Un’infografica relativa al primo rapporto Cnel-Istat sul Benessere equo e sostenibile è particolarmente efficace nel dipingere un’Italia a due velocità anche per quel che riguarda la formazione universitaria. Nel Mezzogiorno, le percentuali di laureati nella fascia 30-34 anni sono pari al 18,2% contro una media nazionale del 22,4% che è comunque la più bassa in Europa. Se il Mezzogiorno fosse una nazione  autonoma, la sua percentuale di laureati sarebbe inferiore a quella della Turchia (19.5%).

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Per avere un raffronto internazionale, vale la pena di consultare le statistiche Eurostat. Nel 2000, l’Italia pur essendo già nelle ultime posizioni, con il suo 11,6% aveva una percentuale di laureati superiore a quella di Portogallo (11,3%), Slovacchia (10,6%), Romania (8,9%) e Malta (7,4%). Il distacco dalla media EU27 (22,4%) era di 10.8 punti percentuali.

Tredici anni dopo, nel 2011, pur essendo salita al 22.4%, l’Italia è scivolata in ultima posizione e il distacco rispetto alla media EU27 (37,0%) è salito a 14,6 punti percentuali. D’altronde, nel decennio 2000-2010, l’Italia è stat l’unica nazione europea la cui spesa (in termini reali) per l’istruzione non è cresciuta (fonte: Funding of Education in Europe – The Impact of the Economic Crisis).

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TrendFunding1TrendFunding2

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Per avere un’idea della distribuzione regionale della percentuale di laureati, si può consultare la seguente mappa, sempre elaborata da EUROSTAT.

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Eurostat2013Map

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Il ritardo del meridione italiano è più che evidente. Se fosse una nazione  autonoma, la sua percentuale di laureati (18,2%) sarebbe inferiore a quella della Turchia (19,5%).  D’altronde il sorpasso compiuto dalla Turchia nei confronti del meridione d’Italia precede di pochi anni il sorpasso nei confronti dell’Italia nel suo complesso, un evento che, come già osservato (Laureati: Italia ultima in Europa. Obiettivo 2020: aggravare il distacco), appare ormai imminente ed inevitabile.

Laureati2020ItaliaVsTurchia

Questi dati e questi grafici potrebbero aiutarci a rispondere alla domanda formulata da Francesco Giavazzi:

Siamo sicuri che questo paese davvero
abbia bisogno di più laureati?

F. Giavazzi, Se Bersani fa scuola

 

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41 Commenti

  1. Denunciare lo scarso finanziamento dell’universita’ italiana e degli studenti italiani e’ sicuramente corretto, ma bisognerebbe chiedersi se e’ questo il solo problema dei pochi laureati.
    Ovvero, bisognerebbe anche chiedersi se e’ nato prima l’uovo o la gallina.
    Insieme alla diminuzione del finanziamento si e’ registrata anche una costante riduzione degli immatricolati (vedi anagrafe degli studenti) che da 338389 del 2003/04 sono scesi a 267839 del 2013/14.
    Magari sarebbe opportuno interrogarsi sui motivi che hanno portato alla perdita di oltre 70 mila studenti e come fare per riportarli nelle aule universitarie, chiedendo sulla base di questo uno sforzo finanziario che incentivi l’iscrizione.
    Il primo argomento che mi viene in mente, di cui si parla spesso ma senza soluzione, e’ il fenomeno dei “fuori corso”, che porta la durata media di una laurea triennale a 4-5 anni, quando questa dovrebbe essere poco sopra i 3.
    Su questo si potrebbe agire senza l’impegno di grosse risorse finanziarie, anche ripensando il “bizantino” processo di valutazione intermedia (esami) e di preparazione dell’esame finale (tesi), che sicuramente aiuta a produrre laureati di qualita’, ma quanto questo incide sullo scoraggiamento e sulla dispersione?
    Non dico che questo sia necessariamente IL problema, ma sono molto incline a pensare che sia un grave problema che va sicuramente affrontato.
    Altri sistemi (es. UK) hanno ad esempio una soglia di “successo” per gli esami molto piu’ bassa (40% contro il 18 che equivale al 60%), meno appelli (uno contro sette!) e una valutazione finale molto piu’ rapida (che senso ha chi ancora impegna gli studenti per 6 mesi per una triennale?)
    Chiediamoci se una riforma in tal senso non possa aiutare a risolvere la crisi dell’universita’ italiana, ovviamente senza rinunciare ad un buon livello di qualita’ dei laureati Italiani (che la mia esperienza dice essere tra i migliori), cosa che secondo me alcuni Stati con piu’ laureati fanno (vedi proprio UK dove ci sono veri e propri “laurefici”).
    Forse per una volta potremmo avere una riforma che porti dei benefici a costi (quasi) zero.

  2. Ma no, che dici, i problemi dell’università sono stati tutti risoliti dalla riforma Gelmini. Certo, implementarla è stata dura, perché è molto complessa, ma vedi i risultati! Ha cambiato le cose proprio lì dove era necessario! Il sistema con 7, 8 o a volte 9 appelli l’anno è quasi perfetto. L’unico miglioramento che vedo è introdurre la possibilità che il docente si rechi a esaminare lo studente a domicilio dietro semplice telefonata (i docenti provvederanno a fornire il proprio numero di cellulare sul sito dell’ateneo).

    Poi se lo studente si appassiona a una materia, non ha il diritto di studiarla anche per anni, per potere soddisfarsi con un Trenta e Lode? Nel mondo di oggi sono queste le cose importanti! Tanto finché si studia non c’è il problema di dovere cercare lavoro. Aspettiamo che passi la crisi, poi ci mettiamo a cercare lavoro. Nel frattempo studiamo, se il prossimo appello è troppo vicino tanto c’è quello dopo.

  3. Non ho capito i due interventi. Come si fa a non perdere studenti senza abbassare la qualità? Inoltre la dispersione andrebbe misurata anche sulla base del diploma di partenza. All’estero non basta un qualunque diploma per accedere all’università; in Italia sì. Mi sembra una bella differenza. Non capisco neppure la fretta che mette addosso l’ANVUR (modello aziendalistico): a cosa serve laurearsi di corsa con scarso approfondimento delle materie?

