gestionale magari costa di piu’ di una in lettere classiche. Poi se il debito lo fa ripagare con una percentuale fissa del reddito futuro, vede anche che il meccanismo non incoraggia necessariamente a scegliere lauree lucrative.
      Poi se lei e’ contrario all’aumento delle tasse universitarie e l’utilizzo di prestiti per finanziare la propria educazione e per aumentarne la qualita’ (dato che su questo blog si dice che la qualita’ dell’educazione in Italia si migliorerebbe senza dubbio se ci fossero piu’ risorse) per motivi filosifici e politici va benissimo e in linea di principio puo’ anche avere ragione. Quando pero’ le ridurranno ulteriormente le spese di viaggio per andare a congressi o le leveranno fondi per il computer nuovo ecc… perche’ cosi’ avverra’ secondo me, lei avra’ problemi a fare il suo lavoro con l’impegno che vorrebbe mantenere e i mezzi che si merita.

    • I dati OCSE di spesa per studente sono quelli di riferimento per confrontare i diversi paesi. Normalizzando in altro modo si confrontano cose diverse. Moltiplicando per due il dato come ha fatto Perotti si fa una manipolazione ingiustificata.

      Il tasso di inadempienza è semplicemente proporzionale a chi frequenta materie che non conducono a professioni dove si guadagna tanto. Il punto è ben spiegato da Figà Talamanca:

      “Se per l’istruzione si deve, prima o poi, pagare, è naturale che vengano incentivate le scelte che offrono maggiori prospettive di guadagni futuri. Se gli studi universitari sono considerati alla stregua di un investimento personale, l’accorto investitore-studente sceglierà quelli potenzialmente più remunerativi. E’ proprio questo che vogliamo? Un tale effetto può essere ritenuto positivo solo da chi ritiene che il valore sociale di un’attività lavorativa sia misurato dal reddito che se ne ricava. In altre parole da chi ritiene che la differenza di reddito tra un consulente finanziario ed un maestro elementare misuri la differenza del valore sociale attribuibile alle loro attività. Ma questa non è tanto o solo una posizione decisamente di destra, ma è piuttosto una posizione ideologica che ignora la realtà. Ignora, ad esempio, che per la professione di maestro elementare, o di fisico teorico, siamo ben lontani da condizioni “di mercato”.”

      IL conto inoltre è molto semplice per l’Italia, basta far uso del calcolatore delle rate per ripagare le tasse sviluppato dalla BBC

      http://www.bbc.co.uk/news/education-14785676.

      la colonna più interessante è la proiezione di stima del salario che è chiaramente del tutto irrealistica se rapportata all’Italia.

    • @ federico:
      Cit.: “Se poi con questa laurea divento avvocato e guadagno $200,000/anno, non le pare fattibile che la laurea me la paghi in toto? Non crede che un futuro avvocato possa permettersi $8000/anno di tasse universitarie?”

      Vede, è proprio questa logica che trovo aberrante (anche se, convengo, molto ‘moderna’ e non poco diffusa). Io credo che sia profondamente sbagliato concepire lo studio, anche quello terziario, come un investimento privato. Incidentalmente sappiamo, come le analisi sul capitale umano ci dicono, che lo studio è anche un importante leva della produttività futura, e dunque può essere considerato socialmente un investimento, ma è a mio avviso latore di gravi distorsioni concepirlo in partenza come un investimento privato per ritorni privati.
      Per restare ai suoi esempi. E’ probabile che il principe del foro avrebbe fatto un buon affare a studiare con tasse di 8.000 Euro/anno e anche superiori. Ma io credo che sia eticamente distorsivo esigere che chiunque vada a studiare legge debba sentirsi obbligato a farne una fonte di reddito lucrativa, pena trovarsi poi in difficoltà. Inutile peraltro dire che, sempre e necessariamente, non tutti quelli che fanno legge diventano principi del foro, né tutti quelli che studiano medicina diventano primari, ecc. L’idea stessa che uno debba studiare avendo questo obiettivo sin dall’inizio come dominante mi pare una abiezione. Non voglio incentivare una società di squaletti. Per una società è importante che ci siano competenze varie e diffuse, disponibili ad impiegarsi anche in attività che non sono ottimizzatrici del reddito.
      La diffusione di competenze, anche quando non verranno sfruttate in modo ottimale sul piano produttivo, è un bene pubblico che il pubblico deve supportare: si tratta della formazione di cittadini, oltre che di produttori e consumatori. E questo discorso vale tanto più in un paese come l’Italia, con tassi di analfabetismo di ritorno da paura, con le più basse percentuali di lettori di giornali in area OCSE, ed un senso di cittadinanza e del bene pubblico già devastato.
      Quando lei mi invita, una volta di più, al realismo e a mettere il naso fuori dalla porta per sentire che aria tira, beh, le dirò che è proprio perché so benissimo che aria tira che respingo con tutte le forse questo tipo di soluzioni economicistiche. Non sempre andare nella direzione del vento è una scelta utile, tantomeno buona.
      Postilla sui fondi per convegni ecc.: è difficile che mi spaventi per la prospettiva di una loro riduzione, visto che non vedo un euro da tre anni…

