Alla fine il Ministro ci ha ripensato. La pubblicazione tempestiva di un testo corretto del bando PRIN 2011, in data 12 gennaio 2012, sembrerebbe dimostrare che la discussione, la campagna d’opinione e le richieste di revisione hanno avuto successo. Questo significa che non c’è più motivo di ragionare dei meccanismi ministeriali di finanziamento della ricerca noti come PRIN ? Tutto sommato non si direbbe: vediamo perché.

Il nuovo bando ha senz’altro accolto alcune delle richieste di modifica avanzate soprattutto dalle aree della ricerca socio-umanistica: proporzionalità dei progetti preselezionabili non ancorata al numero dei docenti per ateneo (ora legata al tasso di successo storico), caduta della proporzionalità dei progetti preselezionali rispetto al numero dei progetti presentati per area, diminuzione del minimo di unità previste e abbassamento dei costi minimi per alcune aree, limitazione della compatibilità con il programma europeo Horizon alle sole per le aree interessate.

Dato atto al Ministro di aver prestato ascolto all’opinione della comunità soprattutto nel senso di valorizzare le caratteristiche specifiche della ricerca in aree come quelle socio-umanistiche, restano però alcuni punti critici, sui quali non sarà inutile, a futura memoria, soffermarsi sull’onda della presente discussione. Si vedrà così che non necessariamente solo nei particolari si annida il diavolo, come nella versione originaria del bando PRIN 2011.

Cominciamo dalla dotazione finanziaria, soffermandoci su due aspetti non emersi finora nel modo dovuto: le risorse complessive e l’assegnazione su base annua. Non deve essere sottaciuto che, in tema di risorse finanziarie, ci troviamo comunque di fronte, con ogni evidenza, al salto di uno, possibilmente di due anni di assegnazione. Il bando 2011 esce senza che ci sia stato un bando 2010 e tutto fa pensare che nel corso del 2012 non uscirà un bando 2012, sicché su tre anni, 2010, 2011 e 2012 potrebbe essere aperto un solo bando, con una riduzione netta delle risorse per la ricerca sul medio periodo. Ma c’è di più. Non sfugge come, a fronte della maggior dotazione assoluta dei fondi – da euro 105.977.007 del bando 2009 a euro 175.462.100 dell’attuale bando – e stante la trasformazione delle assegnazioni da biennali a triennali, le risorse complessive appaiano sostanzialmente invariate su base annua; e, soprattutto, la loro distribuzione per area risulti fortemente sperequata e tale continui ad essere anche dopo le modifiche. Mentre per la maggior parte delle aree (da 1 a 9  e 13-14) si registrano infatti incrementi percentuali reali su base annua anche molto consistenti (ad esempio per l’area 7), per le aree 10-12 si rilevano diminuzioni nette fino al 25 % per l’area 10. Ciò appare tanto meno comprensibile se si considera che le sole 3 aree 10-11-12 raggruppano il 26 % dei docenti/ricercatori italiani, ma ottengono poco più del 14 % delle risorse del PRIN 2011. Si dirà che le assegnazioni sono calcolate su medie storiche: ma la politica della ricerca non consiste solo nella decisione di intervenire sui flussi di finanziamento, ma anche nell’accompagnare la loro modifica con adeguate spiegazioni e magari con successivi interventi di riequilibrio.

È vero, poi, che, coi nuovi criteri che regolano la preselezione a livello d’ateneo, i progetti preselezionabili aumentano in misura consistente, in certi casi addirittura raddoppiando. Tuttavia, se da un lato questo sdrammatizza le procedure di preselezione locale, dall’altro continua a penalizzare gravemente le università medio-piccole. Inoltre, a ben vedere, si prospetta la diminuzione del numero totale dei progetti preselezionabili coi nuovi criteri (attenzione: non finanziati, ma inviati alla seconda fase di valutazione). Come ben illustrato dalla tabella ministeriale allegata al bando questi ultimi risulteranno in tutta Italia in numero superiore a quelli finanziati col bando 2009, ma nettamente inferiore a quelli finanziati dai due bandi precedenti. Ne seguirà certamente uno sgravio del lavoro di valutazione centrale – che il Ministro ha dichiarato in intervista essere uno dei suoi obiettivi – e, quanto alle risorse finanziarie, una concentrazione (e forse una ottimizzazione).