    • Forse non sono stato chiaro. Il mio messaggio vuole essere una esortazione a pensare ai 70 mila studenti persi e non solo allo scarso finanziamento.
      Perchè si perdono questi studenti? La mia opinione è per via della lunga durata reale dei corsi, dato che due anni in media di università in più sono un costo importante in termini diretti e indiretti (mancati guadagni). Infatti l’introduzione delle triennali portò un boom dí iscrizioni.
      Come fare a ridurre questo tempo? Magari rivedendo le procedure di valutazione. la qualità non si abbassa, mantendo standard di insegnamento alti e garantendo ampio supporto agli studenti, che vanno spronati a seguire le lezioni e dare esami ai primi (e unici direi io) appelli. Maggiore supporto, maggiore rigore, se fallisci una soglia minima di crediti/anni “sei fuori”.
      Comunque questo è io mio punto di vista, altri avranno soluzioni diverse, resta il problema della durata reale eccessiva delle lauree. Su questo dobbiamo concentrare gli sforzi.

    • A che livello bisognerebbe cambiare i regolamenti per implementare una soluzione come quella che suggerisce Plymouthian? Cioè, passare dai 7+ appelli all’italiana, agli homework/partial credit e 1+1 appello stile americano. È una cosa che un CdL potrebbe in teoria sperimentare autonomamente, o bisogna cambiare gli statuti delle università o la legge statale?

  4. Il problema è chiaramente definito. I dati parlano.
    Ci sono cause “esterne” all’Università ed “interne”.
    Fra le esterne la spoliazione del sistema universitario ( Quo usque tandem…) avvenuta negli ultimi 10 anni. Sono state fatte scelte politiche sbagliate ( di ideologia Giavazzista- Alesinista) il cui effetto negativo è stato amplificato dalla crisi economica. Il risultato appare oggi devastante, vicino alla soglia di irreversibilità.
    La crisi peraltro ha allontanato dall’Università i ceti meno abbienti.
    Anche culturalmente il modello della persona che fatica nello studio non tira. Dai, chi di noi ha mille euro da dedicare ad una cena? Magari quelli dell’ANVUR.
    Un altro fattore è che l’Università ha subito la crisi della scuola secondaria. L’istruzione tecnica è quasi sparita a favore di licei ipertrofici che sfornano diplomati molto poco preparati e spesso, senza abitudine allo studio. Molti di questi si riversano all’Università senza aver chiaro che fare e come farlo.
    A quel punto entriamo in gioco noi.
    Anche qui si potrebbe dire molto.
    Io ne butto lì una: il fallimento sostanziale del 3+2. E lo dico come sostenitore non pentito del 3+2.
    Il 3+2 è stato innestato violentemente su un’accademia con tradizioni molto differenti e consolidate che ha tentato di resistere (o forse ha solo continuato a fare quello che sapeva fare). Insomma avrebbe anche potuto venir fuori un bel frutto con nuovi sapori invece dal connubio è uscito un ibrido strano che non ha più la qualità del vecchio sistema italico e che non ha assorbito i metodi e le pratiche del modello anglo-americano cui il 3+2 si ispira. Naturalmente ci sono le eccezioni ma sono, appunto, eccezioni.
    Io sono pessimista per natura e la vedo grigia, però non bisogna arrendersi.
    Soluzioni? A parte le ovvie (spendere un po’ di più e meglio nel sistema scolastico) ne propongo una. Rivedere strutturalmente l’organizzazione del primo anno di corso che dovrebbe puntare, in ogni macro-settore, a ridurre le carenze culturali e metodologiche delle matricole. Non un sesto anno di liceo, ma un ponte tra liceo e università, con docenti e tutori (molti) adatti. Di fatto il percorso universitario vero e proprio inizierebbe col secondo anno. Si può fare a costo (quasi) zero. Certo, bisognerebbe spiegare bene alla gente che la laurea triennale è un titolo di valore relativo e che se si vuole competere a livello europeo è importante prendere un master e ancor di più un dottorato. Dimenticavo, togliere il titolo di dottore ai laureati triennali e anche magistrali (subito) sarebbe un bel segnale. Siamo seri.

    • Io vorrei vedere delle analisi più documentate sul fallimento del 3+2. Anche l’idea che “la laurea triennale è un titolo di valore relativo e che se si vuole competere a livello europeo è importante prendere un master e ancor di più un dottorato” mi sembra tutta da dimostrare. I rapporti AlmaLaurea non convalidano queste opinioni. Nell’ingegneria, le lauree triennali assolvono una loro funzione e preparano tecnici adeguati per una certa categoria di compiti. Le criticità sono molte e vanno individuate e risolte. Ma non si poteva pensare di rispondere alle esigenze formative del paese senza mettere in campo dei percorsi “brevi”. È così in tutto il mondo e, quando si parte da una delle più basse percentuali di laureati dell’intera OCSE, il modo più ragionevole per allargare l’accesso alla formazione terziaria è predisporre e consolidare un’offerta di formazione triennale. Io non avrei abolito i vecchi Diplomi Universitari, ma non vedo proprio come si possa fare a meno di un percorso breve (in serie o parallelo che sia).

