La disoccupazione giovanile in Italia ha raggiunto ormai livelli intollerabili (37%). Le sue cause sono spesso rintracciate in “un eccesso di istruzione”, a fronte di un sistema d’impresa che non richiede manodopera troppo qualificata. Ma le politiche messe in atto per risolvere il problema non fanno altro che assecondare un modello di sviluppo destinato a perpetuare il declino.
Il tema della disoccupazione giovanile – attestatasi al massimo storico del 37% – è pressoché assente nei dibattiti di questa campagna elettorale. La tesi dominante fa riferimento alla convinzione, ampiamente divulgata nel corso degli ultimi anni, secondo la quale la disoccupazione giovanile è molto elevata perché i giovani italiani sono eccessivamente istruiti. Una popolazione giovanile molto istruita – si argomenta – trova difficilmente occupazione, dal momento che le nostre imprese – salvo rare eccezioni, di piccole dimensioni e poco innovative – non hanno bisogno di un’ampia platea di lavoratori qualificati. L’implicazione di politica economica che ne deriva consiste nel ridurre l’offerta di lavoro qualificato, disincentivando le immatricolazioni alle Università, e spingendo i giovani a “riscoprire il valore del lavoro manuale”.
Occorre chiarire che si tratta di una tesi falsa e che l’implicazione di politica economica che ne deriva rischia di amplificare il problema, con effetti negativi sul tasso di crescita. La tesi è falsa per le seguenti ragioni.
1) Il numero di studenti iscritti alle Università italiane si è già significativamente ridotto nell’ultimo biennio, sia a ragione della campagna di delegittimazione dell’Istituzione, sia a ragione della consistente riduzione dei finanziamenti pubblici agli Atenei e del conseguente aumento delle tasse, in un contesto, peraltro, di significativa riduzione dei redditi. L’esistenza di effetti di apprendimento sembra aver rivestito un ruolo significativo in questa dinamica: avendo verificato – dall’esperienza delle precedenti generazioni – che laurearsi non conviene, si rafforza la convinzione che ciò sia vero. Il CNVSU – Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario – ha evidenziato che, nell’anno accademico 2010-2011, si sono immatricolati in Università italiane meno di 6 individui su 10 giovani diplomati. Nel Rapporto OCSE 2010 (“Education at a Glance”) si legge che il numero degli studenti universitari che conclude il percorso di studi si aggira attorno al 30%. Si osservi che ciò accade in un contesto nel quale è già modesto il numero di immatricolati e di laureati. L’Eurostat rileva che, a riguardo, l’Italia è ben al di sotto della media europea: nel 2011 la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro in età compresa fra i 30 e i 34 anni in Italia si è attestato, in Italia, al 20,3%, a fronte di una media europea del 34,6%, con Paesi che superano il 40% (Gran Bretagna, Francia e Spagna).
2) Un numero crescente di giovani laureati è già in condizioni di sotto-occupazione intellettuale, ovvero svolge mansioni per le quali non è richiesto il titolo di studio acquisito. Come certificato nell’ultimo Rapporto ALMALAUREA, l’utilizzo delle competenze acquisite con la laurea è mediamente molto basso, così che si può stabilire che l’argomento che vuole i giovani italiani “schizzinosi” non trova adeguati riscontri nei fatti.
Contrariamente alla tesi dominante, si può stabilire che la disoccupazione giovanile, anche riferita alla quota di giovani laureati, è in aumento perché il tasso di crescita è in riduzione. E’ palese che un’economia che registra un tasso di crescita negativo nell’ordine del –2.4% non può produrre aumenti della domanda di lavoro, né di quella rivolta a individui poco scolarizzati né di quella indirizzata a individui con elevati livelli di istruzione. In più, la tesi dominante non fa altro che prendere atto di un problema e, senza provare a risolverlo, cercare di aggirarlo. Il problema consiste nella scarsa propensione all’innovazione della media delle imprese italiane, a sua volta connesso alle piccole dimensioni aziendali e, non da ultimo, al fatto che la gran parte degli imprenditori italiani ha un basso livello di istruzione. L’ISTAT certifica che la dimensione media delle imprese italiane è superiore, nell’Europa a 27, soltanto a quella della Grecia e del Portogallo. La tesi del “piccolo è bello” – stando alla quale il ‘nanismo imprenditoriale’ italiano costituirebbe un fattore di vantaggio competitivo – ha legittimato la sostanziale assenza di una politica industriale in Italia, almeno a partire dall’ultimo trentennio. E’ bene chiarire che si è trattato di un errore teorico e politico di massima rilevanza, i cui effetti risultano oggi evidenti, con risvolti significativi (e di segno negativo) sulla domanda di lavoro qualificato. Su fonte Almalaurea, si registra che dal 2004 al 2010 la percentuale di lavoratori con alto livello di istruzione assunti dalle imprese italiane si è costantemente ridotta, in controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi dell’eurozona. Si osservi che questo fenomeno non è imputabile alla crisi in corso ed è, dunque, da ritenersi strutturale.
