Moody’s Analytics: il debito degli studenti USA
potrebbe essere la prossima bolla finanziaria a scoppiare

In Italia c’è chi propone di aumentare le tasse universitarie, introducendo un sistema di prestiti da restituire una volta entrati nel mondo del lavoro. Un sistema di prestiti agli studenti esiste già negli USA e mostra crepe preoccupanti. Lo scorso luglio, Moody’s Analytics ha rilasciato un dettagliato rapporto tecnico sulla solvibilità dei prestiti studenteschi il quale segnala il possibile scoppio di una bolla finanziaria:
The long-run outlook for student lending and borrowers remains worrisome … Fears of a bubble in educational spending are not without merit
(Moody’s Analytics – Luglio 2011)
La proposta Ichino: indebitarsi per studiare
Per quanto riguarda l’Italia, i senatori Pietro Ichino, Ceccanti, D’Alia, Germontani, Leddi, Marino, Morando, Poli Bortone, Rossi, Rusconi, Rutelli, Tonini, Treu, Valditara hanno presentato in data 18 maggio 2011 un’Interrogazione ai ministri dell’economia e delle finanze e dell’istruzione, dell’università e della ricerca che chiede la sperimentazione di una soluzione simile a quella adottata in inghilterra, ispirata alle raccomandazioni del Rapporto Browne:
- consentire agli atenei di aumentare le tasse universitarie per tutti gli studenti;
- anticipare a carico dello Stato il costo sostenuto dagli studenti meno abbienti per frequentare l’università;
- consentire agli studenti beneficiati di ripagare il debito attraverso il loro prelievo fiscale futuro, ma solo se e quando raggiungeranno un reddito sufficientemente elevato (21.000 sterline) e comunque nella proporzione del 9 per cento del reddito percepito e con un interesse contenuto (2.2 per cento)
Prima di adottare questa soluzione, è bene esaminare cosa accade dove il ricorso a prestiti studenteschi è largamente adottato. Negli USA il problema dei mancati rimborsi sta diventando fonte di notevoli preoccupazioni, perché nell’attuale periodo di crisi economica i laureati faticano a trovare impieghi che consentano di pagare le rate del debito.
In modo del tutto analogo ai mutui immobiliari, una significativa percentuale (il 30%) dei prestiti studenteschi è stata trasformata in titoli negoziabili sul mercato noti come “student loan asset-backed securities” (Slabs). Sono considerati finanziamenti relativamente sicuri anche a causa delle garanzie federali in caso di insolvenza dei debitori. Inoltre, a causa dei tetti per i prestiti federali, gli studenti che non riuscivano far fronte alle spese per l’istruzione si sono rivolti in misura crescente ai prestiti gestiti da privati e sul mercato vi sono anche Slabs associati a prestiti privati oppure misti.
La prossima bolla finanziaria verrà dall’università?
Lo scorso luglio, Moody’s Analytics ha pubblicato un rapporto intitolato “Student Lending’s Failing Grade” in cui analizza in dettaglio le prospettive del debito studentesco. Il punto di partenza è la continua crescita dell’esposizione con un tasso di crescita annuo intorno al 10% mentre l’esposizione complessiva per tutte le forme di prestiti mostra ormai tassi di crescita negativi (vedi Figura 1). Per avere un’idea delle dimensioni del debito studentesco negli USA, basta pensare che nel 2011 ha superato il debito associato alle carte di credito e che, secondo il Financial Times, è proiettato verso i mille miliardi di dollari, una cifra equivalente al 40% del debito associato ai mutui subprime.

Il Guardian riporta che quest’anno le tasse universitarie USA sono cresciute dell’8,3%, mentre si stima che per la classe del 2010 il debito medio per studente sia pari a $25,000. Nell’ultimo anno, la percentuale di default per i prestiti federali è passata dal 7% all’8.8% (fonte: Guardian), mentre quella complessiva avrebbe raggiunto l’11,2% (fonte: Financial Times) Nel complesso, il rapporto di Moody’s Analytics evidenzia una situazione per niente rosea e mette in guardia nei confronti della possibile esplosione di una bolla dei prestiti universitari.