La realtà però è che comunque il finanziamento ministeriale complessivo della ricerca accademica italiana resta sostanzialmente stazionario, anzi, diminuisce, se consideriamo la mancata emissione di bando per un anno (a meno che il Ministro non ci rassicuri garantendo l’emissione rapida di un bando 2012). Non solo, ma col sistema della preselezione locale trovano applicazione un paio di principi paradossali: l’uno è che, dal punto divista ministeriale, sia desiderabile un minor numero di progetti portati a valutazione, restringendo di fatto la libertà del ricercatore di sottoporre il proprio progetto a giudizio; e l’altro è la solita commistione di dirigismo centralista e autonomia che da decenni regola la vita dell’accademia italiana e che, in questo caso, si traduce nello scaricare sulle singole università buona parte del lavoro di valutazione (chiamasi eufemisticamente “responsabilizzazione”), ma in base a regole predisposte senza alcuna partecipazione del mondo universitario, se non quella ottenuta a posteriori attraverso la pressione del dibattito e dell’opinione pubblica. In definitiva, ci guadagna forse il ministero, ma non di certo la ricerca italiana.

Questo ci porta ad effettuare alcune osservazioni più generali relative ad aspetti di metodo o, se si preferisce, di politica di finanziamento della ricerca. Il bando PRIN 2011, anche nella sua nuova formulazione,  introduce mutamenti sostanziali nei modi di finanziamento della ricerca accademica italiana, alterando profondamente le regole preesistenti, a loro volta diverse rispetto ai bandi ancora precedenti e così via risalendo all’indietro. È evidente come serie difficoltà operative debbano derivare dall’adozione di regole tanto diverse – indipendentemente dalla loro ratio – ad intervalli di tempo così ristretti rispetto alle scadenze di presentazione dei progetti, come si è visto in questa tornata (lo spostamento di una settimana dei termini è un po’ poco). Ma, oltre a questo, c’è da domandarsi se le vicende del bando 2011 non abbiano dimostrato come non sia verosimilmente il metodo più efficace quello di introdurre nuove regole facendole fuoriuscire bell’e confezionate dagli uffici ministeriali, senza un preliminare confronto con la comunità della ricerca nazionale e internazionale e senza un processo di preparazione sufficientemente disteso da ottenere il consenso degli operatori della ricerca. E non basta: c’è anche da chiedersi se sia così indispensabile effettuare – per di più con questo metodo burocratico-verticistico – ripetuti cambiamenti tali da vanificare qualsiasi costanza di contenuto e continuità nel tempo.

Vorremmo concludere provando ad indicare alcuni principi e alcune proposte per il finanziamento della ricerca che potrebbe essere utile tenere presenti.

Primo: il modo di fare ricerca non è affatto lo stesso nei vari comparti disciplinari e non appaiono razionali metodi che sembrano presupporre una uniformità insussistente; si potrebbe forse pensare alla coesistenza di linee differenziate, le une per ampi progetti presentati da reti d’eccellenza (sul modello tedesco) e le altre per progetti di dimensioni più contenute ma di numero superiore, ferma restando una equa distribuzione di risorse a salvaguardia della ricerca nelle aree socio-umanistiche, che in Italia presentano importanti poli di elevatissima qualità internazionale.

Secondo: la riscrittura delle regole di bando dovrebbe avvenire previo un ampio confronto con la comunità della ricerca e con un congruo anticipo di tempo rispetto all’emissione delle call.

Terzo: sarebbe indispensabile pervenire a quanto fino ad oggi non si è mai avuto, ossia stabilità di regole e costanza nel tempo dei bandi.

Quarto: i meccanismi di valutazione dovrebbero essere riveduti nel senso della massima trasparenza. La proposta avanzata da Guido Tabellini sul “Sole 24Ore” per una agenzia indipendente di finanziamento e valutazione dei progetti di ricerca potrebbe essere sicuramente ripresa, a patto però di far sì che la valutazione da parte di revisori esperti non rischi di trasformarsi nel gesto di anonimi irresponsabili – nel senso tecnico di ‘non responsabili’ di decisioni che possono seriamente andare a danno di chi spende le proprie energie nel confezionamento di progetti di indiscutibile serietà. Va bene responsabilizzare i ricercatori, va benissimo responsabilizzare le università: perché non responsabilizzare anche i valutatori ?

Quinta e ultima osservazione: la valutazione della ricerca è importantissima ed è giusto impegnarsi nella sua effettuazione. Ma affinché sia una prassi legittimata e pienamente accettata della comunità, la valutazione deve anche accompagnarsi alla disponibilità di risorse adeguate mediante le quali la ricerca possa essere prodotta, prima che valutata.

 

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