Cosa accade se riproponiamo le retoriche della “classe creativa” in un contesto caratterizzato dal formidabile disinvestimento culturale e da sottoccupazione strutturale come l’Italia oggi? Quale progetto istituzionale per le Humanities?

Vogliamo costruire democrazie vivaci e partecipate o autoritarismi tecno-consumistici? E che facciamo sul piano delle politiche universitarie, dopo avere lanciato ambiziosi appelli pro-cultura: incoraggiamo la ricerca di base o ci limitiamo a istituire un’ora di simpatica ricreazione aggiuntiva in Humanities nei dipartimenti di economia aziendale e ingegneria, come qualcuno suggerisce? Professionalità o “atmosfera creativa”? La prospettiva cambia: “cultura” è a nostro avviso un elementare diritto di cittadinanza, non l’insieme dei beni di consumo voluttuari riservati a (potenziali) startupper adolescenti.

La ricerca non applicativa cade decisamente fuori dall’agenda del Sole 24Ore, e con essa i temi dell’equità sociale e delle pari opportunità, che pure la Costituzione riconosce. Spiace. Perché il binomio “cultura e sviluppo” può e deve essere interpretato anche nel senso della crescita civile, in termini dunque che non sono economicistici. “Creare capacità” e “liberarsi dalla dittatura del PIL”. Questi gli appelli lanciati da Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, e l’argomento è stato riproposto in maniera incessante in tempi recenti. Non possiamo immaginare una società in cui le sole competenze tecnico-economiche decidano della sorte di tutti.

La “platea” e il “Presidente”: questi in sintesi gli Stati Generali della Cultura convocati dal Sole 24Ore al teatro Eliseo di Roma il 15 novembre. O quantomeno le voci memorabili di un evento concepito come autocelebrazione di un establishment e risoltosi invece (quasi) nel suo contrario. Il “Presidente” è Giorgio Napolitano al netto delle retoriche agiografiche: sul suo intervento, applaudito a lungo, si è già scritto molto, e non è il caso di tornare se non per accenni. L’inefficienza dell’apparato burocratico desta “vergogna”, e occorre rimuovere il pregiudizio anticulturale di questo governo e dei precedenti. No ai tagli lineari, sì a trasferimenti (selettivi) di risorse a scuola, ricerca e tutela del patrimonio. “Mi domando come sia stato possibile, qualche tempo fa”, si è chiesto Napolitano volgendosi verso il ministro dell’università e della ricerca, Francesco Profumo, seduto alle sue spalle, “che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere una norma che prevedeva l’immediata soppressione di dodici istituti di ricerca”.

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Le proteste sono state veementi. Urla e contestazioni hanno interrotto più volte Ornaghi e Profumo. Eravamo tuttavia presenti al Teatro Eliseo, e non abbiamo assistito a tumulti scomposti. Nessuna “antipolitica”, in altre parole, né odiosi luoghi comuni, ma l’indignazione di una platea di ricercatori, intellettuali, insegnanti, attori, artisti, giornalisti culturali che assistono da decenni al dominio dell’incuria o del saccheggio. Niente più vane parole o cerimoniali autoreferenziali: questo era stato chiesto all’iniziativa del Sole 24Ore, che da mesi si muove sul tema con la possessività del monopolista e la rozza efficienza di un esercito di occupazione; e questo è stato preteso. Le voci di dissenso che si sono levate dal pubblico hanno ricevuto un sostegno tanto vasto e immediato da risultare inatteso. Voci non solo giovani, anche se in prevalenza tali: early career, outsider, “lavoratori della cultura” e “talenti” cui ci si rivolge oggi da più parti nel desiderio di diffondere nel paese attitudini all’”innovazione” e alla “sfida”. Così Corrado Passera, prevedibilmente.