  5. Perché si perdono questi studenti?
    Anche qui ci troviamo di fronte a un problema di “leaky pipeline”, di tubo che perde, dove la pipeline è il percorso formativo.
    I tratti della tubazione sarebbero:
    .
    scuola dell’obbligo -> scuola superiore -> università -> laureati
    .
    In rete si trovano dati e considerazioni per fare qualche analisi.
    Una “perdita” di tipo assoluto nel primo tratto/passaggio può essere solo legata a dati di tipo demografico: è calato in modo sensibile il numero di nati, e quindi poi di diciannovenni che si iscrivono all’università? La risposta è negativa, perché i tassi di diminuzione degli iscritti non sono paragonabili ai cali demografici verificatisi a fasi alterne in questi anni, come si vede da questo grafico:
    http://www.sapienzafutura.it/media/2014/08/variazioni-matricole.jpg
    .
    Neanche il secondo tratto (diploma di scuola secondaria di II grado, o scuola superiore) costituisce una vera criticità: nel 2011 la percentuale di diplomi di scuola superiore rispetto alla popolazione dei 19enni era del 79%:
    .
    http://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/comunicati/2013/almadiploma_comunicato_condizione2013.pdf
    .
    una percentuale comunque inferiore a quella media europea (83%), ma di 4 punti percentuali:
    .
    http://www.oecd.org/edu/Italy_EAG2013%20Country%20Note%20%28ITA%29.pdf
    .
    Ma il dato di per sé non è così significativo perché, come dice giustamente Andrea Cammelli di AlmaLaurea:
    “Il successo formativo del sistema scolastico secondario superiore non si misura solo dall’esito finale dell’Esame di Stato, ma anche e soprattutto sulla capacità di inserimenti professionali o formativi di alto livello qualificati, dove sia certificato e valorizzato il sapere come il saper fare”.
    .
    La prima vera criticità si incontra infatti al momento dell’iscrizione all’università. L’emorragia degli ultimi dieci anni è preoccupante: 70550 iscritti in meno equivalgono ad una grande università italiana. Nei fatti, una università è già scomparsa.
    Nel 2011 mentre il 79% possedeva un diploma di scuola superiore, solo il 48% di essi (61 diplomati su cento, quindi) si iscriveva all’università rispetto alla media UE del 59% (-11 punti percentuali) e OCSE del 60%.
    Di quel 48%, il 12% frequentava l’università lavorando (studenti lavoratori).

    Lo stesso rapporto di prima, del consorzio AlmaLaurea:
    .
    http://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/comunicati/2013/almadiploma_comunicato_condizione2013.pdf
    .
    indaga sui motivi che influenzano le scelte dei diplomati al momento di iscriversi o meno all’università.
    I fattori critici principali sarebbero:
    – ridotto interesse
    – difficoltà economiche delle famiglie
    – mancanza di politiche di diritto allo studio.
    .
    Il ridotto interesse (fattore “culturale”) proviene molto probabilmente dalla convinzione che la laurea non serva, mentre i dati stessi di Almalaurea, ma anche ricerche condotte a livello europeo o internazionale (OCSE), come comunicato ad esempio qui:
    .
    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-14-979_it.htm
    .
    dimostrano che chi si laurea ha più possibilità di trovare lavoro e di percepire salari decisamente maggiori.
    Non ci sarebbe invece un legame univoco con la situazione occupazionale critica attuale, perché l’idea di non trovare lavoro spingerebbe alcuni giovani a prolungare gli studi nel frattempo.
    Le difficoltà economiche delle famiglie sono un motivo rilevante, ma da quello che si legge la diminuzione di reddito medio delle famiglie non è di per sé in grado di giustificare il fenomeno del calo delle iscrizioni. E’ stato il concomitante aumento delle tasse universitarie insieme ad una ridotta disponibilità di borse di studio a rendere la vita difficile a molte famiglie. I dati su questi fenomeni (% aumento tasse e % di studenti aventi diritto a borse che effettivamente le percepiscono) sono stati riportati anche qui. E si tratta di fenomeni che conosciamo bene, legati ai tagli selvaggi del finanziamento negli ultimi anni.
    Il problema è che questa tendenza al momento è solo rafforzata: il meccanismo dei punti organico è proporzionale al valore delle tasse. Politicamente, una mossa inaccettabile se si vuole aumentare il numero di laureati.
    Ma ideologicamente giustificata da certuni:
    .
    http://www.pietroichino.it/?p=25357
    .
    secondo i quali solo gli studenti migliori dovrebbero usufruire di “borse di studio restituibili”, restituibili tramite il lavoro ad alto reddito che hanno più probabilità di trovare.
    Si legge che: “Mettere i migliori studenti nelle condizioni di scegliere l’università che preferiscono, con poco rischio, ha anche il vantaggio di affiancare un meccanismo di mercato alle procedure di valutazione centralizzata dell’ANVUR. Può contribuire a indirizzare maggiori risorse verso le migliori università, quelle che possono davvero consentire i benefici maggiori. Per questo bisogna consentire agli atenei che vogliono accogliere questi giovani di aumentare le rette universitarie e concedere loro completa autonomia per costruire una proposta educativa davvero eccellente.”
    Perché “Sembra invece più efficace concentrare le risorse dove meglio possono dare buoni frutti: e poi con la torta prodotta da quelle risorse potremo redistribuire e finanziare anche il resto.”
    .
    Il commento si è allungato troppo, quindi lo chiudo.
    I dati sugli abbandoni post-iscrizione si trovano sempre qui:
    .
    http://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/comunicati/2013/almadiploma_comunicato_condizione2013.pdf
    .
    se si vogliono fare considerazioni sul tratto del “leaky pipeline” che riguarda il percorso formativo universitario, di cui parla Plymouthian.

    • Da tutti i dati, penso che si possa fare una breve considerazione sul problema del rapporto d’importanza fra calo di iscrizioni e invece abbandoni universitari, rispetto alle medie UE.
      Prendendo sempre come riferimento il 2011, si ha che:
      .
      % giovani che si iscrivono all’università:
      Italia: 48
      UE21: 59
      .
      % giovani 25-34 anni con laurea:
      Italia: 21
      UE21: 36
      .
      cioè, in Italia si laurea più o meno (non si tratta dei laureati relativi alle iscrizioni del 2011 naturalmente) il 43% degli iscritti, mentre la media europea è del 61%.
      .
      In sostanza, se l’analisi è giusta, in Italia si iscrive all’università l’11% in meno dei 19enni rispetto alla media UE21, e si laurea il 20% in meno di studenti rispetto sempre alla media UE21.

  6. Accetto le bacchettate. Però il termine “relativo” non voleva essere dispregiativo. Come giustamente precisa De Nicolao, forse riferendosi soprattutto ad ingegneria, le LT preparano tecnici adeguati per una “certa categoria” di compiti. Ingegneria si è forse adattata meglio di altri al 3+2 perchè al termine del terzo anno (forse) fornisce delle professionalità tecniche spendibili, anche per la crisi dell’istruzione tecnica superiore che rende meno appetibili i vecchi “periti”. Ma non c’è solo ingegneria.
    In ogni caso non è il 3+2 in sè ad essere in discussione, nella gran parte dei casi, ma la maniera in cui è stato interpretato ed organizzato in Italia.

