Gentile Ministro,
in primo luogo molti auguri. Ne ha davvero bisogno chi si accinge a governare un ministero (doppio) che, di solito, non viene menzionato tra quelli pesanti ma che è, al contrario, uno dei più strategici e difficili. È strategico perché si parla continuamente della centralità dell’istruzione nella “società della conoscenza” e poi la si tratta come l’ultimo dei problemi, o la si considera in termini meramente economici e occupazionali. È difficile non solo per la congerie dei problemi che si sono accumulati in anni di uso strumentale dell’istituzione, come ammortizzatore sociale, bacino elettorale, terreno di sperimentazioni di teorie cervellotiche e di riforme mal fatte o stravolte. Ma anche perché qui si manifesta, forse più che altrove, un male giustamente indicato giorni fa da Osvaldo De Paolini sul Messaggero: la difficoltà di «varare norme applicabili subito, senza che ci si debba perdere nel labirinto dei regolamenti attuativi, dominio assoluto di una burocrazia parassitaria che pensa soltanto a perpetuare se stessa».
Si parva licet, ho sperimentato una siffatta esperienza con il progetto dei TFA (Tirocini Formativi Attivi) che contribuii a varare con un’autorevole commissione e che arrivò a destinazione completamente stravolto nello spirito e nella lettera. E tutti sanno quale scempio hanno fatto i decreti attuativi della riforma universitaria, qualsiasi cosa se ne pensi. Il minimo che si possa dire è che l’intento tanto declamato che fosse necessario costruire un sistema di verifica e valutazione a valle si è trasformato in un sistema di verifica e valutazione a monte, di una rigidità che non ha uguali in alcun paese al mondo.
Il primo augurio che le si deve quindi fare è che riesca a esercitare pienamente la sua funzione di ministro, e a non farsi ridurre al ruolo di “re Travicello” dal prepotere di una burocrazia e di una dirigenza che ha sempre detto, neanche sottovoce, che “i ministri passano e noi restiamo”; e da enti cui è stato dato un ruolo smisurato e fuori controllo come l’Anvur, l’Invalsi e l’Indire. Quando si legge, sulle pagine di questo giornale, un’intervista al Commissario dell’Invalsi in cui si fanno proposte e si indicano soluzioni per l’esame di maturità ci si chiede: a che punto siamo arrivati? Non è il ministro e la politica, il parlamento, che dovrebbero proporre e disporre, mentre l’intendenza dovrebbe seguire ed eseguire? Qui siamo ridotti al contrario. Non è quindi strano che, in un’opinione pubblica esasperata da un modo di governare poco trasparente, le poche istituzioni che conservino un prestigio elevato siano i carabinieri e la polizia, usi a obbedir tacendo, poiché ancora non si è dato il caso che neppure un altissimo ufficiale di quei corpi si sia presa la libertà di indicare pubblicamente al ministro dell’Interno quali scelte fare in tema di ordine pubblico.
I problemi che lei dovrà affrontare sono tanti e tali che non potrebbero essere seriamente elencati e discussi in un pezzo giornalistico. Mi limiterò a un tema generale che desumo da una sua confortante e, per me, totalmente condivisibile dichiarazione che spero di riportare fedelmente:
Per rendere il sistema meno soggetto a problemi di corruzione e localismo nel corso degli anni è stato impostato un sistema di selezione che tende a inserire rendicontazioni, controlli e utilizzo di indicatori numerici. Il fine è rendere meno soggettivo e più automatico possibile il processo di selezione sia nel campo del finanziamento alla ricerca che nel reclutamento dei ricercatori. Sembra una lotta fra il bene e il male ed è come se rendere il processo di scelta automatico e basato sui soli numeri ci salvasse dalla tentazione dei decisori di manipolare il sistema. Il risultato è che abbiamo messo in piedi un sistema involuto e farraginoso, ed abbiamo perso l’obiettivo primario di combattere le manipolazioni. Abbiamo perso anche la finalità di diffondere un’etica pubblica basata sulla reputazione e sulla responsabilità personale di cui l’Italia ha un gran bisogno.
Ecco, vorrei partire da queste ultime parole che, senza esagerazione, hanno aperto il cuore a molti: «etica pubblica basata sulla reputazione e sulla responsabilità personale». Finalmente sentiamo parlare di “persone” e di “responsabilità personale”, dopo che per anni si è prospettato come unico modo di valutare il comportamento degli attori principali della scuola e dell’università – insegnanti e ricercatori – con determinazioni automatiche, macchinali, pretesamente “oggettive”, basate su parametri numerici e che, deliberatamente, fanno astrazione della specificità delle persone, e pretendono di trasformare qualità e contenuti in numeri.
