La grande fuga dall’Università è il titolo dell’inchiesta de La Repubblica pubblicata il 14 gennaio 2016, che lancia l’allarme sulla perdita di 65 mila matricole (-20%) negli ultimi 10 anni negli Atenei italiani.
Università, calano le matricole, un declino da fermare titolava l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia del 30 dicembre 2015 sul Corriere della Sera.
Sono dati noti da tempo, ricompresi fra le emergenze del sistema del CUN, e commentati a più riprese su ROARS.
Finalmente la grande stampa nazionale denuncia quello che sta da tempo verificandosi nelle Università italiane squassate, nell’indifferenza generale, da una sequenza devastante di riforme burocratiche e di tagli di bilancio.
La causa del problema è semplice da individuare: correva l’anno 2008, quando il Governo emanò il decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 recante le disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito nella Legge 6 agosto 2008 n. 133.
Inutile dire che esso, insieme agli altri analoghi provvedimenti che sono seguiti, non ha portato ad alcun sviluppo economico, semplificazione, competitività, stabilizzazione finanziaria né perequazione tributaria: da allora il prodotto interno lordo è calato del 10%, il rapporto deficit/PIL è salito del 27%, la spesa pubblica è incrementata dell’11%, la disoccupazione è aumentata dell’8%.
Il decreto-legge disponeva il taglio di circa 1,5 miliardi di Euro in cinque anni, pari a circa un quinto del finanziamento ordinario delle Università. Lo stesso decreto allocava un importo corrispondente per finanziare l’Expo di Milano 2015.
Nel 2015 l’Expo si è tenuta davvero ed è stata – si dice – un successo, che probabilmente ha prodotto enormi profitti per gli operatori economici del settore.
Nel frattempo nelle Università italiane si sono ridotti, in modo circa proporzionale, il corpo docente, il personale tecnico amministrativo, il numero di dottorandi, il numero di immatricolati.
Il risultato è facilmente spiegabile: se un buon padre di famiglia decide di indebitarsi per far fronte a un investimento, cedendo il quinto dello stipendio, è abbastanza logico che si riducano proporzionalmente la capacità di spesa, i consumi, il livello di benessere, la qualità della vita e, probabilmente, la salute generale di tutta la famiglia.
Così è successo all’Università italiana, fra l’indifferenza generale.
Adesso che l’Expo è finita, si potrebbe pensare che sia giunta l’ora di restituire il “quinto” ceduto. E in effetti pare proprio che il Governo voglia investire 1,5 miliardi di Euro in ricerca e sviluppo, finanziando l’Istituto Italiano di Tecnologia per realizzare l’Human Technopole Italy 2040 proprio nell’area Expo. Quando si dice le coincidenze.
Nel frattempo i professori e i ricercatori delle Università sono amabilmente intrattenuti con la nuova edizione della buro-valutazione anvuriana che – oltre a essere sempre più complessa, incomprensibile e piena di errori – è anche perfettamente inutile, perché risorse aggiuntive da distribuire con la valutazione non ci sono, né probabilmente ci saranno.
Il calo delle immatricolazioni non è un problema meramente demografico, perché la stasi demografica iniziata al principio degli anni’80, dovrebbe essere compensata (e superata) dall’aumento della scolarizzazione e dall’accesso alla formazione superiore. E’ vero che ci sono meno giovani che escono dalle superiori ma, a differenza degli altri paesi europei e occidentali, non si è verificato un maggior afflusso in percentuale all’Università.
I dati dicono chiaramente che siamo ultimi in Europa per il numero di laureati in percentuale rispetto alla popolazione, con dati drammatici al Sud.
Per rimanere competitivi dobbiamo far studiare i nostri giovani. Alcuni obiettano che l’Università non riesce a dare una formazione appropriata, ma questo è un problema che può essere superato solo con la libera competizione e l’autonomia responsabile. Così funziona negli altri Paesi occidentali, mentre noi siamo ingabbiati in un sistema di regole da Unione sovietica.
Senza risorse poi è difficile migliorare, competere e fare qualsiasi cosa. E le risorse non ci sono, lo dicono i numeri e i confronti con l’Europa (per non parlare di USA e Giappone). Pare proprio che la Strategia di Lisbona del 2000 sia il programma europeo di riforme che meno è stato preso sul serio dai nostri governi e da quelli di Bruxelles.
La valutazione ci deve essere – ed è vero che l’abbiamo chiesta noi – però quella dell’ANVUR non è valutazione ma è solo burocrazia fuori controllo. Basterebbero tre o quattro indicatori: come ad esempio lo stato di occupazione, il reddito dichiarato dai laureati, i giudizi di panel internazionali di esperti indipendenti, le statistiche sulle pubblicazioni fatte da soggetti terzi (e non da un’agenzia ministeriale che nemmeno il regime fascista si sognò di fare).