    • Sono completamente d’accordo con Andrea Zhok. L’istruzione non deve essere un investimento finanziario, che presume ritorni monetari. Deve essere un investimento intellettuale, che si aspetta un ritorno in termini di progresso sociale e civile. Un paese investe nell’istruzione perchè pensa che ne trarrà un beneficio complessivo in termini di benessere futuro, e benessere non vuol dire soltanto moneta. Ci si aspetta che grazie agli investimenti che uno stato fa nell’istruzione e nella ricerca i cittadini dello stato acquisiscano la possibilità di vivere meglio, perchè ad esempio migliori saranno le cure mediche (essendoci medici migliori, tecnologie migliori, nuove scoperte in campo medico), migliori saranno le condizioni sociali (perchè ad esempio si riduce l’ignoranza e si acquisisce maggiore consapevolezza civile ed etica), migliori saranno le condizioni lavorative (perchè ad esempio si produce nuova tecnologia e nuove idee per il lavoro). L’istruzione è un investimento nel futuro, e come tale dovrebbe essere una delle maggiori preoccupazioni di un paese, che dovrebbe riservare ad essa soldi pubblici perchè si tratta di un interesse PUBBLICO. Non si tratta di permettere ad un avvocato di guadagnare 200.000 euro all’anno, e quindi di chiedere a costui di pagarsi questo “privilegio”. Si tratta di permettere a tutti i cittadini che intendono impegnarsi per progredire (e quindi far progredire il paese) di studiare liberamente ciò che vogliono, senza vincoli di “produttività” imposti da questo o quel settore economico. Soli così un Paese può aspettarsi di produrre scienziati, artisti, imprenditori, politici di livello. Solo così un paese può aspettarsi di vedere migliorare la propria organizzazione statale, e di evitare derive democratiche e regimi liberticidi. Scuola ed Università non dovrebbero essere Aziende. Dovrebbero essere “Res Publica”, che produce beni pubblici e non meramente individuali. Ma questo in Italia non lo si comprende più da anni. E le posizioni della politica sono specchio fedele di questa incapacità di comprensione.

    • 1) Non ho truccato i dati ne’ usato moltiplicatori a la Perotti, ho solo usato tabelle linkate su questo forum. Mi va benissimo che mi si dia dell’asino ma non tocco i dati in modo arbitrario.
      2) Non ho nessuna agenda ideologica. Non sono un fuoriuscito da NfA che cerca di seminare casino qui e cerca di denigrare l’universita’ italiana per sostenere che e’ sovrafinanziata. Mi incuriosisce solo vedere come gli stessi dati possono portare a interpretazioni diverse (sempre che siano corrette) da confrontare con le vostre.
      Apprezzo quindi molto il Prof. De Nicolao che con chiarezza didattica mi ha spiegato il vostro calcolo. Mi perdoni se pero’ faccio un’altra domanda.
      Non crede sia legittimo prendere come output il numero di laureati prodotti ogni anno e come input la frazione del PIL generato da ogni cittadino usata per farli laureare? Cioe’, se come contribuente mi pongo la domanda:”quale frazione del PIL che ho prodotto quest’anno e’ servita a laureare centomila studenti?” Non la chiamerebbe questa un misura dell’efficienza del paese (quanto “sforzo” deve fare) a laureare i suoi studenti? La domanda nasce dal fatto che in clima elettorale, il contribuente si puo’ chiedere quanto sta contribuendo a educare i propri concittadini e agire di conseguenza alle urne.

