La storia dell’ANVUR, per quanto breve, è già piuttosto ricca di pasticci, vane elucubrazioni e vere e proprie supercazzole prematurate[1] degne del più ispirato conte Mascetti nell’indimenticabile film di Mario Monicelli Amici miei. Ma, fra tutte le supercazzole che finora l’ANVUR ci ha ammannito in tema di valutazione della ricerca (complice il MIUR), quella dell’invenzione delle riviste di classe A merita forse la palma d’oro per la più stucchevole e capziosa.
Il concetto di rivista di classe A, distinta dalla rivista semplicemente scientifica, corrisponde davvero a un referente individuabile nel mondo esterno? Inoltre, ammesso che realmente esista, è un referente che si può definire in modo inequivoco e tale da non generare usi ambigui, arbitrari e strumentali? Infine, se anche esistesse e fosse definibile univocamente, il concetto di classe A di una rivista è davvero utile per il sistema della ricerca e dell’università?
Vorremmo partire dall’inizio, così come ogni buona e onesta narrazione dovrebbe fare. Partiamo allora da quell’invenzione favolosa – nel senso di fantastica, immaginaria e chimerica (nell’accezione di mostruosa) – che è stata la supercazzola delle mediane, concepite per distinguere il grano dal loglio in occasione dell’epocale avvento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale. Com’è noto, l’oggetto in questione è evaporato quasi ancor prima di essere creato. Le cosiddette mediane, infatti, sono state realmente usate solo per stabilire i docenti sorteggiabili nelle commissioni ASN. Per il resto, in quanto requisito curiosamente non sufficiente ma neanche necessario per ottenere l’abilitazione, sono state utilizzate in maniera piuttosto disinvolta e creativa: applicate quando servivano a colpire nemici e interpretate per salvare qualche amico.
Nel momento in cui scriviamo non sappiamo ancora se il criterio delle mediane sarà mantenuto anche nelle prossime abilitazioni. Discutiamo allora delle mediane come se quest’oggetto inventato, questa “macchina inutile” prodotta dall’avanguardistico e futuristico pensiero anvuriano, fosse qualcosa che fa ancora parte della nostra realtà. Ammesso e non concesso che le mediane siano un oggetto dotato di senso e di utilità, concentriamo la nostra attenzione sulle tre mediane dei settori cosiddetti non bibliometrici. Le prime due – quella riguardante i libri dotati di ISBN e quella concernente i capitoli in libri dotati di ISBN e gli articoli in riviste dotate di ISSN – fanno riferimento a oggetti esistenti e riconoscibili nel mondo. Se le mediane dovevano essere proprio tre (come le Grazie e le Virtù Teologali, la Trimurti e la Santissima Trinità o, forse, soltanto tre come le mediane dei settori bibliometrici), tre sono anche gli oggetti esistenti cui potevano essere riferite: le monografie, i capitoli di libro e gli articoli in rivista. Perché, invece, si è sentita l’esigenza di quella invenzione nominalistica che va sotto l’etichetta di “rivista di fascia A”, flatus vocis cui (all’epoca) non corrispondeva nessun referente osservabile nel mondo reale?
Va premesso che una simile invenzione non parrebbe dettata da ragioni di carattere scientifico, né è stata elaborata dalle comunità accademiche di riferimento delle discipline non bibliometriche. È stata concepita per legge, come strumento di governo a scopo espressamente selettivo, tant’è che ha visto la luce per la prima volta nel “Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale” (DM n. 76 del 7 giugno 2012), e precisamente nell’allegato B dove si è postulato che le riviste di classe A fossero quelle “dotate di ISSN, riconosciute come eccellenti a livello internazionale per il rigore delle procedure di revisione e per la diffusione, stima e impatto nelle comunità degli studiosi del settore, indicati anche dalla presenza delle riviste stesse nelle maggiori banche dati nazionali e internazionali” (art. 2 lettera a). Una formulazione strepitosa – di cui peraltro non erano sfuggite insidie e buchi neri[2] – che suona come l’ennesima supercazzola prematurata di cui è costellata tutta la vicenda della valutazione made in Italy.