Da anni si ripete la stessa canzone: “chi si oppone a indicatori numerici, test, tabelle, certificazioni, ecc. non vuole la valutazione, non vuole essere valutato perché vuol fare il comodo suo”. È una canzone falsa e ricattatoria, perché non volere un certo tipo di valutazione non vuol dire che non si voglia alcuna valutazione. Naturalmente c’è chi ragiona così – nullafacenti e corrotti esistono nel sistema dell’istruzione e della ricerca come ovunque – ma questo non autorizza a coglierlo come pretesto per imporre sistemi insensati che hanno come unico esito di trasformare l’insegnante in un burocrate, in una macchina soggetta alle prescrizioni di enti e soggetti sottratti ad ogni controllo e valutazione.
Quest’anno, quando ho iniziato il mio corso, un collega mi ha chiesto se mi “disturbava” che venisse a sentirmi. Ho considerato che la sola ipotesi di una risposta affermativa sarebbe stata scandalosa e, d’altra parte, ho sentito che questa presenza rappresentava un “controllo”, uno stimolo pressante a fare il massimo e, in definitiva, era un’occasione da cogliere, che avrebbe potuto far bene alla qualità delle mie lezioni. Ho accettato questo (e accetterei valutazioni scritta di un collega), ma avrei respinto recisamente una valutazione fatta da esterni, magari da una equipe di statistici o di “economisti della scuola” (la nuova moda dilagante) sulla base di questionari, schede di valutazione degli studenti a base di domande cui è impossibile dare una risposta sensata a quel livello di maturità, o di parametri quantitativi. Nel campo della ricerca scientifica interi settori, come quello della storia delle discipline scientifiche, si stanno inabissando in quanto inesistenti dal punto di vista dei parametri messi in opera in modo cieco e sconsiderato dall’Anvur, il quale nella sua furia dirigistica pretende persino di valutare università, corsi e docenti attraverso la valutazione (ovviamente automatica, a test e parametri vari) degli apprendimenti degli studenti, oltretutto annullando di fatto l’autonomia universitaria.
È quindi su questo tema centrale della valutazione che vorrei attirare la sua attenzione, nella consapevolezza che esso è all’origine di un profondissimo disagio nel mondo dell’istruzione e della ricerca. E qui vorrei pregarla di non vedere questa questione a livelli separati: università, ricerca, scuola. La questione è unica e unica è la via sbagliata su cui ci stiamo incamminando. Anvur, Invalsi e Indire sono l’unica faccia di un’unica scelta. L’Anvur, che doveva organizzare la valutazione ex post del sistema dell’università e della ricerca, ha predeterminato i criteri di valutazione per l’abilitazione dei docenti universitari e delle commissioni giudicanti, sulla base di parametri numerici a dir poco discutibili (e in vari paesi proscritti), e ora pretende, come si è detto, di governare ogni aspetto di quelle istituzioni. L’Invalsi sta passando dalla funzione di valutazione del sistema dell’istruzione a quello di valutazione diretta degli studenti, con discutibilissimi apparati di test, sottraendo sempre di più questa funzione agli insegnanti, e introducendo la disgraziata tendenza al “teaching to the test”, e creando la moda della didattica a quiz, con la risposta “chiusa” a caselle o su poche righe tratteggiate. Come genitori, assistiamo sconcertati e impotenti a tale deriva che disabitua i nostri figli alla lettura di più di mezza pagina, alla riflessione complessa, al ragionamento dispiegato, al fraseggiare che vada oltre i singulti espressivi, che induce a incasellare tutto in schemini stereotipati. Si straparla di migliorare gli apprendimenti della matematica e invece si diffonde una matematica sempre più calcolistica, arida, definitoria, enigmistica, che non può non suscitare ripulsa. Nella commissione che ho citato all’inizio, si erano progettate lauree specifiche per la formazione degli insegnanti il cui affossamento, assieme allo stravolgimento dei TFA, prelude al passaggio del sistema della formazione degli insegnanti a un organismo burocratico come l’Indire, sottraendolo all’unico soggetto culturalmente sensato: la collaborazione tra scuola e università.