    • Posta in questi termini, la discussione ha senso. È giusto domandarsi come fare a rendere efficaci sia i percorsi brevi che quelli lunghi. È anche più che probabile che la raffica di ordinamenti subentrati uno dopo l’altro non abbia aiutato.
      La laurea quinquennale di una volta era il “vecchio ordinamento” in contrapposizione al “nuovo”. Poi è arrivato il “nuovissimo” e poi … si è finito per far ricorso al numero del D.M. al fine di sapere di cosa si parlava.
      Prima ci hanno decantato le virtù taumaturgiche dei crediti (CFU per gli amici), diversi per ogni corso e frazionabili all’infinito. Mi ricordo che nei criteri di valutazione dei progetti CAMPUS-CRUI,per verificare se avevamo assimilato e messo in pratica il “verbo dei CFU” c’era la verifica che non tutti i corsi avessero lo stesso numero dei CFU. Idealmente, se avevi qualche corso da 1 CFU (e ne abbiamo avuto) sembrava che ti volessero stringere la mano e dirti “bravo, hai capito come si fa!”.
      Passano alcuni anni e ci si rende conto che gli studenti sono sommersi di esami e che i CFU sono troppo parcellizzati. Allora, olio di ricino per i soliti docenti universitari che si sono divertiti a sbriciolare la didattica (ma ce l’avevano chiesto, misericordia …) e via a riconfigurare tutti i piani degli studi. Ogni riconfigurazione innesca un transitorio di qualche anno durante il quale ci sono gli studenti ritardatari che viaggiano a cavallo tra il vecchio ed il nuovo mondo, mentre le prove d’esame devono funzionare sia per il nuovo (nuovissimo o chissà che altro) ordinamento sia per le code degli studenti dell’ordinamento precedente.
      In questo regime di marasma permanente i presidenti dei Consigli di Corso di Studi hanno bruciato anni della loro vita a studiare ed interpretare tabelle degne dei più arcani codici kabbalistici. Anche dove ci si è impegnati allo spasimo (e qualcuno lo ha fatto, posso garantirlo) gli studenti ne hanno risentito. Figurarsi altrove.

    • Checklist Progetto Campus, sezione 21, punto 12:
      ________________________________________
      “Il sistema dei crediti è realmente operativo con una valutazione puntuale che differenzi i singoli moduli? (SI=4; NO=1)”

  7. Caro De Nicolao,
    fai benissimo a ricordare l’interminabile successione di transitori organizzativo-burocratici (tuttora in corso) innescati dal 3+2 nelle sue varie versioni: negli ultimi anni il lavoro dei consigli di corso di laurea o consigli d’area è diventato un pesante impegno a tempo pieno.
    Sul 3+2, anche ad Ingegneria, c’è da discutere. La figura “breve” è sicuramente appetibile in un contesto industriale -ma allora forse sarebbe servita una figura trasversale, svincolata dai corsi di laura tradizionali: il “3” sarebbe dovuto essere qualcosa come un super-ITIS. Viene allora da chiedersi se non sarebbe stato più semplice finanziare e potenziare questi benedetti istituti tecnici, che avevano (ebbero?) una grande tradizione.
    Il problema è la totale incompatibiità del “3” con il vecchio “5” della laurea tradizionale in Ingegneria che, senza verbi al passato o punti interrogativi, ha una grandissima tradizione. Da noi la formula 3+2 si è infranta sul rifiuto assoluto da parte dei docenti (che condivido in toto) di smantellare l’architettura della laurea quinquennale; d’altro canto il diploma (il vero “3” isolato) era fallito in precedenza per mancanza di risorse e, diciamolo, cattiva volontà.
    Qui però torniamo all’appetibilità: in un paese in cui all’ingegnere “5” si offrono stage a condizioni ridicole (il contratto formazione lavoro, V liv. metalmeccanico, che vent’anni fa era l’offerta di lavoro più sfavorevole, oggi sembra un posto a Dubai; non voglio neanche parlare delle pseudocollaborazioni a partita IVA ), nessuno o quasi dei nostri allievi sembra volersi fermare a un “3” percepito come programmaticamente non remunerativo.
    E d’altro canto nel mio settore e circondario geografico i triennalisti non li vuole nessuno -si cercano, a torto o a ragione “progettisti” con la laurea quinquennale-specialistica-magistrale (*).

    (*) Prima o poi bisognerà fare un post sulla ridicola volontà di potenza di coloro che reputano che agli elefanti cresca il corno solo prescrivendo in Gazzetta Ufficiale che li si chiami rinoceronti – tra l’altro scordandosi regolarmente di imporre un nuovo nome ai rinoceronti veri, con gli ovvi problemi del caso.

    • La triennale per i settori in cui esiste l'”albo” dovrebbe ripensata seriamente. L’inutilità dell’albo B è certificata dell’esiguo numero di iscritti (solitamente poche decine a fronte di migliaia).
      Per ingegneri e psicologi bisognerebbe ritornare ad offrire un percorso unico di 5 anni (veri, non 8 o 10), così come è per Giurisprudenza, Architettura, Medicina.
      Le triennali possono andar bene per coprire specifici settori (vedi ad esempio informatica o ICT in generale) in cui c’è richiesta, ma in molti casi dove alla triennale si fa seguire la magistrale in modo sistematico, tanto vale proporre solo il percorso “unico”.
      Certo, con tutti queste laurea a ciclo unico, chi vorrebbe imporre ad alcune università “scarse” di avere solo triennali avrebbe qualche problema…

    • I numeri sono questi (l’effetto devastante della crisi è evidente). Non vedo ragioni a sostegno di quanto scrive Plymouthian.