Ma che senso possiamo attribuire al fatto che si sia scelto di inventare di sana pianta una categoria concettuale relativa a oggetti non ancora esistenti per farne il contenuto della terza mediana? Sorvolando sull’assurdo logico e giuridico costituito dalla validità retroattiva della classificazione delle riviste, oltre che sui paradossi derivanti dalla perenne instabilità della base di dati dalla quale si è scelto di partire per costruirla[3], ci chiediamo perché mai, in un Paese che dal 2009[4] non è ancora riuscito a realizzare l’anagrafe della ricerca delle Università italiane, si sia sentito il bisogno insopprimibile di cacciarsi in un insidiosissimo ginepraio come la creazione di un ranking di riviste scientifiche dei settori non assistiti dalla tradizionale bibliometria, per giunta nel brevissimo periodo intercorso dal 3 luglio 2012 (nomina del Gruppo di lavoro Riviste e libri scientifici, delibera ANVUR n. 55[5]) al 23 agosto 2012 (delibera ANVUR n. 67 sul “calcolo delle distribuzioni degli indicatori non bibliometrici e delle relative Mediane”[6]).
Inutile dire che la surrettizia introduzione di un ircocervo come la nozione di “rivista di classe A” – della quale, direbbe Aristotele, è possibile raggiungere una conoscenza condivisa dell’espressione, ma non risalire all’essenza – ha comportato a cascata la conseguente artificiosa invenzione delle relative caratteristiche, oltre che dei criteri, delle procedure istruttorie e dei dispositivi governamentali necessari ad accreditarle. Il che è alla base di quella tormentata e opaca vicenda, ricca di tensioni e contenziosi nonché di esiti paradossali e grotteschi, che ha dato luogo alla costruzione di liste delle riviste nella loro divisione per fasce, e quindi alla creazione del neo-oggetto “riviste di fascia A”. Gli interrogativi in questa vicenda sono davvero tanti. Perché questa invenzione era tanto urgente e necessaria? Da dove proviene? A che cosa e soprattutto a chi serve?
In effetti, c’è una risposta ufficiale alla domanda sul perché si sia ritenuto indispensabile questo sforzo tanto imponente quanto perturbativo del clima, degli animi e delle certezze di numerose comunità scientifiche. L’esigenza di disporre di fonti di informazione scientifica accreditate esiste da sempre, ma si ritiene che abbia acquisito particolare impulso nelle condizioni in cui opera la ricerca nel mondo contemporaneo. Da una parte, le istituzioni e i soggetti che fanno ricerca si sono moltiplicati fino a rendere praticamente impossibile la frequentazione diretta fra ricercatori e la conoscenza dei relativi lavori. Dall’altra, la ricerca scientifica è diventata un’attività che sempre più opera con logiche di mercato e che attira ingenti investimenti finanziari in cerca di remunerazione. L’effetto combinato di questi mutamenti spiegherebbe perché fin dagli anni ’60 si sono elaborati sistemi bibliometrici più o meno sofisticati e più o meno affidabili per monitorare e certificare la qualità dei sistemi di ricerca e degli strumenti atti a pubblicizzarli.
Questi sistemi hanno pregi e difetti. Quasi tutti gli esperti, però, oggi concordano sull’inopportunità di adottare un ranking delle riviste (in qualunque modo lo si costruisca) come strumento di valutazione degli articoli o dei ricercatori.
Nel nostro caso in particolare, in cui si è tentato di innestare logiche di classificazione delle riviste in campi di sapere tradizionalmente non investiti dalla bibliometria, va detto che lo stesso concetto di “rivista di classe A” non appare dotato di maggior consistenza ontologica delle nozioni di etere o di flogisto. Intendiamoci, i ranking possono anche essere efficaci strumenti di misurazione di eventi reali, come ad esempio la classifica ATP di tennis. In questo caso il ranking corrisponde a una serie di fatti immediatamente percepibili e quantificabili, ossia l’insieme dei risultati ottenuti nei tornei dai tennisti. Ma una rivista non è che un contenitore di articoli, di cui appare piuttosto fuorviante, oltre che pretestuoso e velleitario, redigere una graduatoria per classi di merito.
Del resto, pensare di ottenere dal ranking di una rivista delle indicazioni attendibili sulla qualità dei testi ospitati sarebbe non meno arbitrario e non più sensato che inferire le qualità di un paio di scarpe dalla scatola che le contiene. Certo, una scatola lussuosa contiene di solito calzature costose e (forse) di buon pellame. Ma non risulta che gli acquirenti abbiano l’abitudine di procedere a un’accurata valutazione delle scatole prima di comprare le calzature, probabilmente perché consapevoli della necessità di misurare le scarpe per sapere se sono comode, oltre che di vederle per giudicare se sono di loro gusto. Inoltre, la scientificità di una rivista, così come la robustezza di una scatola, non può che essere una yes or no question secondo che rispetti o meno certi requisiti, ammesso che essi vengano ritenuti essenziali (ad esempio, referaggio doppio cieco o no; comitato scientifico o no; accurato controllo redazionale o no, ecc.). In nessun modo essa può dar luogo a una gerarchia che preveda riviste di “classe A” distinte da altre riviste scientifiche.