Nessuna persona seria e onesta che lavori nel sistema dell’istruzione può rifiutare la valutazione, ma un serio sistema di valutazione non può che nascere come processo culturale di miglioramento all’interno dell’istituzione attraverso il confronto e il controllo reciproco. Questo significa che un sistema di valutazione serio ha senso soltanto come sistema di ispezioni interno all’istituzione e non governato dall’esterno da organismi irresponsabili, sottratti a ogni valutazione e controllo. Tanto più se questi organismi procedono sulla base di quei sistemi basati su indicatori numerici – il che è peraltro spesso reso inevitabile dal fatto che i “valutatori” sono per lo più statistici o economisti della scuola che magari non hanno mai messo piede in un’aula e non hanno alcuna competenza disciplinare.
Ogni azione sull’istruzione e sulla ricerca che non metta al centro le persone, la cultura, la conoscenza, è profondamente sbagliata e pericolosa.
Basterebbe una sola osservazione a mostrare quanto la via che si è presa sia opaca e avventata. In questi anni, da parte di chi si oppone a questa ossessione burocratico-numerica falsamente “oggettivista” sono stati prodotti argomenti a non finire, documenti, analisi che molto spesso provengono dall’estero e fanno riferimento a sperimentazioni già fatte e agli esiti disastrosi che hanno avuto. Non sto a fare qui l’elenco di questi documenti che spaziano dal campo dell’uso rovinoso di indicatori numeri quali l’impact factor e il citation index nella ricerca, ai pessimi esiti dei sistemi di valutazione mediante test nella scuola che hanno fatto passare per un “successo” autentici disastri come l’insegnamento della matematica in Finlandia. Mi limito a ricordare che un’autorità come Diane Ravitch, principale consigliere di Bill Clinton e protagonista delle riforme statunitensi basate su test, accountability e competenze (mettendo in secondo piano conoscenze e curricula) ha scritto un libro di profonda e radicale revisione autocritica (The Death and Life of the Great American School System), sostenendo che al primo posto occorre rimettere conoscenze e curricula e che «una persona ben istruita ha una mente ben riempita di conoscenze, formata dalla lettura e dal pensiero sulla storia, la scienza, la letteratura, le arti, la politica. Una persona ben istruita ha appreso come spiegare le idee e ad ascoltare rispettosamente gli altri».
Lei non pensa signor Ministro che tutte queste problematiche meriterebbero una riflessione pubblica approfondita e che, soltanto dopo tale riflessione, la politica dovrebbe scegliere la strada da seguire e imporla all’intendenza? Invece finora qualsiasi obiezione è stata accolta senza risposta di merito, con una scrollata di spalle, e trattata sprezzantemente come frutto di una minoranza di agitati e di fanatici. Se si interrompe questo andazzo il proposito di “ridare dignità alla funzione dell’insegnante” diventa uno slogan vuoto.
Da ulteriore speranza la sua affermazione che occorre procedere con cautela con l’agenda digitale, non facendone la priorità assoluta. Sia chiaro nessuno vuole intralciare il progresso. Ma la tecnologia non è il toccasana di per sé e, anche qui, i metodi non possono venire avanti ai contenuti. Non si può andare avanti a tappe forzate verso i libri digitali senza preoccuparsi minimamente di come verranno strutturati in termini di contenuti, di come introdurre una formazione culturale di qualità con i nuovi sistemi. Sappiamo bene che attorno a tale agenda vi sono potenti interessi economici, e anche affaristici, ma il primo compito della politica in un momento in cui si straparla di giovani, è di mettere avanti a tutto l’esigenza di formare nuove generazioni seriamente preparate ai massimi livelli. La determinazione degli strumenti più adeguati viene di conseguenza.
Gentile Ministro, restituisca la speranza che finalmente cultura, conoscenza, scienza ritornino ad essere il centro gravitazionale del sistema dell’istruzione e della ricerca.
pubblicato su Il Sussidiario, 2 maggio 2013
Alcune note di commento.
L’ANVUR non è (o non dovrebbe essere) stata concepita solo per eseguire “valutazioni ex-post”, le quali, peraltro, presentano tutti i medesimi problemi indicati nell’articolo, come ogni valutazione.