E’ difficile motivare la decurtazione dei finanziamenti pubblici alle Università senza far riferimento all’obiettivo di accrescere l’avanzo primario, che – come attestato su fonte Ragioneria Generale dello Stato – viene in larga misura destinato al c.d. fondo Salva Stati, rendendo l’Italia un contributore netto del bilancio europeo. Schematizzando, si può affermare che la sottrazione, nel corso dell’ultimo biennio, di circa il 13% del fondo di funzionamento ordinario agli Atenei italiani è anche servita ad accrescere gli utili delle banche europee. Questa operazione, peraltro, viene posta in essere avendo come vincolo la raccomandazione della Commissione Europea, rivolta a tutti i Paesi membri, in merito all’adozione di misure che agevolino l’aumento del numero di laureati, portandolo almeno al 40% nel 2020. Con crescita demografica pressoché nulla e costante riduzione del numero di immatricolazioni, appare molto verosimile prevedere che questo obiettivo non solo non verrà raggiunto, e che da questo ci si allontanerà molto rapidamente.
Ma ciò che maggiormente desta preoccupazione è il fatto che le politiche messe in atto non fanno altro che assecondare un modello di sviluppo dell’economia italiana che andrebbe semmai contrastato. La questione può porsi in questi termini: salvo rare eccezioni, le nostre imprese sono sempre meno competitive su scala internazionale, soprattutto a ragione del basso contenuto tecnologico dei beni prodotti. Porle nella condizione di disporre di un’ampia platea di lavoratori poco scolarizzati significa incentivare una modalità di competizione basata sulla compressione dei salari, che costituisce l’esatto contrario di ciò che occorrerebbe fare per accrescerne la competitività. E a ciò fa seguito un circolo vizioso: minori profitti derivanti dalle esportazioni implicano minori investimenti e minore occupazione; dunque un decremento della base imponibile; dunque – dato l’obiettivo del pareggio di bilancio – la necessità di ulteriori interventi di riduzione della spesa pubblica, anche sotto forma di ulteriori riduzioni dei fondi destinati al sistema formativo.
Posso dire che non c’è una virgola del post di Guglielmo che non vale la pena di essere sottoscritto. Un’analisi sintetica, ma lucida e pienamente condivisibile del declino italiano. E’ inutile girarci attorno, la situazione attuale è figlia di una lughissima stagione di scarsa lungimiranza dei nostri governi, di strategie a breve termine per tamponare piuttosto che di investimenti a lungo termine per cambiare il Paese. E per fortuna che l’ingresso in Europa ci ha tolto la possibilità di perseverare (diabolicamente) sulla strada della svalutazione per restare competitivi sui mercati internazionali. Purtroppo, però, stento a credere che i partiti o i media possano raccogliere un simile invito a riflettere seriamente sulle condizioni del Paese per avviare un grande dibattito pubblico sul futuro. I primi sono tutti presi dall’Imu, come se fosse l’unico problema che non fa dormire gli italiani, i secondi pendono ormai dal “pensiero unico” di Alesina, Giavazzi, Ichino e altri opinion leader e dal solo ingrediente (meno stato e più mercato) per tutte le ricette che propongono (università, ricerca, innovazione, sviluppo, lavoro, sanità, ecc.). D’altrone, come ricordava Barbara Spinelli su Repubblica qualche giorno fa, se anche Keynes è un estremista…
Mi associo alla lode per la lucida analisi di Guglielmo Forges Davanzati e ai complimenti e le osservazioni di Maurizio Avola.
Allarghiamo i nostri orizzonti: „How is the global talent pool changing?“ è il titolo di un comunicato dell` Organization for Economic Co-operation and Development (OECD). Perché noi pensiamo sempre al nostro orticello oramai pieno di erbacce, ma il confronto non è interno, è globale! Il pool di talenti è cresciuto rapidamente negli ultimi decenni e rimarchevole è la chiusura del “gap” tra pasi OECD e non-OECD G20.
La questione che pone quanto riportato sotto nei due link é:
Quanto coscienti siamo (e sono i nostri aspiranti governanti) della velocità di declino in Italia dell’ economia basata sulla conoscenza e il diritto all’istruzione in confronto alla situazione globale? Quanto coscienti siamo e sono del declino culturale della popolazione italiana stessa che si avvia ad essere “un paese ai margini” dell´Europa e del Mondo“? Lasciando però da parte le considerazioni che questa forma di capitalismo globale sia essa stessa in declino e non vediamo ancora come ne verremo fuori.
http://www.oecd.org/edu/50495363.pdf
http://www.unipd.it/ilbo/content/istruzione-il-sorpasso-di-cina-e-india-raccontato-dai-numeri
Sottolineo dall’articolo dell’OECD:
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„The expansion of higher education in rapidly-developing G20 nations has reduced the share of tertiary graduates from Europe, Japan and the United States in the global talent pool.
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If current trends continue, China and India will account for 40% of all young people with a tertiary education in G20 and OECD countries by the year 2020, while the United States and European Union countries will account for just over a quarter.
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The strong demand for employees in “knowledge economy” fields suggests that the global labour market can continue to absorb the increased supply of highly-educated individuals.“
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These findings also suggest that countries would be well-advised to pursue efforts to build their knowledge economies, in order to avoid skills mismatches and lower private and public returns on education among their higher-educated populations in the future.
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the global talent pool has never been larger – and will continue to expand, with rapidly-growing G20 nations likely leading the way.