Quanto poi a inferire la qualità di un contenuto dal suo contenitore, consapevoli di non essere originali e anzi vergognandoci un po’ nell’enunciare banalità, pensiamo di poter affermare che l’unico modo per stabilire la qualità di un articolo è leggerlo. Certo, è proprio imbarazzante ribadire una ovvietà. Ma dovrebbe essere a maggior ragione sconcertante ritenere di potervi derogare, specialmente se tale deroga appare tutt’altro che giustificata e argomentata in modo convincente. Invece no: oggi chi si mette al di fuori dell’ovvio e del buon senso non soltanto passa per essere uno stimatissimo esperto di valutazione bibliometrica, e come tale viene doviziosamente pagato con denaro pubblico, ma è addirittura confortato in questa impresa da un apposito decreto ministeriale che ha dato vita alla nebulosa nozione di “rivista di classe A”. E allora, visto che detto da noi – e per giunta in italiano – la cosa può sembrare troppo banale, riproponiamo il concetto con le parole dalla San Francisco Declaration on Research Assessment: “the scientific content of a paper is much more important than publication metrics or the identity of the journal in which it was published”[7].
Le critiche al concetto di rivista di classe A vanno estese anche al metodo con cui l’ANVUR ha gestito il compito di definire che cosa sia una rivista di classe A (e dunque di determinare quante e quali esse siano). È bene ricordare sempre il peccato originale della nomina governativa del Consiglio Direttivo dell’ANVUR, avvenuta nel febbraio 2011[8] ad opera della ministra Gelmini del declinante governo Berlusconi quater, sulla base di un elenco composto da un Comitato di selezione nominato anch’esso da quella stessa ministra[9]. Il Consiglio Direttivo dell’ANVUR ha, a sua volta, nominato un “Gruppo di lavoro Riviste e libri scientifici” per ciascuna delle sei aree CUN cosiddette non bibliometriche. Questo, coordinato dal presidente ANVUR Stefano Fantoni, è composto da quattro professori ordinari – in ruolo o fuori ruolo – e, di diritto, da tutti i membri del Consiglio Direttivo dell’ANVUR.
Appare quanto meno singolare che a decidere dei destini delle riviste italiane siano soltanto 24 persone di nomina governativa. Tanto più singolare se si considera che si richiedeva loro di scremare finalmente l’eccellente dal mediocre e dal pessimo, e la pura scienza dalla paccottiglia, nella grande mole delle riviste in cui gli studiosi di circa 170 settori scientifico-disciplinari pubblicano i loro “prodotti di ricerca”.
In breve, otto “esperti” nominati da un ministro di un governo decaduto (perché nel giugno 2012 era in carica il governo Monti, e il ministro era Francesco Profumo), giudicano e nominano, a colpo sicuro e in modo a dir poco disinvolto, coloro che per due anni dovranno selezionare, fra le riviste italiane, i “sommersi e i salvati”[10]. Una procedura bizzarramente antinomica rispetto alla cultura della valutazione che essi dovrebbero contribuire a promuovere e legittimare. Nessuno, infatti, se non il Consiglio Direttivo, ha valutato, valuta, valuterà o potrà valutare i valutatori.
Per giunta, la procedura ANVUR ha concentrato un assoluto potere decisionale sulle riviste nelle mani di direttori e membri di comitati scientifici, esponenti di gruppi di lavoro e di ricerca, a loro volta vicini a riviste, editori, associazioni, società. Quasi ineluttabilmente, verrebbe da dire, perché nella prima fascia dell’accademia non v’è chi non sia in qualche modo legittimo portatore di un interesse, e altrettanto legittimamente inserito in reti di lavoro, amicizia e affinità scientifica e in contatto più o meno costante con organizzazioni editoriali.
Vorremmo che fosse chiaro: lo Stato, attraverso un’agenzia non autonoma in quanto di nomina governativa, ha affidato a soggetti inevitabilmente portatori di interessi privati e “particulari” il potere di condizionare gli esiti dell’esercizio di una funzione pubblica quale il reclutamento dei docenti universitari. E di poterlo fare – proprio in quanto direttamente “nominati dall’ANVUR” – in assoluta indipendenza dai sistemi di equilibrio che governano le rispettive comunità scientifiche di riferimento.