      (Fonte: AlmaLaurea 2014)

    • Per iscritti intendevo iscritti all’albo B.
      Per il resto non capisco che c’entra il grafico pubblicato da De Nicolao con quanto detto.
      Probabilmente non sono stato chiaro, lo ripeto in altre parole: ingegneri e psicologi sono due albi (che conosco bene) i cui iscritti alla sezione B (triennale) sono un numero infinitesimo rispetto agli iscritti all’albo A.
      Questo significa che chi si laurea alla triennale o lavora, ma non esercita la professione (es. ICT) oppure si iscrive alla magistrale.
      Permettere l’istituzione di percorsi di laurea a ciclo unico anche per questi due ambiti, come fatto per giurisprudenza, medicina e architettura, non mi sembra una cosa tanto strana, soprattutto perche’ se ne parla da tempo.

    • Io ero favorevole a mantenere (e potenziare) i Diplomi universitari in parallelo ai percorsi quinquennali. Solo alcune lauree a ciclo unico non sono state coinvolte nella riforma. Tuttavia, mi sembra molto difficile dove c’è ormai il 3+2 rimettere in pista un “5”. Soprattutto se, come mostrato da AlmaLaurea i laureati triennali si collocano sul mercato del lavoro con percentuali non troppo diverse da quelli magistrali.

    • Il rapporto AlmaDiploma citato più sopra, suggerisce che gli abbandoni più frequenti sono dovuti a due ragioni principali:
      – situazione occupazionale
      – errore nella scelta del corso di studi
      .
      Questo risultato è confermato dall’unico studio, almeno dalla mia ricerca in rete, che affronti il problema in maniera sistematica e approfondita:
      .
      http://www.unimib.it/upload/pag/47245/ab/abbandoniindagine2012.pdf
      .
      Il link sopra è la presentazione del lavoro completo che invece si trova qui:
      .
      http://www.alfaguia.org/alfaguia/files/1342820949_6762.pdf
      .
      Lo studio è stato condotto dall’Università di Milano Bicocca esaminando a campione le matricole e gli studenti della stessa università. Le differenze che si possono trovare con il rapporto di AlmaDiploma sembrerebbero riguardare principalmente il peso dell’estrazione sociale, ma questo è comprensibile.
      Lo studio indaga poi in maniera specifica la responsabilità diretta dell’ateneo, come insoddisfazione nei riguardi dell’offerta didattica e dei servizi, concludendo che risulta avere un peso minore del 10%.
      .
      Per il resto le conclusioni sono simili, e le principali sono:
      – chi lascia molto spesso lo fa perché sceglie il lavoro, nel primo anno o nei successivi;
      – l’altra ragione di abbandoni o anche di esodi tra corsi che portano spesso ad abbandoni, è il pentimento sulla scelta dello specifico corso di laurea fatta dopo il diploma di scuola superiore.
      .
      E’ chiaro che gli atenei potrebbero intervenire anche in questi casi, nei quali la responsabilità dell’abbandono è comunque indiretta.
      Possono farlo cercando di capire se chi sceglie di lavorare a tempo pieno è nell’impossibilità di conciliare studio e lavoro, e se lo è per motivi di organizzazione o per motivi economici. E intervenire eventualmente di nuovo con aumentate risorse per il diritto allo studio (avendocele!) o con un’organizzazione della didattica che tenga conto delle esigenze di chi non può frequentare o comunque di chi ha tempo ridotto per completare gli studi secondo i tempi previsti.
      Anche qui, le scelte ministeriali di penalizzare i fuori corso nel calcolo del costo standard non sono e non saranno di aiuto!
      Per quanto riguarda l’errore di scelta, una possibilità è aumentare i servizi di orientamento (in collaborazione con gli istituti di formazione superiore, tutti) e counseling per gli studenti.
      .
      In sostanza, comunque, le colpe da dare direttamente agli atenei non sono prevalenti, con buona pace di chi ora dirà che non si accettano critiche. Ma c’è margine per migliorare. Sono convinta che servirebbe diffondere maggior consapevolezza di questi problemi tra i docenti con il fine di promuovere dibattiti e possibili soluzioni, anche a livello di corsi di studio.

  8. Grazie a Lilla per la bella analisi. E’ questo il tipo di analisi che vorrei vedere oltre ai semplici numeri del finanziamento decrescente.
    Come altri hanno fatto notare (e devo dire che volevo che li si arrivasse) il 3+2 Italico ha fallito, perché in realtà nasceva (anche) per risolvere il problema della dispersione nelle immatricolazioni e nei laureati.
    Il dato che le immatricolazioni e i “successi” (ovvero i laureati) sono inferiori alla media europea è il sintomo che qualcosa non va.
    Secondo me il vero punto è cambiare radicalmente l’idea della laurea triennale, non più un “premio” alla fine di un rigido percorso (ad ostacoli) senza tempo, ma una certificazione degli studi compiuti nei tre anni.
    Al momento si vive nel paradosso che un 110 e lode ottenuto in 3 anni, vale come uno ottenuto in 10! Se io assegno un progetto di un palazzo ad un ingegnere e impongo una scadenza, voglio che sia fatto bene ed entro quella scadenza, non me ne faccio niente di un progetto perfetto ma due anni dopo la scadenza stabilita!
    Beh, in effetti è lo specchio del paese, dove tutto è allungato e niente impiega mai il tempo previsto…

    • “Il dato che le immatricolazioni e i “successi” (ovvero i laureati) sono inferiori alla media europea è il sintomo che qualcosa non va.”
      ___________________________
      Chissà cosa manca … indovina, indovinello. Di seguito, come nei rebus, alcune figure che possono aiutare a rispondere. Se si guardano le condizioni al contorno (spesa per istruzione, spesa per università, borse di studio, spesa per studente , spesa per laureato, rapporto docenti/studenti), si comprende quanto straordinario sarebbe che immatricolati e laureati fossero pari alla media europea. Con queste risorse, solo il ricorso alla magia potrebbe garantire immatricolazioni e laureati paragonabili alla media europea. E se i venditori di ricette miracolose non mancano, c’è anche il sospetto che il loro numero corrisponda esattamente al numero dei ciarlatani.