Il massiccio ridimensionamento del comparto università pare che non abbia precedenti nella storia del nostro Paese.
Per cominciare si potrebbe ripristinare il “quinto” ceduto, restituendo alle Università il miliardo e mezzo dirottato verso altri scopi. Poi se ne potrebbe aggiungere un altro, di miliardo e mezzo, tanto per poter dire che l’Italia ha finalmente deciso di investire in ricerca e sviluppo.
D’altra parte, come scrive Ernesto Galli della Loggia nel suo editoriale, l’istruzione superiore e la ricerca sono un settore che in ogni occasione tutti si affannano a definire cruciale, importantissimo, decisivo.
Le condizioni adesso ci sarebbero tutte: l’Expo è finita e, esattamente questo, ce lo chiede l’Europa.
Speriamo che non arrivino le Olimpiadi o, se proprio devono arrivare, che a questo giro tocchi a qualcun altro finanziarle. L’Università italiana ha già dato.
Firenze, 19 gennaio 2016
Adesso, purtroppo, la priorità del Governo e del Parlamento è la legge Cirinnà.
Per mesi e mesi si parlerà solo di questo e non si risolverà nulla.
Non voglio dire che non siano tematiche importanti quelle dei diritti civili, ma dato che non ci siamo ripresi dalla crisi del 2008, dato che l’università subisce tanto, i precari ancora di più, dato che l’Italia è messa male, tanto male, non dobbiamo né possiamo permetterci il lusso di perdere tempo sulla Cirinnà.
Prima risolviamo i problemi e poi, alla fine della legislatura, ci concentreremo sulla Cirinnà!!!!!
E invece no, la Cirinnà è urgente ora …..ma come ragionano i politici?
Sono infatti tecniche di distrazione di massa, ampiamente studiate da Chomsky e caldeggiate in tutti i manuali di propaganda: tagliare in silenzio i diritti fondamentali (scuola, istruzione, sanità) e ingigantire questioni abbastanza marginali, rigirandole in tutte le salse, scatenando dibattiti etc.come se fossimo burattini da animare a piacere.
Grazie a Nicola Casagli per il chiaro e lucido articolo. Mi permetto solo due commenti.
«La valutazione ci deve essere»: certo, sapere è sempre meglio che non sapere. Ma il modo in cui viene adoperata la valutazione non è affatto un aspetto secondario, o una questione che possa essere rimandata. Anche in una classe scolastica la valutazione ci deve essere, ma se venisse progettata per poter cacciare gli alunni in difficoltà si tratterebbe di una valutazione immorale, in contraddizione con le finalità della scuola. Vogliamo allora discutere una buona volta di quale sia la funzione civile dell’Università e di come dunque la valutazione debba essere adoperata (e dunque progettata)?
«Basterebbero tre o quattro indicatori: come ad esempio lo stato di occupazione, il reddito dichiarato dai laureati». Anch’io sono convinto che bastano pochi indicatori, ma i primi due citati mi lasciano perplesso: lo stato di occupazione e il reddito dichiarato dipendono sì dalla preparazione ricevuta, ma anche da scelte politiche che nulla hanno a che vedere con l’Università. Altrimenti, per esempio, dovremmo ritenere che tutti gli itinerari che preparano all’insegnamento siano di infima qualità perché gli insegnanti italiani guadagnano pochissimo. Ed è in ogni caso il reddito quello che conta? perché allora non considerare come indicatore quanto i laureati sono felici? (L’«economia della felicità» è una cosa serissima.)
Penso che la valutazione debba riguardare il risultato finale, ovvero il fine ultimo del nostro lavoro, e non i mezzi con cui raggiungiamo tale fine.
I metodi ANVUR sono sistemi burocratici che valutano solo i mezzi, ma mai il fine.
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Le finalità ultime dell’Università sono:
1. didattica: diffondere cultura e creare occupazione
2. ricerca: diffondere conoscenza e creare innovazione
Cultura, conoscenza, occupazione e innovazione sono gli strumenti per produrre sviluppo e ricchezza.
Tutto il resto sono espressioni burocratiche che nemmeno trovano riscontro in altre lingue (es. terza missione, trasferimento, offerta formativa, addetti alla ricerca, accreditamento …)
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Non credo che sia molto utile valutare la didattica con le procedure burocratiche dell’AVA, con le schede SUA, con i presidi di qualità, con i continui riesami del riesame, con le formule dei costi standard. Nessuno ci capisce più niente e di fatto non si fa alcuna valutazione.