Ora noi siamo assolutamente certi che tutti i nostri docenti siano “tuttavia uomini d’onore”, come Shakespeare fa dire a Marco Antonio nell’orazione funebre di Cesare. Noi non veniamo qui a smentirli. Ma quello che sappiamo e di cui siamo altrettanto certi è che un simile meccanismo – cosa che tutti gli organismi che assolvono a una funzione pubblica dovrebbero evitare accuratamente – potrebbe essere usato senza rischio alcuno da chi volesse operare abusivamente e surrettiziamente per una ridistribuzione del potere accademico, o, come alcuni già sostengono, per creare “un superbaronaggio, con componenti anche esterne all’università”[11]. Quello che sappiamo e di cui siamo certi è anche che – pur in assenza di dolo e di premeditazione da parte di chicchessia – tale dispositivo procedurale è destinato inevitabilmente a creare posizioni dominanti nel campo dell’editoria scientifica. Ad alcune aziende editoriali viene, nei fatti, concesso – da un organismo preposto a una funzione pubblica – l’esercizio di un significativo e duraturo potere su professori, ricercatori e aspiranti tali. In breve, si va verso la creazione di posizioni editoriali semi-monopolistiche all’ombra di un ente pubblico vigilato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Un documento firmato da circa sessanta sociologi (tra cui Franco Ferrarotti, uno dei pionieri della disciplina sociologica nel nostro Paese) denuncia come l’invenzione delle riviste di classe A abbia già favorito la formazione di monopoli accademico-editoriali in grado di condizionare l’esito delle recenti abilitazioni scientifiche[12]. Chiamato in causa da quel documento in quanto componente del “Gruppo di lavoro ANVUR ‘Riviste e libri scientifici’ 2012/2014 – area 14” (che ha accreditato in fascia A il 78,26% delle riviste riconducibili all’area 14 pubblicate dall’editore Il Mulino: 18 su 23[13]) Alessandro Cavalli, già presidente (2003-2009) ed ancora membro del direttivo dell’Associazione Il Mulino, ha orgogliosamente rivendicato la sua personale capacità di esprimere pareri universalistici ed oggettivi, al di là della condizione di conflitto di interesse in cui si è venuto oggettivamente a trovare[14]. Il professor Cavalli è persona stimata e al di sopra di ogni sospetto, ma non è questo il punto. Ciò che è in discussione è l’olimpica noncuranza delle più elementari garanzie di affidabilità, trasparenza e correttezza da parte di un’agenzia chiamata a svolgere responsabilmente una funzione pubblica che incide sulla vita di oltre 60.000 studiosi. Del resto, è lo stesso professor Cavalli a riconoscere che tener fuori dal “Gruppo di lavoro Riviste e libri scientifici” tutti coloro che in un modo o nell’altro sono, o sono stati in passato, coinvolti nei comitati di direzione e redazione, avrebbe escluso “tutti i sociologi che per una ragione o per l’altra hanno avuto responsabilità in una qualsiasi rivista sociologica”[15]. Il che equivale ad asserire, a nostro parere, che il metodo di lavoro individuato dall’ANVUR per creare questa nuova entità bibliometrica delle “riviste di fascia A” è intrinsecamente capzioso e inopportuno, viziato da inevitabili conflitti di interesse e destinato a produrre valutazioni tali da suscitare comprensibili polemiche e legittimi sospetti.
Insomma, a quanto pare, ce ne sarebbe più che abbastanza per decidere di sbarazzarsi una volta per tutte dell’enigmatico neo-oggetto “riviste di fascia A”. Tanto più che all’estero analoghe esperienze si sono rivelate così fallimentari e ricche di insidie da essere bandite da più di una comunità accademica. È accaduto per il cosiddetto ranking ERA in Australia che è stato ritirato dopo la constatazione dei suoi effetti distorsivi[16] e che oggi è sostituito da un elenco che si limita a discriminare fra riviste scientifiche (le cui pubblicazioni sono valutabili) e non scientifiche (le cui pubblicazioni non sono valutabili)[17]. Simile sorte ha incontrato la lista ERIH, promossa dalla European Science Foundation e riservata alle scienze umane, che si è rivelata un sostanziale fallimento[18]. Anche in Francia l’AERES nel campo delle Scienze umane e sociali ha accreditato un certo numero di riviste “delimitando un perimetro scientifico, senza classificazione”[19] riservandosi la possibilità di effettuare una prima gerarchizzazione solo per quelle discipline “nelle quali le basi di dati bibliometrici internazionali [fossero] maggioritariamente accettate dalla comunità scientifica”. Da ultimo, in occasione del recente Research Exercise Framework britannico, si è deciso che nessun panel di valutatori facesse ricorso a classifiche di riviste[20]. A quanto pare, però, per noi newcomer della neovalutazione questa decisione non è ancora matura.