    • Federico: “Non crede sia legittimo prendere come output il numero di laureati prodotti ogni anno e come input la frazione del PIL generato da ogni cittadino usata per farli laureare?”
      _____
      No, non è legittimo. Le unità di misura sono fondamentali nelle valutazioni di efficienza. Usare dei valori di input e output normalizzati in modo diverso permette di fare giochi di prestigio con i numeri. Mi spiego con un esempio. Due famiglie hanno ciascuna un’automobile. La prima famiglia ha due membri patentati e la seconda ne ha quattro. Se voglio fare un confronto di efficienza, il modo corretto di proceere è dividere i chilometri per i litri di benzina. Se divido i chilometri per i litri di benzina pro-capite, i risultati non sono più confrontabili. Dovrei dividere i chilometri pro-capite per i litri pro-capite (tornando al calcolo di chilometri per litro di benzina). Se l’output è il numero di laureati, l’input deve essere la spesa dedicata per raggiungere tale scopo. Se normalizzo tale spesa rispetto alla popolazione, allora devo normalizzare anche il numero di laureati rispetto alla popolazione.

    • @ Andrea Zhok: mi scordavo che il denaro e’ sterco del demonio e chi ha ambizioni di fare solid e’ uno squaletto. E’ chiaro per fare soldi bisogna sempre sbranare il prossimo…

      Chiaro che non tutti i laureati in legge debbano diventare principi del foro ma si puo’ immaginare un meccanismo (sapendo a occhio e croce che frazione dei laureati in legge diventa avvocato) per il quale quelli che diventano avvocati pagano per gli altri in sostanza. A me l’idea che chi ha fatto i solidi ripaghi in maniera maggiore di chi non li ha fatti pare equa, ma a voi no…
      Altrove se uno ha studiato all’universita’ XY e poi ha avuto successo magari fa una donazione alla sua universita’. Fargli pagare di piu’ la laurea e’ un modo per garantire tale “donazione” in partenza.
      L’opinione del Prof. Figa’ Talamanca e’ rispettabilissima ma rimane un’opinione. E’ supportata da fatti? Se la retta e’ diversa a seconda delle prospettive lavorative di ogni indirizzo e il prestito si ripaga in proporzione al reddito chi l’ha detto che tutti si vorranno indebitare di piu’ per avere la possibilita’ di guadagnare di piu’? Tutto il resto del suo discorso discende da questo assioma. Non si tratta di impedire a chicchessia di studiare cio’ che vuole, ma di capire qual e’ il costo equo dell’educazione. Una laurea in ingegneria completa di laboratori didattici e quindi con un rapporto elevato di docenti/studenti costa di piu’ al contribuente di una laurea in Scienze Politiche dove ci sono piu’ studenti, niente laboratori didattici, niente tesi sperimentale ecc… Perche’ mai devono costare uguale allo studente? Oltre al danno la beffa poi, un ingegnere ha piu’ probabilita’ di guadagnare meglio di un laureato in Scienze Politiche. E’ vero che la tassazione e’ progressiva quindi i ricchi gia’ pagano ecc… ma questo sarebbe un meccanismo molto piu’ diretto di far pagare di piu’ i ricchi. Peraltro non ho mai detto che lo Stato si disimpegna: si puo’ anche continuare con i finanziamenti statali come prima e aggiungere queste nuove risorse.
      D’altra se per fare previsioni sul tasso di default, considerando che questo e’ un calcolo probabilmente piuttosto complesso considerato che bisogna capire come evolve la societa’ a lungo termine, si usa un calcolatore online della BBC, capisco che le obiezioni sono soprattutto ideologiche.
      Infine si e’ gia’ notato su questo blog che 2 su 4 dei candidati *progressisti* propongono riforme in questo senso. Forse “the train has left the station.”

    • 1) La sua ironia sul denaro sterco del demonio è singolarmente fuori luogo. Ci sono paccate di analisi sociologiche relative ai comportamenti competitivi nelle dinamiche “winner-take-all”. Se questo non basta, allora è sufficiente un poco di buon senso per capire che ciò che genera squaletti non è l’ammontare del ‘benessere’ ambito in valore assoluto, ma la necessità di doverlo ottenere come bene posizionale disponibile ad esigue minoranze: se in mille competono per dieci posizioni, le sole certamente lucrative, beh, ciò genera regolarmente atteggiamenti ed abiti mentali da squalo.
      2) Se il suo ragionamento è mosso da un nobile senso di giustizia, che vuole far pagare al futuro principe del foro la sua educazione privilegiata, beh, perché posporre cotanto senso di giustizia alla prossima generazione? Cominci con l’impegnarsi a sostegno di una tassazione veramente progressiva (e realmente applicata) agli odierni principi del foro, e ai loro pari censo!
      3) Lei parla di “obiezioni ideologiche”; temo che le sfugga l’esistenza di obiezioni ideali.

    • PS:
      Quanto ai 2 candidati ‘progressisti’ su 4 che supportano la sua idea, sì, ha perfettamente ragione. E’ proprio per questo che ora mi alzo e vado alle primarie a votare per uno degli altri due.