Non credo che sia molto utile valutare la ricerca inserendo pubblicazioni (che sono già pubbliche) su un database barocco e inefficiente, sottoporle a valutazione da parte di un’agenzia ministeriale, con gruppi di esperti non si sa come designati, utilizzare allo scopo algoritmi bibliometrici e metadati integrativi. Di nuovo nessuno ci capisce più niente e di fatto non si fa alcuna valutazione.
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Il risultato è che l’Università è imbrigliata in un sistema di regole bizantine, si fa continuamente valutazione fine a se stessa e si perdono di vista gli obiettivi generali, generando solo una produzione industriale di CFU di cui nessuno conosce i contenuti (e nemmeno la durata!), di pubblicazioni che pochissimi leggono o leggeranno, un mercato di scambio di citazioni, una selva inestricabile di indici e indicatori incomprensibili.
Alla fine non produciamo più cultura, né conoscenza, né occupazione, né sviluppo, né ricchezza, in piena sintonia con il nostro Ministero che userà i risultati della valutazione all’Italiana per distribuire povertà ad Atenei già impoveriti, togliendo ai più poveri per dare ai più ricchi (o più organizzati).
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Nel periodo VQR 2011-2014 ho prodotto una sessantina di articoli su rivista internazionale (circa 12 per anno) e 4 brevetti industriali. Vorrei essere valutato sull’utilità della produzione scientifica complessiva e sulle sue ricadute. Perché ne devo sottoporre 2 su 60 a un’agenzia ministeriale, su un sistema informatico che non funziona, e poi districarmi fra migliaia di file excel che contengono i dati per l’applicazione di un algoritmo bibliometrico, tra l’altro sbagliato? Questa non è valutazione è solo inutile burocrazia.
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Sull’uso di un possibile indicatore basato sul “reddito dichiarato” preciso che con questo non intendo reddito auto-dichiarato, ma ufficialmente disponibile dalle dichiarazioni dei redditi, quindi dati già in possesso dell’Agenzia delle Entrate che possono essere resi disponibili in forma aggregata agli istituti di ricerca terzi che fanno statistica. E’ chiaro che i confronti devono essere fatti per categoria: insegnanti con insegnanti, medici con medici, geologi con geologi, etc.
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Sull’uso di possibili indicatori basati sulla “felicità” o sulla cultura/conoscenza diffusa. Sarebbe bellissimo, ma forse molto difficile da mettere in pratica. Non sono esperto in questo campo.
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L’importante è non confondere il mezzo con il fine. Le finalità stanno nell’articolo 9 della Costituzione (La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica). I mezzi per raggiungere tali finalità stanno nell’art.33 (L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento). Valutare burocraticamente il mezzo non solo è inutile, ma forse anche anti-costituzionale.
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Stai a vedere che per risolvere l’apparente problema cambieranno la Costituzione!
Sono assolutamente d’accordo sul fatto che non bisogna confondere i mezzi con i fini, e ancor più che non si possono valutare i mezzi se non si hanno chiari i fini. Se si vuole affrontare seriamente il problema della valutazione, bisogna quindi discutere anzitutto sui fini: avremo idee diverse (a volte anche molto diverse) da confrontare, sarà una discussione difficile, ma almeno costruttiva e importante. Partiamo dalla Costituzione (che peraltro, mi permetto di notare, non scrive da nessuna parte che la finalità dell’Università sia creare occupazione: questa è la finalità del governo di una Nazione che si dice fondata sul lavoro!), partiamo dagli Statuti delle Università (quello della mia elenca *quindici* finalità istituzionali, delle quali a stento una o due sono quelle più o meno valutate dalle attuali procedure), partiamo dalle nostre idee, ma almeno parliamo di qualcosa di importante e decidiamo di conseguenza. Altrimenti l’unica alternativa è cambiare la Costituzione, che non è uno scenario apocalittico, ma ciò che *di fatto* sta avvenendo.
L’importante è non confondere il mezzo con il fine. Le finalità stanno nell’articolo 9 della Costituzione (La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica). I mezzi per raggiungere tali finalità stanno nell’art.33 (L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento). Valutare burocraticamente il mezzo non solo è inutile, ma forse anche anti-costituzionale.
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Stai a vedere che per risolvere l’apparente problema cambieranno la Costituzione!
(La Repubblica BOCCIA lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica delle università delle zone depresse). I mezzi per raggiungere tali finalità stanno nell’art.33 (L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento BASTA CHE TI ARRANGI).
[…] bilanci delle università italiane, infine, non è certo dovuto alla valutazione di stato, ma a una politica di drastici tagli e blocchi delle assunzioni destinata a persistere: il documento Valditara, infatti, tratta la “scarsità delle risorse” […]