Un discorso a parte merita il processo attraverso cui materialmente si sono costruiti gli strumenti e i criteri per stabilire che cosa fosse una rivista di fascia A e, quindi, per compilare le liste che raccolgono i nuovi oggetti. Quando un compito dà luogo a risultati criticabili e insoddisfacenti, conviene sempre chiedersi se il problema non dipenda dal modo incongruo con cui il compito stesso è stato concepito e poi formulato. Del resto, che il compito affidato ai sei Gruppi di lavoro ANVUR “Riviste e libri scientifici” fosse piuttosto velleitario, mal impostato e necessariamente destinato a produrre errori doveva essere chiaro agli stessi Gruppi di lavoro. Abbiamo già ricordato le gravi riserve espresse dal Gruppo di lavoro (Gdl) dell’area 12 (Scienze giuridiche) sulle politiche di classificazione delle riviste[21] Anche i componenti del Gdl dell’area 14 (Scienze politiche e sociali) sottolineavano fin dalla prima riunione “l’estrema difficoltà del compito, sui cui limiti temporali non tutti concordavano”, e accettavano di svolgerlo solo “in spirito di servizio per consentire la ripresa dei meccanismi di carriera, bloccati dal 2007”[22].
In un precedente articolo abbiamo ricostruito come si sia snodata la vicenda della classificazione delle riviste negli ultimi due anni[23]. Ora ci preme chiarire soprattutto un concetto: definire una rivista di “classe A” non è frutto di un giudizio che si limiti a constatare la proprietà di un oggetto, ma l’effetto performativo di un enunciato che, proprio nell’essere prodotto, determina la realtà stessa di cui pretenderebbe di essere una semplice registrazione.
La confusione fra questi due livelli discorsivi emerge, ad esempio, nella relazione finale del “Gruppo di lavoro ‘Riviste e libri’ dell’area 14”[24], che descrive i criteri adottati per classificare le riviste italiane. Il Gruppo di lavoro elenca una serie di regole cui si sarebbe attenuto per individuare le riviste di classe A, ma poi, conclusa l’enumerazione in perfetto stile da supercazzola prematurata, precisa che “ogni rivista viene discussa caso per caso, in modo tale che, oltre all’applicazione di queste regole generali, vi sia sempre il giudizio dei componenti del Gdl presenti alla riunione”. Dietro questa dichiarazione apparentemente anodina si cela un elemento che fa saltare l’insieme delle regole generali che lo stesso Gdl si era appena dato: al verificarsi delle condizioni previste da una serie di regole x, y, z ecc., una rivista è considerata di fascia A, ma sorprendentemente l’ennesima regola di questa serie prevede la possibilità di sospendere la vigenza di tutte le altre. Il fatto è che la nozione stessa di intervento “caso per caso” contrasta con l’idea di “regole generali”. Analoghe acrobazie argomentative si possono trovare anche nella relazione del Gdl dell’area 8 (Ingegneria civile e Architettura), che dichiara di basarsi sui giudizi già espressi da GEV e società scientifiche, salvo poi precisare di aver scelto “caso per caso, sulla base della conoscenza, della esperienza e della competenza dei componenti del gruppo di lavoro”[25]. Insomma, delle due l’una: o le regole che i Gruppi di lavoro si sono dati normano l’intero universo delle condizioni possibili e allora non c’è bisogno di decisioni soggettive, caso per caso, oppure in realtà non vi è nessuna regola e tutto dipende da una decisione sovrana e arbitraria (“reputazionale” la definiscono) al di sopra, ma di fatto al di fuori, di ogni regola.
Date queste premesse, non stupisce che le consulte scientifiche dell’area 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, ricca di ben oltre 70 settori scientifico-disciplinari), abbiano denunciato “elenchi di riviste di fascia A sconcertanti finanche per i componenti del ‘Gruppo esperti riviste e libri scientifici’ di nomina ANVUR’”[26]. Il problema – come lamenta la Società Italiana degli Economisti, riguardo al lavoro svolto sulle riviste di area 13 (Scienze economiche e statistiche) – è infatti la totale mancanza di trasparenza[27] di un processo istituito da un ente – l’ANVUR – che sarebbe stato istituito per operare «secondo principi di imparzialità, professionalità, trasparenza e pubblicità degli atti»[28].