Le preoccupazioni di Moody’s sono confermate anche da altre analisi, tra cui meritano di essere citati un dettagliato studio pubblicato da Education Sector e gli articoli di Malcolm Harris su n+1 (“Bad Education”) e di William Deresiewicz su The Nation (“Faulty Towers: The Crisis in Higher Education“). Queste analisi evidenziano diversi fenomeni critici:
- La diminuzione in tempi di crisi dei finanziamenti, sia pubblici che originati da rendite finanziarie, che viene compensata dagli atenei tramite l’aumento delle tasse universitarie (fonte: Moody’s Analytics).
- Il tasso di crescita dei costi dell’istruzione universitaria (Figura 2) è maggiore non solo dell’inflazione ma anche dei tassi di crescita della spesa per abitazioni, energia e sanità. Questo fenomeno non è dissimile da una bolla finanziaria, dal momento che la crescita dei costi è sganciata dal valore dell’istruzione ricevuta, che sempre più difficilmente si traduce in impieghi adeguatamente remunerati.
- L’aumento dei costi non va tanto a beneficio del servizio didattico reso agli studenti ma viene piuttosto assorbito dalla struttura amministrativo-manageriale e dalle spese per pubblicità e attività extracurriculari, capaci di dare lustro ed attirare “clienti”. Harris segnala che, secondo il Dipartimento della Pubblica Istruzione, entro il 2014 nelle università senza scopo di lucro ci saranno più amministratori che docenti. Le università diventano sempre più simili ad aziende anche per quanto riguarda gli stipendi degli amministratori di alto livello (fonti: n+1 e The Nation).
- Mentre i soggetti a basso-reddito sono favoriti dalle borse di studio e dagli aiuti federali, ciò non accade a livello statale e istituzionale. Sotto l’etichetta di “aiuti al merito” (merit aid) vengono trasferiti fondi ai soggetti a medio o persino alto reddito, anche al fine di contendere agli altri atenei gli studenti accademicamente più promettenti (fonte: Education Sector e The Nation).
- L’espansione delle cosiddette “for profit schools“, a gestione privata, caratterizzate da alti tassi di abbandono e titoli di studio poco apprezzati dal mercato del lavoro, i cui studenti ricorrono con maggior frequenza a prestiti privati e sono i più esposti a non restituire il prestito (fonti: n+1 e Education Sector).

Le pratiche spregiudicate delle “for profit schools” [1] vanno a colpire soprattutto i ceti più deboli, più esposti alle pratiche di marketing e reclutamento aggressive e persino ingannevoli, come documentato da un’indagine condotta nel 2010 dal U.S. Government Accountability Office. Le “for profit schools” spendono molto in pubblicità e usano il loro potere economico per ottenere appoggi nei giornalismo e nella politica:
La Washington Post Company possiede la Kaplan higher education, e costringe il Washington Post a pubblicare articoli con imbarazzanti apprezzamenti sulle università a scopo di lucro. L’università leader del settore, quella di Phoenix, è addirittura entrata in società con la rivista Good, finanziando un redattore specializzato nei temi dell’istruzione. Grazie a questi contatti, ai miliardi spesi in pubblicità e ai quasi nove milioni di contributi alle lobby e alle campagne elettorali solo nel 2010, nell’ambito dell’istruzione statunitense il settore delle università a scopo di lucro cresce più di ogni altro.
M.Harris, Bad Education
Ma lo schema inglese è diverso …

Abbiamo appena visto che le notizie dagli USA non sono buone. Tuttavia i sostenitori della proposta Ichino guardano più all’Inghilterra che agli USA. La riforma inglese (un articolo della BBC spiega le differenze rispetto a Galles, Scozia e Irlanda del Nord) è troppo recente per avere un quadro assestato delle conseguenze di lungo periodo. Eppure, nonostante le differenze con il sistema statunitense, gli esiti preliminari mostrano delle somiglianze degne di nota.