L’ANVUR esiste, nel Quadro concettuale in cui esisteva già prima in CNVSU (ed il CIVR), per delegare a strutture professionali – e quindi composte/governate principalmente da accademici e non da politici o dirigenti amministrativi – la funzione di assicurare una qualità accettabile della formazione impartita dalle Università Italiane e della ricerca svolta in Università ed Enti Pubblici.
E’ fuori luogo pensare che questo ruolo coincida con “valutazioni ex-post”, ed il fatto che nello specifico della valutazione dei prodotti della ricerca (un frammento dei compiti dell’Agenzia), si proceda ovviamente in modalità retrospettiva non deve fuorviare la visione.
In generale, invece, la valutazione del ruolo formativo delle Università non può essere considerato come banalmente “ex-post”, in primis perché a valutare l’apprendimento degli studenti ci pensano già le Università stesse (con i metodi adeguati al caso): sono lì per quello.
C’era un discorso ideologico da implementare e i dirigenti dell’ANVUR hanno preferito quello – purtroppo – ma ciò non toglie che il ruolo dell’ANVUR sia (e debba essere) complesso e multiforme.
Il CNVSU ha resistito a lungo alle richieste provenienti da ambienti accademici di mettere a punto un sistema di valutazione nazionale della ricerca universitaria. E infatti la VTR è stata introdotta dal CIVR (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) che a rigore non aveva competenze sulle università (le quali parteciparono alla vtr su base volontaria). Nonostante il parziale successo della VTR. La prudenza del CNVSU era ben posta. L’idea di valutazione della ricerca che ha prevalso è quella della punizione dei fannulloni e degli incompetenti, che sono, naturalmente i propri rivali accademici. Ci si è messi quindi sulla strada di un attacco alla “academic freedom”, da parte di un organismo nazionale, che sarebbe, per fortuna, inconcepibile negli Stati Uniti d’America. Per fortuna molte aree e comunità scientifiche (ad esempio la matematica) subiscono fortemente l’influenza della comunità scientifica internazionale, che è per sua natura pluralista, e che comunque ignora le deliberazioni dell’anvur. Questo le salva dal pericolo di essere costrette all’interno di un “mainstream” nazionale. Molto più rischiosa ed inquietante è la posizione delle scienze umane e sociali, che possono essere soggette a condizionamenti a livello nazionale, ad esempio attraverso la famigerata graduatoria delle riviste che rischia di rendere impossibile opporsi al “mainstream” ben ancorato alle riviste di serie A.
Il VTR (e poi la VQR) risponde a principi troppo eteronimi rispetto alla costruzione che sottende il sistema universitario italiano.
Eteronimi?
I cui “nomoi” (= norme) risultano fortemente difformi (= stabiliti da altri – “eteroi”).
eteronomi
In molte universita’ italiane nei testi di ammissione a certi corsi di laurea, ci si affida ormai a “aziende esterne specializzate” che, dicono, “hanno competenza ed esperienza pluriennale in materia”.
Dubito pero’ che i test di ammissione alla SNS di Pisa o all’Univ. di Cambridge vengano fatti preparare da “aziende esterne specializzate”.
Tweet di Maria Chiara Carrozza:

Un tweet di questo genere è già qualcosa rispetto al totale silenzio passato.
Anche io sono grata a Giorgio Israel per la “lettera aperta”, di cui condivido pienamente toni e contenuti.
Da sottoscrivere con convinzione l’assunto che “Ogni azione sull’istruzione e sulla ricerca che non metta al centro le persone, la cultura, la conoscenza, è profondamente sbagliata e pericolosa”. I temi ed i problemi sono tanti, come giustamente osserva Israel; in questo momento, penso soprattutto ai criteri che le commissioni sorteggiate per le ASN stanno man mano elaborando e pubblicando (mi riferisco all’area a cui appartengo, che è quella delle scienze giuridiche). Anche qui rilevo una certa ossessione burocratico-numerica: eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che, richiedendo un numero x di articoli o di monografie per diventare ordinario, si incentiva la quantità, ma non la qualità della produzione scientifica. Come indurre i giovani studiosi ad occuparsi di temi importanti ed impegnativi, che comportano uno studio pluriennale, se poi la gara la vince chi ha studiato temi circoscritti e di scarso respiro, che consentono di “chiudere” un articolo in poche settimane? Dicono che il numero serve a sveltire il lavoro dei membri delle commissioni, ai quali non si può chiedere un giudizio di merito analitico, basato sulla lettura delle singole opere, perché non ve ne sarebbe il tempo. Non sarà allora il caso di precisare, per le future tornate di ASN, che il lavoro dei commissari è duro e che chi ha poco tempo da dedicarvi farebbe bene ad astenersi da questo compito istituzionale?