Come abbiamo già illustrato in un precedente articolo, questo processo produce liste di riviste di fascia A continuamente e “strutturalmente” mobili, con la conseguenza che chi è entrato nel processo di valutazione ASN 2012/2013 non ha effettivamente conosciuto i valori della propria terza mediana se non dai giudizi finali. Abbiamo anche ricordato liste di riviste che appaiono, scompaiono dopo la pubblicazione e riappaiono modificate qualche giorno dopo. Così come abbiamo notato, fra le altre mirabilia, il sorprendente fenomeno per cui nello stesso numero della stessa rivista alcuni articoli siano “non di fascia A” nel 2012 e altri risultino invece “di fascia A” nel 2013[29]. Nell’ottobre 2014 l’ANVUR ha intanto provveduto a nominare i nuovi “Gruppi di lavoro Riviste e libri scientifici” per il periodo 2014-2016. Osserviamo en passant che in quello dell’area 14 figura sorprendentemente anche chi, in qualità di membro del GEV, aveva già avuto un ruolo nel processo di accreditamento delle riviste nel biennio precedente. Il che fornisce un ulteriore esempio, se mai ce ne fosse bisogno, di come l’‘investitura’ ANVUR stia consolidando un gruppo di potere ristretto e poco controllabile costituito da docenti di prima fascia (attivi o in pensione, ma sempre ricchi di relazioni di lavoro, amicizia e affinità scientifica e di interessi editoriali) che, attraverso l’esercizio della valutazione, controllano insieme erogazione dei fondi premiali e progressione delle carriere. I nuovi GdL hanno già iniziato a valutare le istanze di revisione dei rating delle riviste[30], ma al momento nulla è dato sapere sui criteri e sulle modalità che saranno adottati.
Quello che però ci sembra facilmente prevedibile è che il principio per cui i contenitori possano automaticamente rendere i contenuti di una qualità diversa e più alta – “migliori” per definizione – continuerà a favorire chi avrà avuto la fortuna, l’opportunismo o il fiuto politico di unirsi a una cordata che offre l’opportunità di “piazzare” i propri articoli in alcuni di questi contenitori: quelli promossi “in classe A” in virtù di un meccanismo di valutazione diretto e controllato da un piccolo gruppo di persone scelte in ultima analisi dal governo. Altrettanto prevedibile la penalizzazione di chi avrà avuto la generosità, il coraggio, l’imprudenza e l’impudenza di scegliere nuove vie, percorrere nuovi spazi, offrire nuove opportunità.
In conclusione, costatiamo che, attraverso un cambiamento legislativo presentato all’opinione pubblica come meritocratico e “antibaronale”, non solo si sono concentrate tutte le funzioni di governo dell’università nelle mani dei soli ordinari, ma si è sostituito l’autogoverno delle comunità scientifiche con investiture provenienti dal potere politico.
Meccanismi di selezione che discendono a cascata da nomine ministeriali tendono, allora, abbastanza naturalmente a privilegiare gruppi di potere già consolidati nei rispettivi campi accademici, di studio e di ricerca, a discapito degli outsider, dei giovani, degli innovativi, degli sperimentatori, degli “eretici”, che sono – oltre che “inaffidabili” e “pericolosi” – anche difficili da individuare per chi non conosca profondamente le diverse comunità scientifiche. Non c’è bisogno di ipotizzare cospirazioni particolari: il potere sceglie fra chi è solito frequentare le sue stanze anche soltanto – e molto banalmente – perché è ciò che conosce.
Il problema è altrove. Non soltanto, cioè, nell’efficienza, né nella giustizia di questo sistema, ma nel modo autoritario di concepire e gestire il potere. Nella scelta di concentrarlo e di assegnarlo per investitura dall’alto.
Michel Foucault, che sui dispositivi di potere la sapeva lunga, ha mostrato come all’esercizio del potere si accompagnino costantemente dei rituali di manifestazione della verità, come se non fosse possibile dirigere gli uomini “senza fare delle operazioni nell’ordine del vero”, operazioni che – quasi sempre – risultano “eccedenti rispetto a ciò che è utile e necessario per governare in maniera efficace”[31].
Ebbene, che cosa è stata tutta questa farneticante supercazzola prematurata del ranking delle riviste scientifiche se non un opaco, infondato e artificioso rituale di manifestazione della verità da utilizzare come strumento per la gestione del traffico dei privilegi e per l’esercizio autoritario del potere nella e sull’università?