    • @ Andrea Zhok:
      1) Bisogna tarare il sistema in modo da evitare dinamiche “winner takes all”, il che e’ possibile. Per esempio, spesso professioni che generano meno reddito hanno altri benefici non pecuniari (flessibilita’, impiego garantito) che attraggono una parte della popolazione. Insomma, mica e’ necessariamente vero che tutti si vorranno riversare sulle professioni piu’ remunerative e sbranarsi a vicenda.
      2) Se lei si riferisce alle tasse universitarie, sono assolutamente d’accordo ad avere un ventaglio di tasse universitarie piu’ ampio in modo da far pagare molto di piu’ l’istruzione a chi guadagna di piu’ oggi (invece di domani). Il problema pero’ e’ che chi guadagna di piu’ sosterrebbe che e’ soggetto a doppia tassazione dato che viene tassato di piu’ gia’ sul proprio reddito e queste tasse dovrebbero servire a pagare l’universita’ di suo figlio. Se lei si riferisce ad aumentare le tasse sul reddito alle classi piu’ abbienti, mi pare che l’aliquota massima sia gia’ piuttosto elevata (su questo potrei sbagliarmi dato che non l’ho mai pagata). Inoltre credere che l’aumento di gettito verrebbe riversato sull’istruzione direi che non e’ realistico nel clima attuale. Se lei si augura che l’evasione fiscale venga sconfitta e la fiscalita’ diventi finalmente piu’ equa, mi unisco a lei e credo che cio’ avverra’, ma non nel breve periodo.
      Quanto al suo voto alle primarie, c’e’ il 50% di probabilita’ che lei voti per il candidato che ha presentato un programma talmente scarno da praticamente garantire che non si occupera’ seriamente di politica dell’educazione e ricerca.
      Comunque in bocca al lupo.

  4. In realtà è lo stesso concetto che la concorrenza tra scuole sia benefica per il successo di un sistema d’istruzione, ad essere messo pesantemente in discussione. E, insospettabilmente, proprio dal mondo della valutazione (quello più serio) si comincia a suggerire che modelli collaborativi e di equa distribuzione siano più efficaci a livello di sistema nazionale.

    Copio ed incollo direttamente dall’intervista del New York Times ad Andreas Schleicher, direttore dei programmi OCSE “Education at a Glance” e “Program for International Student Assessment (PISA)”

    http://www.nytimes.com/2012/11/12/world/europe/12iht-educlede12.html

    “Q. What were the biggest surprises?

    A. How much variability in performance there is — how big the gap really is in the world. But the more important finding for us was that quality and equity didn’t seem to be opposing policy objectives.
    Some people argue, if you want to achieve excellence you have to accept a lot of inequality. Other people say, if you focus on equity, you’ll end up with mediocrity. What our comparisons have shown is that success is about achieving excellence — maybe not for all, but for many. And that it is an achievable goal. That’s something that education theory didn’t proclaim. Nor did we assume that would be the outcome. But it has been a very clear finding from PISA.
    For example, the impact of social background on learning outcomes was not inevitable. You have countries that are very, very good at moderating the impact of social background.

    Q. The United States is not one of them?

    A. Much of the professional literature comes from the English-speaking world. So it was particularly that part of the world that was most struck by the fact that in Finland there is only a 5 percent performance variation among schools. Every school succeeds.

    Q. Without one succeeding at the expense of another?

    A. Exactly.”

    e più avanti

    “Think about accountability. We in the West think: “I test your students. If the results are poor, something terrible happens. If the results are good, then I give you more money.” Now look at Finland. Their accountability system is a lot stronger. But it works laterally. It doesn’t work vertically.

    Q. What does that mean?

    A. In Finland, or in Japan, you work with your fellow teachers, you work with your fellow schools, to build peer accountability into the system.
    In Japan, teachers work together to prepare lesson plans. They implement the lessons and then they evaluate the lessons together, and that actually creates a very strong sense of accountability. And actually it’s a lot tougher on you as a teacher. If every teacher in your school knows what you are doing well and what you are not doing well, this is much tougher than just having to explain some test results.
    In one case, you have an industrial model in mind, where it’s about compliance and standardization.

    Q. You also have an industrial atmosphere — antagonistic relationships and unions.

    A. That’s the consequence. I always say every education system gets the unions it deserves. The nature of the relationship between government and unions is an outcome of the work organization to a large extent.

    Q. Do Finland and Japan have strong teachers’ unions?

    A. Absolutely. But they have unions that are unions of a profession, not unions of an industrial worker. That’s a bit condescending, but a profession owns its professional standards.”