Come non condividere i concetti espressi così approfonditamente da Giorgio Israel?
In Italia da un po’ di tempo a questa parte si è fatto di tutto per demolire l’istruzione e la ricerca pubbliche. Mio figlio sta per concludere le medie e in questi anni ne ho viste di tutti i colori. I test invalsi sono assurdi e sbagliati dal punto di vista educativo e didattico, ma questo non interessa, dobbiamo equipararci alla normativa europea. Come se non bastasse, molti istituti scolastici sono spesso luoghi depressi e deprimenti, sia dal punto di vista degli insegnanti e delle loro capacità didattiche (persone capitate lì per caso e spesso impreparate, eccezioni a parte), sia per quanto riguarda le condizioni ambientali. E’ mai possibile che in molte scuole debba mancare persino la carta igienica? Che messaggi pensiate che ricevano i nostri figli? Una classe politica che ha permesso che milioni di giovani “crescessero” in tali condizioni meriterebbe come minimo l’esilio, ma temo che difficilmente riceverebbe ospitalità in qualsiasi paese…
Per quanto riguarda, università e ricerca, caro Ministro Carrozza, siamo alla frutta! L’università e la ricerca in Italia hanno certamente bisogno di una cura che però non uccida il paziente, come purtroppo è accaduto negli ultimi anni e come sta accadendo ora con l’utilizzo delle sconsiderata valutazione dell’Anvur. Un cambio di strategia è urgente e richiede provvedimenti immediati e a lungo termine.
Spero ardentemente che il ministro Carrozza tra i suoi primi interventi avrà la forza di mettere finalmente in atto misure efficaci che introducano un nuovo sistema di valutazione per l’assegnazione dei finanziamenti, per il reclutamento e la progressione delle carriere, basato su qualità, etica e responsabilità. Se ciò non accadrà, se la classe politica e dirigente del nostro paese continuerà solo a sbandierare proclami elettorali e agende virtuali, se l’istruzione e la ricerca pubbliche verranno fatte morire, il decadimento morale e culturale del nostro paese sarà definitivo e irreversibile.
Una nota breve: non esiste alcuna “normativa Europea” cui “dobbiamo equipararci” in merito all’effettuazione dei “test INVALSI” – fosse anche solo di raccomandazione.
I test INVALSI sono stati concepiti e vengono realizzati **spontaneamente** dall’Italia, in base a politiche nazionali autonome messe in campo negli ultimi anni. Queste politiche si confrontano, peraltro, con la libera scelta dell’Italia di aderire, nell’ambito dell’OCSE (Organizzazione per lo Cooperazione e lo Sviluppo Economico), alle periodiche rilevazioni dell’apprendimento degli studenti quindicenni (il noto Programma PISA) nonché ad altre similari programmi più o meno specifici che ora non merita menzionare.
Non mi sfugge l’idea che in un tale Quadro politico-istituzionale si sia “de facto” spinti all’introduzione di test del tipo PISA-INVALSI, ma vorrei che la descrizione di ruoli, motivazioni e responsabilità fosse più precisa, da parte dei dibattenti.
Allora siamo più precisi: provincialismo, conformismo, appiattimento del sapere sul modello dei quiz.
Un simpatico tweet è qualche cosa. Ma qui si tratta di ridare dignità (fiducia è troppo dire) a un corpo docente che si è creduto di riformare sparando nel mucchio, cioè pensando che siamo tutti nepotisti, pigri e assenteisti. Vorrei che la ministra ricevesse una valanga di lettere.
Tutti no. Pero’, “I’ve seen things you people wouldn’t believe” …
Non solo tu Luca. Ma credo che oramai siamo abbastanza maturi tutti quanti da valutare come meritano certi personaggi all’interno dei dipartimenti. Lo stigma può essere molto efficace.
Quando la valutazione è fatta da numeri anonimi e da persone anonime che magari sono costrette da terzi e da secondi fini a fare la valutazione, mi spiegate che senso ha questa valutazione???
Studenti che non hanno nessuna voglia di compilare questionari e che li compilano perchè altrimenti non possono sostenere gli esami e che li compilano anche se non sono andati a lezione. Che senso ha tutto questo???