      Gli studenti universitari beneficiari di borsa in Italia, Spagna, Germania e Francia, a.a. 2006/07, 2010/11 e 2011/12 a confronto.
      Fonte: MIUR, http://www.destatis.de, Datos y cifras del sistema universitario espanol 2012-2013, http://www.pleiade.education.fr.
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    • Ho visto questi numeri mille volte qui su ROARS. Ed è questo che non mi piace e che mi spinge a scrivere, perché seppur il problema delle risorse è sicuramente importante, non è l’unico, e non credo che semplicemente aumentando le risorse economiche si possa risolvere il problema.
      Infatti, a guardarli, come quelli già riportati sopra, si evince una spesa più o meno costante. Mentre gli studenti sono diminuiti…
      Infatti a ben vedere il report OECD (http://www.oecd.org/edu/Education-at-a-Glance-2014.pdf) , tabella B1.5b, pag. 220, si vede che la spesa per studente è aumentata negli anni (nel 2011 eravamo a 114% rispetto al 2005).
      Il report EACEA, Figure 2.3, che tiene conto dell’inflazione, segna una diminuzione dal 2000 al 2007, ma dal 2007 al 2009 invece si nota una aumento.
      Ovviamente la qualità di questo aumento di spesa è tutta da dimostrare, anzi probabile che sia scarsa, ma comunque mette in serio dubbio il fatto che semplicemente aumentando le risorse si possa ottenere un effetto positivo sul numero di immatricolati.
      Resta il fatto che la percentuale di immatricolati che poi si laurea è più basso della media europea… anche questo dipende solo dallo scarso finanziamento? o forse l’università dovrebbe interrogarsi e vedere se cambiando qualcosa al suo interno si può migliorare?
      Per questi motivi, spero che oltre a sottolineare, giustamente, la scarsità di risorse, si inizi anche a discutere sul cosa all’interno dell’università non va e fa scappare gli studenti.

    • “… si evince una spesa più o meno costante.”
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      Non direi:


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      “si vede che la spesa per studente è aumentata negli anni (nel 2011 eravamo a 114% rispetto al 2005)”
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      Attenzione che è la stessa OCSE (pag. 209) ad avvertire che questo dato soffre di distorsioni: “Given that the duration and intensity of tertiary education vary from country to country, differences in annual expenditure on education services per student (Chart B1.2) do not necessarily reflect differences in the total cost of educating the typical tertiary student.”. Meglio guardare la spesa cumulativa per studente. Ecco a confronto il dato 2004 con il dato 2010. Come si può vedere il nostro distacco dalla media OCSE aumenta.




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      “… mette in serio dubbio il fatto che semplicemente aumentando le risorse si possa ottenere un effetto positivo sul numero di immatricolati.”
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      Io invece non ho nessun dubbio sul fatto che tagliare FFO (già visto), personale e fondi destinati borse di studio abbia un effetto negativo sul numero di immatricolati.



      Gli studenti universitari beneficiari di borsa in Italia, Spagna, Germania e Francia, a.a. 2006/07, 2010/11 e 2011/12 a confronto.
      Fonte: MIUR, http://www.destatis.de, Datos y cifras del sistema universitario espanol 2012-2013, http://www.pleiade.education.fr.
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      Resta il fatto che la percentuale di immatricolati che poi si laurea è più basso della media europea…
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      Siamo terzi in Europa come tasse universitarie e tra gli ultimi come fondi destinati al diritto allo studio. Non brilliamo neppure come rapporto docenti/studenti. E per di più ci è stato ribadito in tutti i modi (VQR, ASN, etc) che l’impegno dedicato alla didattica non conta nulla per fare carriera. Sono convinto che l’università dovrebbe dare massima priorità al problema degli abbandoni. Ma anche in questo caso, se guardo i numeri la spesa media per laureato italiano è decisamente più bassa di quella spagnola, tedesca e svedese.






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      “Per questi motivi, spero che oltre a sottolineare, giustamente, la scarsità di risorse, si inizi anche a discutere sul cosa all’interno dell’università non va e fa scappare gli studenti.”
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      Università di Palermo: 3.000 famiglie non riescono a pagare le tasse
      http://www.flcgil.it/regioni/sicilia/palermo/universita-di-palermo-3-000-famiglie-non-riescono-a-pagare-le-tasse.flc
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      Credo che il miglior commento alla continua ricerca di pretesti per giustificare la distruzione dell’università (e all’inutilità del demolirli ad uno ad uno) ce lo dia Fedro:
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      Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l’agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar briga e allora disse: “Perché osi intorbidarmi l’acqua?”
      L’agnello tremando rispose: “Come posso fare questo se l’acqua scorre da te a me?”
      “E’ vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole”.
      “Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato”.
      “Allora” riprese il lupo “fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie”. Quindi saltò addosso all’agnello e se lo mangiò.
      Questo racconto è rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro falsi pretesti.
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      Identificare gli universitari come “giusti” può sembrare provocatorio. Ma l’università (al pari della scuola) è un servizio essenziale per il paese e (come la scuola) è diventata la vittima designata di chi accampa pretesti per realizzare obiettivi fortemente ideologici il cui rapporto costi-benefici lascia molto ma molto perplessi. E se gli universitari non sono tutti “giusti” è però “giusto” che l’istituzione venga messa in condizione di funzionare per il bene di tutti.

    • Ultimo commento: Roars è dispostissimo a discutere cosa non va e credo che non esista altro sito in Italia dove sono stati pubblicati più articoli che affrontano tutti i possibili problemi dell’università in chiave nazionale ed internazionale. Ma non si può accettare la strumentalizzazione dei problemi (che esistono, come già scritto) e la falsificazione dei numeri per legittimare una devastazione globale, facendola passare per riforma virtuosa.

    • Attenzione. Chiarisco subito che non ho nessuna intenzione di “strumentalizzare dei problemi (che esistono, come già scritto) e la falsificazione dei numeri per legittimare una devastazione globale, facendola passare per riforma virtuosa.”
      Vorrei solo far riflettere e discutere sul fatto che gli studenti vanno via e non si iscrivono all’universita’ _anche_ per problemi interni a questa e non solo per cause esterne che certamente ci sono (es. scarso finanziamento e propaganda anti laurea).

    • Non mi rivolgevo a Plymouthian e mi scuso se quanto ho scritto poteva essere frainteso. Alludevo ad una pubblicistica che ha il suo culmine nell’Università truccata di Perotti. Se non riusciamo a vedere la trave costituita dalla demolizione del diritto allo studio e dallo scivolamento dell’Italia agli ultimi posti UE ed OCSE per spesa e diffusione dell’istruzione terziaria, lo dobbiamo a questo lavoro ai fianchi che ha dato una patina di scientificità a scelte essenziamemte ideologiche.