L’attuale ministro dello Sviluppo non sembra avere progetti né attenzione specifici per la “cultura” o la ricerca non applicativa né tantomeno per la storia dell’arte in quanto tale, anche se si sofferma volentieri sul tema dei musei da trasformare in fondazioni. Non devono essergli chiari i rapporti tra “tutela”, “valorizzazione” e “gestione”, che articola ogni volta in modo nuovo invocando risorse private e al tempo stesso affannandosi a rassicurare i sostenitori dell’intervento pubblico. Affascinato dal modello Louvre Abu Dhabi, Passera si muove tra Richard Florida (“classe creativa”) e Chris Anderson (i “makers”). Può non essere un torto per un ex-banchiere e amministratore delegato, ma è importante stabilirlo nel momento in cui il ministro, possibile futuro candidato premier dell’area moderata, diviene ospite d’obbligo agli incontri dedicati alle politiche del patrimonio (oggi gli “Stati generali della Cultura”, ieri “Florens2012”). A nostro avviso è insufficiente (oltreché predatorio) interessarsi a istruzione e tutela solo in termini propedeutici, dal punto di vista delle politiche economiche. C’è qualcosa di sottilmente pornografico nell’evocare scenari di “smart cities” dove studenti delle migliori università private e potenziali startupper adolescenti siano dediti a consumare voyeuristicamente la “creatività” definanziata e precarizzata di loro coetanei socialmente subalterni, e il fallimento sociale e culturale di questi ultimi sia offerto a intrattenimento dei ceti dominanti. Non vorremmo essere distruttivi. Ma ha senso, se non persecutorio, riproporre il modello della «classe creativa» in un contesto caratterizzato dal formidabile disinvestimento in istituzioni educative pubbliche e da disoccupazione giovanile strutturale come l’Italia oggi? Percorsi durevoli e qualificati di formazione in arte, storie, scienze sociali producono autonomamente innovazione e abilitano a professioni nell’ambito della ricerca. Qual è il costo sociale invece – e quali le premesse ideologiche – di un disegno di esclusione delle competenze in Humanities dall’ambito della retribuzione e del lavoro socialmente riconosciuto; di una loro riduzione a “creatività” e “atmosfera”?

 

Il dibattito sulla “crisi”, le deludenti performance dell’economia italiana e il crollo della “Seconda Repubblica” non sembrano avere avviato una riflessione sufficientemente severa sulla classe dirigente: qualità, composizione, processi di reclutamento e selezione. Un economista autorevole come Pierluigi Ciocca ha posto di recente una domanda cui  sarebbe opportuno dare risposta. “Come può un fenomeno complesso quale la crescita economica, che investe l’intera società, non dipendere anche da variabili metaeconomiche? Cultura, istituzioni, politica influiscono sulla crescita”. Nelle proposte confindustriali di riforma delle politiche educative incontriamo esortazioni o desiderata quantomai generici (“banda larga”, “infrastruttura sociale” nel senso di mutualismo e charity, “legalità”) che non pongono in discussione autoinvestiture, presunzioni di “eccellenza”, atteggiamenti esclusivi. Tra le difficoltà del Paese c’è quella della scarsa cooperazione tra competenze. Cerchie accademiche, finanziarie e industriali coabitano le une accanto alle altre nell’arrogante convinzione di ospitare ciascuna le risorse migliori, come in monopolio. Avremmo bisogno di tutt’altro, e la scarsa cultura del ceto imprenditoriale italiano è un ostacolo formidabile alla competitivà del sistema industriale. Nelle parole di Fabrizio Barca, già economista OCSE e attuale ministro per la coesione territoriale, pure presente all’incontro promosso dal Sole: “quello dell’istruzione, in Italia, è un insuccesso che si riflette sulla capacità delle persone di trovare occupazione, sulla capacità dei lavoratori di interagire con il lavoro più specializzato, sulla capacità degli imprenditori di concettualizzare le proprie intuizioni produttive”.

Ignoriamo quali conseguenze concrete potrà avere l’appuntamento romano, preceduto dalla diffusione a stampa di un’indice di proposte formulata da Pier Luigi Sacco (il suo intervento è stato assai critico nei confronti del “made in Italy” ossessivamente celebrato da imprenditori alla Montezemolo e dagli aedi degli “antichi mestieri”). Certo gli “Stati Generali” hanno colpito duramente la reputazione di alcuni tra politici e intellettuali invitati. Le rudi maniere del direttore del Sole, designato a coordinare la tavola rotonda, hanno tacitato in rapida successione i più antiquati e esornativi testimonial dell’evento, Carlo Ossola e Andrea Carandini, stupefatti per il trattamento riservato. A infrangere definitivamente il cerimoniale (con qualche malizioso compiacimento da parte degli stessi responsabili della manifestazione) hanno poi pensato le contestazioni ai ministri “culturali”.

Tra le proposte avanzate da Sacco incontrerà forse maggiore favore quella mirata a creare un’agenzia per l’export a sostegno delle “industrie creative” nazionali. Una recente ricerca, coordinata dallo stesso Sacco per la Fondazione Symbola, ha rilevato le difficoltà, per le industrie culturali, di inserirsi sul piano internazionale, per difficoltà che possono essere di volta in volta di finanziamento, fragilità dell’infrastruttura, lingua. Proprio su questo  ci permettiamo di offrire un suggerimento. Va bene il “made in Italy”, vanno bene moda, design, food, architettura. Ma perché non prevedere specifiche misure a beneficio della ricerca accademica e non, sollecitando incentivi editoriali alla traduzione in lingua inglese della saggistica e della narrativa italiane più innovative? O trasformando gli Istituti italiani di cultura all’estero in sedi qualificate per la promozione dei migliori tra gli artisti più giovani (adesso non lo sono affatto)? Le retoriche dominanti che accompagnano il processo di valutazione della ricerca universitaria attualmente in corso insistono (nel modo spesso più velleitario e subalterno) sulla necessità di “internazionalizzare” gli studi. Con opportune politiche culturali e minimo impegno finanziario potremmo creare una lieve infrastruttura globale a supporto di “cultural heritage”, autodisciplina e “talento”.