In primo luogo, anche in Inghilterra sembra emergere un problema di contenimento dei costi della spesa universitaria. Il numero delle università che hanno deciso di innalzare le tasse fino al limite massimo concesso, pari a 9.000 sterline (47 atenei su 123), è stato superiore alle previsioni del governo. Di conseguenza, i fondi stanziati per coprire i prestiti per gli studenti risulterebbero insufficienti, con uno sforamento di diverse centinaia di milioni di sterline rispetto alle previsioni. Le opzioni del governo sono un aumento dei fondi oppure una riduzione dei posti disponibili per le matricole. Uno studio della London School of Economics, ha anche previsto che l’effetto dell’innalzamento delle tasse comporterà una riduzione delle immatricolazioni del 5%.
Un altro aspetto che richiama il caso americano, è lo spazio che si apre per le “for profit universities” i cui studenti potranno usufruire del sistema dei prestiti. In ogni caso, l’innalzamento delle tasse sta già mettendo sotto pressione i corsi di studio che, secondo il management, si “venderanno peggio” presso gli studenti in termini di prospettive di reddito, come per esempio quelli di studi classici. Edith Hall, una famosa grecista, ha annunciato che lascerà la University of London a causa dei futuri tagli prospettati dalla direzione dell’ateneo.
In Inghilterra, l’opposizione alla riforma universitaria non è venuta solo dagli studenti. Il 7 giugno 2011, si è verificato un fatto senza precedenti: l’organo di governo dell’Università di Oxford (“the Congregation”) ha espresso a larghissima maggioranza (283 voti contro 5) un voto di “no confidence” nei confronti della politica universitaria del governo. Secondo il proponente della mozione di sfiducia, il prof. Robert Gildea, la riforma del finanziamento dell’università sarebbe “reckless, incoherent and incompetent”. All’Università di Cambridge, un’analoga mozione non è stata approvata per un solo voto (681 voti contro 681 voti).
Danni collaterali
Il rapporto di Moody’s Analytics nota che l’effetto finale di questa bolla dei prestiti potrebbe essere una diminuzione dell’accesso alla formazione universitaria e sottolinea il danno che ne potrebbe derivare per l’economia americana sia in termini di consumi che di qualificazione della forza lavoro:
The implications for the macroeconomy of a decline in higher education enrollment are twofold. In the short run, weaker demand for educational services would be a drag on consumption, at a time when the economy continues to suffer from a shortfall in aggregate demand. Longer term, a less educated workforce would necessarily be less productive, putting the U.S. at a disadvantage relative to other countries.
(Moody’s Analytics – Luglio 2011)
Negli USA, la percentuale di laureati nella fascia di età 25-34 anni è pari al 41% (Tabella A1.3a, pag. 40 di OCSE Education at a Glance 2011), molto maggiore di quella italiana, pari al 20% (media OCSE: 37%). Per l’Italia, aumentare la qualificazione della forza lavoro dovrebbe essere una priorità, tanto più che la spesa italiana per l’università è particolarmente bassa: in rapporto al PIL, siamo 31-esimi su 34 nazioni considerate con una spesa pari al 65% della media OCSE (Chart B2.2, pag. 227 di Education at a Glance 2011).
Alla luce di tutte queste considerazioni, prima di introdurre anche in Italia il ricorso su larga scala a prestiti garantiti dallo stato, è bene tener conto dei seguenti punti:
- Negli USA, il costo della formazione universitaria appare fuori controllo anche a causa del finanziamento a debito con garanzie federali che consente di gonfiare i costi senza un corrispondente incremento del valore dell’istruzione. Anche in Inghilterra ci sono segnali di difficoltà a contenere i costi.
- Negli USA, la competizione tra atenei, lungi dall’innescare circoli virtuosi, ha finito per favorire soprattutto gli operatori privati più spregiudicati come le “for profit schools” che hanno come target proprio i ceti più deboli. L’esperienza statunitense mostra che la competizione può giocarsi su terreni diversi da quello formativo, contribuendo ad un peggioramento dell’efficienza complessiva del sistema.