  9. Quello che emerge dagli indici, che andrebbero divisi tra ex-ante (cause) e ex-post (effetti), è la totale insostenibilità del sistema che si è evidenziata grazie a scelte politiche relative all´istruzione e alla ricerca totalmente sbagliate sotto ogni punto di vista, sia economico che sociale. Queste politiche stanno compromettendo il futuro delle prossime generazioni.
    ——
    Secondo la definizione tradizionale, lo sviluppo sostenibile è “uno sviluppo che risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie”. In altri termini, la crescita odierna non deve mettere in pericolo le possibilità di crescita delle generazioni future. Le tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono essere affrontate in maniera equilibrata a livello politico. http://europa.eu/legislation_summaries/environment/sustainable_development/index_it.htm
    ——
    C`é chi giustamente aggiunge la sostenibilità istituzionale.
    Non esiste solo il default finanziario, ma anche quello sociale e istituzionale, aspetto questo molto meno trattato rispetto al primo, ma non per questo meno rischioso nel condurre a instabilità e conflitti.
    Qual´è la soglia oltre la quale il sistema Università può collassare e con esso travolgere le istituzioni e l´economia? A mio avviso siamo sulla buona strada per scoprirlo anche senza bisogno di modelli che ci possano dare delle indicazioni. Già i primi campanelli d`allarMeci sono …. molti.
    —–
    “Noi continuiamo a fare cose di cui è evidente che in futuro, ci dovremo pentire – e questo tanto sul piano tecnico –materiale quanto su quello della prospettiva morale” Claus Offe in “Progressi nella concezione di progresso? La rivista delle politiche sociali, n.1, 2011

    https://www.youtube.com/watch?v=RaxEMA9OhgU

  10. Il MIUR vuole Universita’ virtuose dove:

    i) gli iscritti si laureano quasi tutti;

    ii) i laureati trovano tutti lavoro.

    Mi sembrano obbiettivi sensati. Le Universita’ hanno anche il compito di aiutere le persone a lavorare nel settore di loro interesse.

    Nelle lauree sanitarie triennali (radiologia, infermieristica, ostetricia, fisoterapia, oftalmologia, eccetera) si puo’ essere abbastanza virtuosi coordinandosi con il servizio sanitario regionale:

    numero programmato di iscritti sulla base del numero di posti previsti negli ospedali regionali.

    Per altre lauree la cosa e’ molto piu’ complicata.
    Oltre a chiedere doverosamente piu’ risorse alla Stato, forse le Universita’ italiane possono fare qualche cosa da subito, cercando di rispondere a queste domande:

    a) Esiste un problema di disoccupazione tra i laureati con certe lauree?

    b) Come devono agire le Universita’ per facilitare l’inserimento lavorativo di questi laureati disoccupati?

    c) Come devono agire le Universita’ affinche’ non vi siano laureati disoccupati?

    d) C’e’ forse un problema di coordinamento tra Universita’ e realta’ produttive private?

    e) C’e’ forse un problema di spocchiosita’ da parte di alcuni docenti universitari nei confronti delle realta’ produttive private, e viceversa?

  11. Vorrei evitare la polemica, perche’ non e’ questo quello che cerco.
    Pero’ mi sembra che quello che ho scritto sia stato forse letto “in fretta”, pensando che i miei commenti fossero i soliti contro i fannulloni.

    Ripeto, non giustifico assolutamente i tagli, ma mi sembra che l’emorragia degli studenti sia iniziata prima che questi avessero l’effetto devastante che abbiamo visto ultimamente.
    Quindi oltre a reclamare giustamente piu’ risorse, e’ bene che si pensi a come fare per attirare studenti e secondo me fare in modo che termino il loro percorso di studi in 3 anni anziche’ 5 puo’ sicuramente aiutare, dato che si tratta anche di pagare tasse per due anni in meno.

    Infine, dato che non mi va di passare come chi (e ce ne sono tanti) “falsifica i numeri”, faccio delle precisazioni:
    Quando dico “… si evince una spesa più o meno costante.”, mi riferisco chiaramente a quanto riportato sul rapporto OCSE (che e’ in termini assoluti). Se i dati sono sbagliati non so cosa dire. Comunque anche riguardando il grafico dell’FFO che lui stesso pubblica, non posso che ribadirlo, la spesa in termini assoluti dal 2003 al 2014 vede un aumento di 500 milioni (molto maggiore dal 2003 al 2010, ovvero prima dei tagli di Tremonti).
    Inoltre, dico “Il report EACEA, Figure 2.3, che tiene conto dell’inflazione, segna una diminuzione dall 2000 al 2007), cosa che pero’ non risulta dal grafico di De Nicolao, che invece segna un aumento.
    Comunque, anche dal grafico di De Nicolao, dal 2003 al 2010 si vede che il finanziamento in termini reali resta quasi lo stesso (5366 contro 5361), ma se si vedono i dati dell’anagrafe degli studenti del 2003/04 e del 2009/10 ci sono 40 mila immatricolati in meno. Dopo e’ crollato tutto, ma i due report che stiamo discutendo fotografano la situazione fino al massimo al 2011.

    • Plymouthian, il fatto è anche che i meccanismi sono più complessi di così, perché il diritto allo studio è riconducibile direttamente e indirettamente all’FFO.
      Il diritto allo studio è infatti finanziato dallo Stato con fondi trasferiti direttamente alle regioni, con fondi stanziati dalle regioni stesse, con le tasse regionali degli studenti e con parte delle tasse universitarie pagate alle università.
      La riduzione dell’FFO, del 12,9% dal 2009 al 2012, ha comportato, da una parte, l’aumento delle tasse universitarie (+17,7% sempre dal 2009 al 2013) e, dall’altra, l’utilizzo minore delle tasse stesse per finanziare il diritto allo studio da parte delle università.
      Parallelamente, il fondo statale per il diritto allo studio è diminuito, gli stanziamenti delle regioni pure.
      Con l’ultima legge di stabilità, che penalizza le regioni, costrette a scegliere se finanziare università o sanità o trasporti per far fronte ai tagli, le cose sarebbero peggiorate:
      .
      http://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/POLITICA/universit_amp_agrave_borse_di_studio_studenti_sblocca_italia_matteo_renzi/notizie/962722.shtml
      .
      Anche prima del 2009, i fondi per il diritto allo studio sono stati sempre insufficienti a coprire tutte le domande degli aventi diritto. La situazione è precipitata negli ultimi anni.