[1] Il termine supercàzzola è un neologismo (entrato nell’uso comune dal cinema dal film Amici miei di Mario Monicelli del 1975). Indica una frase, priva di senso logico, esposta in modo ingannevolmente forbito e sicuro. Composta di un insieme casuale di parole reali e termini inesistenti, la s. ha la parvenza di un discorso dotto e specialistico. Essa trova i suoi impieghi ideali in situazioni difficili e/o imbarazzanti, ed è usata come diversivo, per confondere e disorientare gli interlocutori e indurli a comportamenti che vanno a loro discapito. La complicità di questi ultimi è essenziale. Chi usa la s. confida nell’insicurezza e/o nella buona fede dell’interlocutore, nel fatto che egli si applichi sinceramente a decifrare il senso della s. e, soprattutto nel fatto che, pur non riuscendo a comprenderlo (o forse proprio per questo) accetti la s. come un discorso competente e, dunque, agisca di conseguenza.
[2] Il “Gruppo di lavoro ANVUR ‘Riviste e libri scientifici’ – area 12” aveva invano segnalato le criticità e messo in guardia dai rischi di un ranking delle riviste fondato su questa definizione di rivista di classe A, ritenendo che “l’elenco delle riviste da collocare nella classe A non sia […] sufficientemente affidabile alla luce degli indicatori stabiliti dal regolamento ministeriale. Quegli indicatori fanno riferimento al rigore delle procedure di revisione, al giudizio della comunità scientifica e alla diffusione delle riviste. Poiché i primi due presupposti non si sono realizzati appieno e, per il terzo, l’istruttoria deve essere completata, l’elenco delle riviste da includere nella prima delle tre classi di merito costituisce tuttora un documento di lavoro, da completare. Esso non è idoneo, pertanto, a produrre gli effetti previsti dal regolamento. Per questo motivo, come notato, è da ritenere che il Consiglio Direttivo debba prendere in seria considerazione la possibilità di segnalare al MIUR la difficoltà di definire il terzo degli indicatori non bibliometrici, in sede di prima applicazione del regolamento”.
[3] https://www.roars.it/paradossi-in-fascia-a-ovvero-quer-pasticciaccio-brutto-della-terza-mediana/
[4] Nel 2009, con la conversione in legge, del DL 10 novembre 2008, n. 180, veniva istituita l’ANPRePS (Anagrafe nominativa dei professori ordinari e associati e dei ricercatori) contenente per ciascun soggetto l’elenco delle pubblicazioni scientifiche prodotte.
[5] http://www.anvur.org/attachments/article/254/Delibera55_12.pdf
[6] http://www.anvur.org/attachments/article/422/Delibera67_2012_08_23_mediane_settori_non_bibliometrici.pdf
[7] http://www.ascb.org/dora-old/files/SFDeclarationFINAL.pdf
[8] http://www.anvur.org/images/Riferimenti_normativi/dpr_nomina_anvur.pdf I nominati dal DPR sono i proff. Sergio BENEDETTO, Andrea BONACCORSI, Massimo CASTAGNARO, Stefano FANTONI, Giuseppe NOVELLI, Fiorella KOSTORlS PADOA SCHIOPPA e Luisa RIBOLZI. Oggi, ben oltre i 4 anni di permanenza previsti, gli unici cambiamenti nel Consiglio sono stati la nomina del vice-presidente Andrea Graziosi [che per decreto ha sostituito il dimissionario Giuseppe Novelli nel novembre 2013 (http://www.anvur.org/attachments/article/7/DPR_Nomina_Graziosi.pdf)] e l’uscita di Luisa Ribolzi.
[9] http://www.anvur.org/images/Riferimenti_normativi/dmcomitato_selezione_24_06_2010.pdf
[10] A esemplificazione si veda la spartana Delibera del Consiglio Direttivo del 16 settembre 2014, così come modificato con Delibera n. 12 del 20 gennaio 2015: Gruppo di lavoro Riviste e libri scientifici 2014/2016, dove i nominati salgono a 38; http://www.anvur.org/attachments/article/709/Gruppo%20di%20lavoro%20Riviste%20e%20libri%20scientifici%20gennaio%202015.pdf
[11] https://www.roars.it/le-riviste-secondo-lanvur-tra-conflitti-dinteresse-e-grottesco/
[12] http://www.ais-sociologia.it/forum/una-riflessione-sullasn-4221
[13] Tra le 68 riviste pubblicate dall’editore il Mulino e presentate nel relativo catalogo del 2015, sono almeno 23 quelle sociologiche o politologiche, oppure accreditate in area 14 anche se si riferiscono ad altre discipline (è il caso ad esempio del Giornale italiano di psicologia, che curiosamente è una rivista di classe A nell’area 14). Di queste 23 riviste, 18 risultano in classe A nell’area 14 (il 78,26%): mancano solo Il Mulino, Italian Film and Media Studies Journal, Problemi dell’informazione, Autonomia locali e servizi sociali e Politiche sociali.