  5. Adesso partiamo dalle elementari: il governo impone ai provveditorati di NON rimpiazzare i maestri di ruolo e fa leva sul precariato. Non mi sembra concepibile che abbiamo una classe politica del tutto incapace di apprezzare il valore dell’istruzione. Si dovrebbe cercare di capire come siamo arrivati a questo punto.

  6. Sylos-Labini giustamente stoolinea che: “La ricetta di Renzi usa la stessa retorica del merito di gelminiana memoria; una formuletta semplice e buona per tutte le stagioni: competizione, merito ed eccellenza”

    Ecco, io ne ho abbastanza della competizione a ogno costo. La retorica tatcheriana, di cui Renzi e’ figlio legittimo, esalta da sempre la competizione come unico rimedio ai mali del mondo.

    Non e’ vero ! La vita e’ cooporzione, senza la cooperazione tra cellule questo pianeta sarebbe abitato da esseri unicellulari.

    Bisogna sostituire il principio di competizione a ogni costo con quello di cooperazione.

    D’altronde per un certo periodo la sinergia tra le proprie aziende ha grandemente contribuito a fare la fortuna proprio di quel porco di Berlusconi tanto amato dai nostri Tatcheriani (salvo abbandonarlo ora: un classico italiano).

    Uno dei guai della nostra Universita’, e parlo da esterno che e’ pero’ ogni giorno o quasi a contatto con essa, e’ proprio la competizione tra le varie cordate accademiche. Competizione che si ritrova in ogni santo settore disciplinare (o come diavolo si chiama), e la competizione tra settori contigui.

    Mentre in italia si perde tempo a litigare, nel regno unito dei santini tutelari di renzi ci sono forti sinergie (almeno nei campi che io bazzico) per essere piu’ rappresentati a livello nazionale ed europeo.

    Andando sul pratico c’e’ un modo semplice per battere la visione di Renzi: andare a votare alle primarie.

    Possibilmente evitandogli anche di andare al ballottaggio, ossai, per parlare chiari, votare Bersani.

    PS sarebbe anche interessante leggere un intervento altrettanto ben strutturato su come un governo pieno di professori ordinari stia dando il colpo di grazia all’universita’ italiana.

  7. Il vero problema è che anche il programma di Bersani si caratterizza per una serie di banalità e va interpretato. Non si capisce quello che farà. Abbiamo avuto anche ministri di sinistra negli ultimi vent’ anni che non hanno contribuito a nulla per il miglioramento del sistema. Concordo con indrani, non c’è un programma decente perchè la verità è che a nessuno interessa nulla.

  8. Dico un po’ la mia, anche se non posso essere preciso come il redattore dell’articolo, cui va riconosciuto il merito di scrivere citando fonti in maniera quasi ossessiva.

    1) Le criticità legate al prestito d’onore vanno affrontate. Come idea in sé comunque mi pare interessante.

    2) Una cosa che non capisco davvero in queste tesi è l’atteggiamento – almeno, questo è ciò che percepisco io – di totale chiusura nei confronti di un aumento delle tasse universitarie. Ma in certi casi questo mi sembrerebbe invece un grosso segnale di equità. Una maggiore progressività nella tassazione mi sembra qualcosa molto “di sinistra”: giusto che le famiglie abbienti paghino cara l’università, per sostenere e l’università in sé, e meccanismi come le borse di studio.

    3) Anche la questione “diritto allo studio” andrebbe approfondita. Per esempio, mettere requisiti di merito che non siano buffonate aiuterebbe. Ovviamente tutti vogliono un sistema per il diritto allo studio forte, ma bisogna finanziarlo, e magari smettere di spesare – come succede qui a Pavia – studenti che fanno esami anche con la media del 23. Uno poi dice “il ricco per quanto asino va avanti comunque anche senza borsa di studio, il povero magari no”. Eh, è vero. Ma non si potrebbe allora aumentare davvero le tasse, e aumentarle per i fuori corso improduttivi, i.e. non studenti lavoratori? Questo fa parte delle vituperate proposte di Ichino/Renzi.

    4) Ovviamente condivido l’apprensione legata al destino della ricerca di base. È vero: non si può pretendere che l’università si pieghi sempre alle logiche di mercato. Questo vorrebbe dire smettere di finanziare dottorati come il mio (matematica, ramo diciamo algebrico). La ricerca di base – penso proprio alla matematica – ha bisogno di tempo perché porti a risultati che siano “applicabili”. Magari le applicazioni arrivano dopo 20, 30, anche 50 e forse anche 100 anni. Magari non arrivano proprio. Ma ogni volta che arrivano, è stata, come dire, una scommessa vinta. È molto triste rinunciare a questo, anche perché non esiste solo lo sviluppo economico, ma anche – se non erro viene sancito costituzionalmente – lo sviluppo intellettuale e morale, cui la ricerca di base contribuisce direttamente.