- Se per prevenire le insolvenze o contenere i costi venissero ridotte le agevolazioni oppure ristretto l’accesso al credito, il debito da contrarre diventerebbe ancor più un disincentivo alla formazione universitaria. Nel caso dell’Italia ciò renderebbe ancora più difficile colmare il divario nella percentuale di laureati rispetto alla media OCSE. Moody’s Analytics, per gli USA, e la London School of Economics, per l’Inghilterra, prevedono una riduzione degli immatricolati come effetto finale del sistema dei prestiti.
- Nello schema proposto da Pietro Ichino, le insolvenze ricadrebbero direttamente sul debito pubblico. L’idea di rivalersi riducendo il finanziamento agli atenei “colpevoli” di generare soggetti insolventi, ridurrebbe ulteriormente la già bassa spesa per l’università aumentando il nostro distacco dalle nazioni sviluppate.
Insomma, ci sono ragioni per temere che la presunta soluzione possa tramutarsi in un problema. Indebitarsi per studiare non è l’unico modello possibile: basta guardarsi intorno ed esaminare le soluzioni adottate da altre nazioni europee come Francia, Germania, Austria, Danimarca e Svezia.
[1] Una conferma dell’esistenza di pratiche scorrette è la recente sottoscrizione di un codice di autoregolamentazione da parte di un gruppo di 17 “for profit colleges”: For-profit colleges release “responsible conduct” standards, The Washington Post
Per approfondire:
P. Ichino et al. Ai Ministri dell’economia e delle finanze e dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Interrogazione parlamentare
A. Ichino: Tasse più alte? Prestiti di Stato, Sole 24 Ore
D. Terlizzese, Un prestito con con molti vantaggi, lavoce.info
Cassa depositi lancia il prestito d’ onore – Diecimila euro l’anno agli studenti modello. Il rimborso? Quando si trova un posto di lavoro, Corriere della Sera
F. Sylos Labini: Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia, Scienza in Rete
F. Coin, Caro Ichino, gli studenti non sono clienti, Il Fatto Quotidiano
M. Gaggi, Usa, la nuova ‘bolla’ dei prestiti universitari, Corriere della Sera
M. Harris, La bolla universitaria, Internazionale
Student Lending’s Failing Grade Moody’s Analytics
Student-Loan Delinquencies Rise, Adding To Fears Of An Education Bubble, Huffington Post
Occupy Student Debt Campaign Announces Nationwide Loan Refusal Pledge, Huffington Post
Occupying Our Education, Huffington Post
US student debt impact likened to subprime loan crisis, Financial Times
Student loans in America – Nope, just debt – The next big credit bubble?, The Economist
Education in Chile – The fraught politics of the classroom -Deadlock over who should pay for education, and who should profit from it, The Economist
Analysis: Is student loan, education bubble next?, The Guardian
Drowning in Debt: The Emerging Student Loan Crisis, Education Sector
[…] Non dice che negli Stati Uniti lo strumento dei prestiti d’onore ha portato il debito totale degli studenti a quote tali da superare il debito generato dalle carte di credito, al punto che la stessa Moody’s da tempo annuncia l’inevitabile scoppio della bolla del debito studentesco, come opportunamente spiega l’articolo di De Nicolao. […]
[…] 10. Non dice che negli Stati Uniti lo strumento dei prestiti d’onore ha portato il debito totale degli studenti a quote tali da superare il debito generato dalle carte di credito, al punto che la stessa Moody’s da tempo annuncia l’inevitabile scoppio della bolla del debito studentesco, come ben spiega Giuseppe de Nicolao. […]
[…] delle immatricolazioni, la stessa Moody’s ne definisce gli effetti worrisome, ovvero “preoccupanti”, e gli studenti continuano ad opporvisi. La verità è che le priorità del sistema […]
[…] al crollo delle immatricolazioni, la stessa Moody’s ne definisce gli effetti worrisome, ovvero “preoccupanti”, e gli studenti continuano ad […]
[…] Non dice che negli Stati Uniti lo strumento dei prestiti d’onore ha portato il debito totale degli studenti a quote tali da superare il debito generato dalle carte di credito, al punto che la stessa Moody’s da tempo annuncia l’inevitabile scoppio della bolla del debito studentesco, come ben spiega Giuseppe de Nicolao. […]