[14] http://www.ais-sociologia.it/alert/risposta-di-alessandro-cavalli-al-documento-di-sintesi-sulle-cosiddette-abilitazioni-scientifiche-nazionali-in-sociologia-4236
[15] http://www.ais-sociologia.it/alert/risposta-di-alessandro-cavalli-al-documento-di-sintesi-sulle-cosiddette-abilitazioni-scientifiche-nazionali-in-sociologia-4236
[16] http://theconversation.com/journal-rankings-ditched-the-experts-respond-1598
[17] http://www.arc.gov.au/era/faq.htm#2012
[18] Cfr. J. Howard, New Ratings of Humanities Journals Do More Than Rank. They Rankle, The Chronicle of Higher Education, 10.10.2008.http://chronicle.com/article/New-Ratings-of-Humanities/29072/
[19] ‘Critères d’évaluation des entités de recherche: Les référentiel de l’AERES’, p.29; http://www.aeres-evaluation.fr/Publications/Methodologie-de-l-evaluation/Listes-de-revues-SHS-de-l-AERES
[20] https://www.roars.it/aspetti-critici-delluso-di-rankings-di-riviste-nelle-scienze-umane/
[21] https://www.roars.it/lineffabile-terza-mediana-dellanvur-per-larea-12/
[22] http://www.anvur.org/attachments/article/254/relazionefinale_gdlarea14.pdf
[23] https://www.roars.it/paradossi-in-fascia-a-ovvero-quer-pasticciaccio-brutto-della-terza-mediana/
[24] http://www.anvur.org/attachments/article/254/relazionefinale_gdlarea14.pdf
[25] http://www.anvur.org/attachments/article/254/Relazionefinale_GdLArea08.pdf area 8.
[26] http://www.cusl.info/public/upload/Documento%20delle%20Consulte%2021%20sett_.pdf
[27] http://www.siecon.org/online/wp-content/uploads/2012/11/Mozione-SIE-liste-Anvur-21-settembre-2012.pdf
[28] Legge 24 novembre 2006, n. 286 (“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria “),pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 277 del 28 novembre 2006 – Supplemento ordinario n. 223. Art. 2, comma 140, lettera a.
[29] https://www.roars.it/paradossi-in-fascia-a-ovvero-quer-pasticciaccio-brutto-della-terza-mediana/
[30] http://www.anvur.org/index.php?option=com_content&view=article&id=704:nominato-il-gruppo-di-lavoro-riviste-e-libri-scientifici-it&catid=24&Itemid=189&lang=it
[31] M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014; p. 28.
Ringraziando gli autori per il bel contributo, mi permetto di segnalare che la Società Italiana di Filosofia Teoretica ha preso fin dal dicembre 2011 posizione motivata contro la classificazione delle riviste, senza dedicarsi (come molte Società hanno fatto) a “concertare” semplicemente, in modi più o meno (meno) trasparenti, liste di riviste di fascia A. Si veda
http://www.teoretica.it/wp-content/uploads/2011/12/doc_2011-12-21.pdf
Aggiungo per conoscenza di come vanno le cose che la richiesta di inserimento in fascia A della rivista che dirigo è stata valutata da due revisori anonimi. Il primo, chiaramente straniero per sintassi e formule adottate ha dato un parere positivo; il secondo parere, negativo e prevalente, era invece chiaramente di un collega (?) in pieno conflitto di interessi. Nessun giudizio sui parametri di selezione, ma a gamba tesa sui contenuti. Ci saremmo potuti appellare, ma abbiamo sentito l’odore di supercazzola, e questo bell’articolo ce ne da la conferma
e cre
Un messaggio all’autore: avrei voluto leggere l’articolo, ma ho desistito dopo pochi paragrafi. Mi spiace, ma il suo stile troppo e’ “roboante” e iperbolico, e dovendo produrre risultati scientifici, non ce la faccio proprio a passare tutto questo tempo a leggere frasi dove per una parola utile, ce ne sono 10 che semplicemente fanno da ornamento.
E pensare che lei inizia criticando, nel titolo, una riforma nascosta dietro “… al ridicolo di un roboante linguaggio tecnoburocratico”.
Finche’ sarebbe meglio trasmettere messaggi chiari ed efficaci che possano contribuire a migliorare il sistema universitario, anziche’ dare sfoggio della propria arte oratoria.
Spero possa accogliere il commento come costruttivo, essendo questo il mio intento.
Cordiali Saluti