    5) Concordo sul fatto che sulla questione “classifiche” c’è molta disinformazione.

    Per finire, dico soltanto che ho votato Renzi proprio oggi alle primarie. Se davvero questo sarà stato come tirarsi la zappa sui piedi, lo scoprirò personalmente, visto che sono proprio attivo in quella ricerca di base che, stando ai detrattori di Renzi, potrebbe essere completamente snaturata!

    • premessa: ho analizzato in dettaglio il problema delle tasse/prestiti in altri articoli. grazie per aver notato la mia pignoleria nel citare le fonti, ma non è ossessione è solo che quando scrivo un articolo di fisica faccio così. Comunque

      1) non ho scritto di essere contrario ai prestiti d’onore, anzi andrebbero bene se le tasse universitarie non venissero toccate ed i prestiti agevolati fossero dati a coloro che “scommettono” sul proprio futuro. Ma ci deve essere la possibilità di scelta. Se si aumentano le tasse la posibilità di scelta non c’è.

      2) se ha la pazienza di leggere le fonti che ho citato ed in particolare i miei articoli, ho scritto che l’intervento da fare sarebbe quello di riconsiderare le aliquote. All’università di Torino hanno introdotto una maniera di calcolo che va nella direzione di maggiore equità

      3) Per quanto riguardo il diritto allo studio rimando a questo articolo in cui è spiegato, meglio di come potrei fare, il problema https://www.roars.it/come-cambia-la-contribuzione-studentesca-nella-revisione-della-spesa-2/

      4) Renzi propone : “Un fondo nazionale per la ricerca gestito con criteri da venture capital. Istituire un fondo nazionale per la ricerca che operi con le modalità del venture capital e sia in condizione di finanziare i progetti meritevoli al di fuori delle contingenze politiche”. Lo applichi al suo campo e veda un po’ se lei non si è dato una bella zappata sui piedi.

  9. Be’, io forse sarò un grande ingenuo, ma confido che tutto questo non significherà un addio alla ricerca di base. Vi sono progetti per cui può valere la pena fare un investimento tipo “capitale di ventura” aspettandosi un ritorno economico, ma vi sono progetti che per loro natura sono totalmente al di fuori da un qualsivoglia discorso di ritorno economico, come – tanto per dire – tutta la matematica che non sia statistica applicata o analisi numerica applicata. Non penso che i riformisti PD che sostengono Renzi – e che poi verosimilmente faranno parte della sua squadra – siano così stupidi da voler cassare la ricerca di base solo perché nessuno, ma proprio nessun investitore sarebbe pronto a finanziarla. Ma, come ho detto, forse pecco di ingenuità. Starò a vedere.

    Riguardo il capitolo “borse di studio”: ho letto l’articolo linkato, devo dire che l’effetto su di me è stato quello di una certa confusione (non imputabile all’articolo in sé, sia chiaro). Resta la mia convinzione che i criteri di assegnazione – almeno, nella mia realtà – sono da rivedere. Qui a Pavia, peraltro, devo riconoscere che la realtà dei collegi rende l’espressione “diritto allo studio” qualcosa di tangibile. Forse è una piccola oasi.

  10. Be’, la storia del “Renzi di destra” o “Renzi berlusconiano” è un po’ banalotta, ormai, no? Ripeto, starò a vedere. Comunque, se ho fatto la scelta di sostenerlo è anche perché dall’altro “candidato forte” non ho percepito molto più di vaghi intenti. Ché poi, diciamocelo chiaro: chi riuscirà davvero, in una situazione economica simile, ad alzare i finanziamenti pubblici sull’università e la scuola? E d’altra parte, siamo tutti d’accordo che nemmeno questo andrebbe bene senza il discorso “valutazione”. A tal proposito, devo sicuramente riconoscere l’ottimo lavoro di critica che sta facendo questo sito all’ANVUR.

  11. Mi sto rapidamente documentando su internet riguardo questo Zingales, il quale risulta effettivamente essere un endorser di Renzi ma – almeno a quanto riesco a dedurre da questa breve ricerca – di certo non il suo “consigliere”, visto che fa parte del gruppo “Fermare il declino”, quello sì con tutta probabilità (parecchio) liberista di destra. Insomma, tra endorser e consigliere, mi pare, c’è una certa differenza. Anche perché il programma economico di Renzi mi sembra piuttosto ricavato dalle idee di Pietro Ichino (persona che personalmente stimo molto), con flexsecurity e quant’altro. E Ichino non è certo di destra, è anzi l’idea di “riformista PD” che personalmente ho in mente.