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13 Commenti

  1. Sottoscrivo tutto.
    Aggiungo che le facoltà umanistiche dal 1968 ad oggi hanno subito danni pesantissimi nella qualità dei loro laureati; non attraggono più gli studenti migliori e hanno fatto ampiamente leva sulla demagogia di insegnamenti inconsistenti per aumentare il numero degli iscritti a scapito della qualità. Siamo molto lontani da una valorizzazione della cultura. Direi proprio il contrario … Questo viene molto bene ai sostenitori di una società consumistico-tecnicistica e totalmente appiattita sulla modernità.

  2. Bella analisi.

    C’è un curioso paradosso che si ritrova costantemente negli economisti mainstream e in chi alle loro opinioni si abbevera.

    Quando devono discutere con fautori dell’intervento centralizzato in economia essi ricordano volentieri celebri analisi che mostrano come la produttività nasca spesso dalla composizione per vie ignote di una pluralità disordinata di competenze, che sarebbe illusorio pensar di poter pianificare e per cui bisogna semplicemente predisporre un ambiente favorevole.

    Quando invece devono parlare della ‘produzione culturale’ diventano improvvisamente dei provetti pianificatori, che presumono (supportati dalla propria nescienza) di poter escogitare nessi evidenti tra mezzi economici e fini culturali a loro ben chiari come desiderabili. Invece che cercar di costruire buoni sistemi di regole ed infrastrutture dove la libertà di ricerca ed insegnamento possa svilupparsi, qui sono senz’altro pronti a proporre ciascun il proprio piano quinquennale volto infallibilmente a produrre con un budget limitato l’output culturale ottimale (ciò che davvero serve e che noi, economisti-tuttologi, profetiamo con la consueta infallibilità).

  3. Ringrazio Giuliano, Indrani e Andrea per l’interesse alle questioni poste.

    Più in generale: colpisce che, a fronte della sicumera con cui si pretende di pianificare la “produzione culturale”, vi sia in Italia oggi una totale desuetudine a interrogarsi sul tema (vorrei dire) dell'”origine”.

    Che cosa è “creatività”, e da dove nasce? Come diventa competenza? Come favorirne la diffusione o accompagnarne la graduale professionalizzazione nel rispetto di processi per più versi enigmatici, sovrani? Potremmo mai “produrre” artisti o musicisti, saggisti o scienziati di livello internazionale? “Produrre” ricercatori innovativi? Ma di cosa parliamo?

    L’investimento “culturale” primario è in empatia e buone scuole: inizia con i più piccoli. “Creatività” e “talento” non si trasmettono per mera “esposizione” o “contagio”, come letture affrettate o ideologiche di economisti come Gary S. Becker possono lasciare supporre. Ma attraverso relazioni con insegnanti qualificati e processi di apprendimento durevoli e articolati.

  4. Per quanto riguarda, ad esempio, giusirprudenza, che è una facoltà umanistica, bisogna cambiare radicalmente le professioni legali, altrimenti non si iscrive più nessuno.
    L’esame da avvocato fa schifo, chiedere in giro, diventare notaio e magistrato è impossible: (studiare intere enciclopedie del diritto e trattati, diventando scemi).

    In Uk, diventa avvocato a 24 anni, in Italia a 34 ecc…
    poi in italia gli avvocati sono in crisi, vedere

    http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2012-11-23/avvocati-grido-allarme-113258.shtml?uuid=Abhdod5G

    Mi imteresserebbe sapere il punto di vista di Andrea Zhok su questo, perchè pur conoscendolo solo per gli interventi su questo sito, lo stimo molto.

    Grazie,
    Anto

    • @ anto
      Ringrazio per la stima, ma temo di non poter aggiungere niente di significativo alle tue osservazioni, perché la mia conoscenza delle problematiche specifiche di giurisprudenza è francamente inadeguata.

  5. Il desideratum mi sembra la lobotomia del libero pensiero, l’assopimento dei cervelli, la manovrabilità delle masse.
    A me la cosa più orribile pare l’idea avanzante che si debba pagare di più per avere un’istruzione migliore.

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