    • Zingales è direttamente connesso a Renzi, è stato invitato alle varie convention ed ha influenzato una buona parte del programma Renzi. So che chi pensa sia un riformista ha difficoltà ad accettare questo dato di fatto. Inoltre Zingales è direttamente connesso ad Andrea Ichino e al gruppo dei bocconiani: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/04/furto-d%e2%80%99informazione-e-crisi-economica/316961/. Chiunque abbia seguito la campagna denigratoria condotta da questo gruppo di economisti, su base puramente ideologca e con acclarate ed evidenti manipolazioni di dati di fatto, contro l’università italiana, ha ben presente la connessione tra Ichino, Perotti e Zingales senza dover fare analisi di network (come ho fatto io che mi piace esser preciso).

  12. Be’, se è per quello io sento spesso criticare Renzi proprio perché ogni tanto, in varie parti d’Italia, ha sostenitori di destra, finanche di ex Forza Italia, ma a pensarci bene non mi sembrano argomenti molto razionali. Il programma, o almeno le linee guida, è quello che c’è. Non mi sembra sia tacciabile di essere iperliberista (come ho detto, per l’iperliberismo c’è semmai Boldrin, Giannino, e proprio Zingales con “Fermare il declino”). Se ci sono state influenze, be’, pazienza: un’idea considerata “liberista” non può essere comunque un’idea sensata? Per un mio amico (bocconiano, guarda un po’!) liberismo ed equità sociale non sono necessariamente in contraddizione. Piuttosto, non condivido questo approccio per cui… ogni idea che in qualche modo ha intersezione non banale con la Bocconi allora deve essere per forza malvagia, e chi la porta avanti deve essere un bieco liberista in mala fede magari travestito da progressista/riformista di sinistra, come ad esempio Ichino. In prima istanza io mi fido, visto anche il programma nella sua interezza (non solo università, come dicevo, ma anche ad es. la flexsecurity); se poi mi dovrò ricredere, pace: potrò sempre mandare a casa Renzi e soci a tempo debito.

    • Genovese: “Non mi sembra sia tacciabile di essere iperliberista (come ho detto, per l’iperliberismo c’è semmai Boldrin, Giannino, e proprio Zingales con “Fermare il declino”).”
      ____________________

      Come riconosciuto dallo stesso Genovese, Zingales è (quanto meno) un endorser di Renzi al punto che la stampa (a torto o ragione) lo considera suo consigliere economico:

      “Questi e tanti altri spunti si trovano nel nuovo libro di Luigi Zingales “Manifesto capitalista” (meglio il titolo originale “A Capitalism for the People” che si potrebbe tradurre “Un capitalismo per la gente comune” ). L’autore è consigliere economico di Matteo Renzi ”

      http://notizie.radicali.it/articolo/2012-10-04/editoriale/il-manifesto-capitalista-di-zingales-parlare-all-america-perch-l-ital
      ___________________
      Non a caso, in tema di università e ricerca il programma di Renzi non risulta molto diverso da “Fermare il declino”. Sia chiaro che non è un problema di etichette, ma di contenuti. E se si guarda ai contenuti emerge che su università e ricerca il programma di Renzi appartiene alla stessa galassia dei liberisti nostrani (nei confronti delle cui opinioni dissentiamo per una serie di motivi ampiamente documentati fin dalla nascita di questo blog).

    • @ Francesco Genovese:
      Sarebbe bello avere il tempo per una lunga discussione sulle premesse farlocche, tipo mercato perfetto, che rendono argomentabile la natura egalitaria del liberismo. Non parendomi il luogo per rinviarla alle innumerevoli analisi che lo dimostrano, mi limito alla seguente proposizione assertoria: il liberismo (che non è semplicemente mercato, ma la pretesa capacità di autoregolazione delle dinamiche di mercato) è SEMPRE in contraddizione con l’equità sociale. Chi afferma il contrario, semplicemente, mente (se per ignoranza o malafede, non sta a me giudicare).

  13. Molto brevemente: dubito che quella che pure è vista come l’ala destra del PD, l’ala “liberal” insomma, sia per il mercato totalmente autoregolamentato. Io mi sono semplicemente convinto che questo “liberismo” non può essere agitato come totem, del tipo “tutto ciò che è liberismo è male”. Si potrà valutare, magari, caso per caso?

  14. Sono abbastanza accordo con Genovese, nel senso che i problemi dell’università dovrebbero essere trattati caso per caso, partendo appunto dai problemi e non dalle soluzioni. Ad esempio se si partisse dal problema di come aumentare la percentuale di laureati tra i giovani italiani senza aumentare la spesa pubblica, penso che persino Andrea Ichino e Francesco Sylos Labini finirebero per trovarsi d’accordo. In termini empirici ambedue si convincerebbero che c’è ben poco spazio per aumentare le tasse universitarie anche se compensate da prestiti, e si convincerebbero anche che un po’ di spazio esiste per recuperare fondi attraverso tasse più alte per i più abbienti e un più accurato controllo delle dichiarazioni relative allo stato patrmoniale delle famiglie da parte di studenti “falsi poveri”. Se invece, anziché affrontare empiricamente i problemi, si parte da soluzioni onnicomprensive e/o demonizzazioni dei “liberisti” c’è il rischio di ridursi ad argomenti “ad hominem” nello stile di NoisefromAmerika.
    P.S. Uno dei casi più interessanti di argomento ad hominem è però attribuibile a Roberto Perotti sul Corriere della Sera: per rispondere ad una mia argomentazione sulla interpretazione dei dati OCSE sul costo dell’istruzione universitaria Perotti mi ha accusato di appartenere ad una università che aveva eletto come rettore Luigi Frati.

    • @ AFT
      Molto d’accordo su tutto.
      Noto solo di passaggio, nel caso il riferimento alla demonizzazione dei liberisti toccasse ciò che ho detto, che è difficile e forse anche fuorviante tentare di trattare le argomentazioni radicate in stilemi teorici di tipo liberista come se fossero discussioni particolari, di merito, interessate alla soluzione concreta. Non lo sono pressoché mai. Si tratta di norma di applicazioni di un quadro ideologico generalissimo che viene solitamente sviluppato con la virulenza dei fedeli, piuttosto che con l’onestà intellettuale dello studioso. Chi cerca di discutere restando sul punto si ritrova regolarmente spiazzato, a cozzare contro un muro di gomma disposto ad utilizzare qualunque argomento per supportare ciò di cui è convinto a priori. La ‘demonizzazione’ è retorica. La consapevolezza di aver a che fare con un’ideologia è invece parte indispensabile per un confronto razionale ed efficace.

  15. Recentemente ho letto un paper (un po’ vecchiotto, del 2010) di Ugo Arrigo e Gabriele Zelioli (consultabile qui http://brunoleonimedia.servingfreedom.net/Papers/IBL-Report-Arrigo-Univers.pdf ) che propone sostanzialmente di sostituire al finanziamento pubblico diretto delle università quello, sempre pubblico ma indiretto, tramite borse agli studenti.
    Il succo della proposta è sostanzialmente il seguente (cito quasi testualmente):
    “La proposta consiste nel sostituire il finanziamento pubblico agli atenei con un finanziamento agli studenti, attraverso borse annuali distinte per tipologia di corso di laurea e differenziate sulla base della condizione economica familiare dei beneficiari. La riconferma della borsa verrebbe subordinata al raggiungimento di una soglia minima di risultato da parte del beneficiario in termini di crediti conseguiti rispetto ai crediti massimi previsti” (p.2).
    Secondo gli autori questa proposta (una sorta di simulazione di mercato all’interno della cornice pubblica) avrebbe un benefico effetto responsabilizzante sia per la domanda che per l’offerta di formazione; da una parte spingerebbe gli studenti (e/o chi finanzia i loro studi) a scegliere con maggiore attenzione l’università cui iscriversi e incentiverebbe i “beneficiari a un impegno di studio adeguato; se l’impegno è insufficiente gli oneri ricadono su di loro, non più sulla collettività” (ib.); dall’altra gli atenei pubblici sarebbero maggiormente incentivati a migliorare l’offerta per attrarre studenti.
    Quali i punti critici? “Che gli studenti siano tentati di spendere la borsa presso sedi universitarie 1) meno impegnative, nelle quali risulti più facile rispettare i requisiti minimi di risultato richiesti per la riconferma del beneficio nell’anno successivo; 2) che, pervenendo le risorse agli atenei prevalentemente attraverso l’iscrizione degli studenti, essi non siano incentivati a perseguire adeguati obiettivi di ri¬cerca. (In ogni caso la proposta formulata prevede che i progetti di ricerca di maggior rilievo siano finanziati ad hoc e su basi comparative al di fuori di questo meccanismo)” (p. 23).

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