  12. I fattori sono tanti, per lunghezza degli studi e abbandoni, ma non ci dimentichiamo mai (dati Alma Laurea, sempre disponibili) che la maggioranza dei nostri studenti lavora almeno parzialmente (o stagionalmente) durante gli studi, e sta a un’ora o piu’ di pendolarismo dalla sede (sola andata). (Non vado a controllare ora le cifre esatte, ma sono due fattori devastanti). Con le borse di studio, e con i collegi, e’ un’altra vita. Se non ci si ricorda sempre questo, i confronti con altri paesi non hanno senso.

  13. Arrivano !

    http://www.lastampa.it/2015/01/19/italia/cronache/basta-illusioni-e-pi-tutor-nelluniversit-UA9nCBqLec07BWxHGEHucO/pagina.html

    Segnalo quella che mi pare l’unica vera informazione in mezzo al mare di retorica efficientista/antibaronista ormai d’obbligo:

    <>

    Notate: la percentuale (non il numero ) di laureati, aumentare il numero costa e richiede impegno economico da parte del Governo, aumentare la percentuale è MOOLTO più facile. A proposito, c’è qualcuno che riesce a immaginare possibili comportamenti opportunistici per aumentare questa percentuale, che forse non vadano esattamente nella direzione della qualità della didattica ? Io proprio no….;-)

    E chissà perché l’inserimento nel mondo del lavoro mi ricorda i fantastici indicatori ANVUR su attrattività di fondi, spese interne per la ricerca, numero di borse e assegni di ricerca etc. etc. (o il meraviglioso criterio di qualità ISEF) che forse un tantino hanno favorito gli Atenei del Nord in questi anni creando il ben noto “Effetto San Matteo”. Ci voleva proprio una coraggiosa presa di posizione a favore dei più forti !
    (però, bontà sua, egli riconosce quasi con stupore che al Sud ci sono “alcune ottime Università” nientemeno! ) Buona Università a tutti…

    • Riscrivo la citazione che è “saltata” nel commento precedente:

      Penso anche che dobbiamo definire una volta per tutte come sarà attribuita la quota premiale “libera” del FFO, circa il 6%, che non può cambiare destinazione ogni anno. Sono convinto che deve andare a premiare i risultati della didattica, cioè la percentuale dei laureati e il loro inserimento nel mondo del lavoro

    • In certi punti sembra che abbiano copiato la nostra discussione…

      «Le risorse sono sempre un problema ma non possono essere l’unico problema. Soltanto meno della metà dei nostri studenti sono in corso e attivi, oltre la metà degli immatricolati non arriva mai alla laurea, i laureati in corso sono meno del 20%: è solo questione di risorse o anche di organizzazione e di priorità malposte? Di obiettivi e di strategie sbagliate?»

      Ah, se fosse vero: “Piuttosto vediamo rapidamente come valorizzare il dottorato nell’amministrazione pubblica, nelle imprese, nelle professioni. Penso soprattutto alla scuola, dove le competenze di chi ha raggiunto il massimo livello di formazione accademica potrebbero essere un volano di qualità”.

    • Sembrerebbe in effetti uno che legge Roars. Anche se non gli è sempre tutto chiaro.
      .
      Qualche idea penso sia giusta, qualche altra fumosa, qualche altra paurosa, come quando evoca lo spettro de “La Buona Scuola”. E quindi quelli di “valutazione”, “incentivi”, “merito”, “giovani”, “test”, “confindustria”, come li conosciamo.
      A #cambiareverso in quello sbagliato è un attimo. Poi i guai durano anni invece.

  14. Paura! Le premesse sono da paura! Rivedere il diritto allo studio. Chissà cosa vorrà dire?
    Certo rivediamo anche i criteri di progressione di carriera. Rivediamo tutto. Chi se frega che ci sono docenti di un po’ cogli ioni che girano. Docenti che si sono sobbarcato fino a 170-180 ore di didattica frontale quando erano tenuti a farne al max 90 per mandare avani la baracca. Hanno anche ottenuto l’abilitazione, ma ora dobbiamo rivedere i criteri. Magari l’europa ci chiede di aumentare le ore di lezione (vedi corsi di medicina), ma non assumiamo, non promuoviamo … e i docenti cogli ioni che girano che faranno? Cogli ioni che girano si fanno reazioni esplosive.

  15. Ma in un momento di scarsità di lavoro servono questi laureati? Io sono convinto di si’ (nel senso che il mondo è complesso e il 60% degli italiani sono analfabeti per molti versi), ma sono anche convinto che purtroppo i lavori “migliori” (grandi industrie, accademia, banche) [che io non reputo tali] se li prendano quelli di 2-3 università rinomate. Ne discutevo proprio oggi con i miei colleghi a mensa: gente laureata, con il dottorato, ma che pensa di essere di una classe inferiore perché non ha studiato nelle università d’élites.

    Come dice un commento, in UK ci sono laureifici e molti che escono giovanissimi con un minimo di cultura di limitata applicazione. Poi c’è Oxbridge, di fatto basta entrarci e si ha la strada spianata per qualsiasi carriera. In Francia è l’ENS, in Germania Heidelberg.

    Mi sembra che questi obiettivi europei siano una truffa: per gli studenti, che sacrificano tempo e denari per avere poco in cambio, per noi docenti-ricercatori che dobbiamo sobbarcarci più lavoro didattico con studenti meno motivati e con la delusione di non vederli impiegati. Gli unici a guadagnarci sono i datori di lavoro, che hanno un insieme di candidati più ampio, cui possono negare ogni prospettiva economica e sociale. “Intanto come te ne incontriamo tutti i giorni”. Queste fontane di denari che nascono dalla specializzazione del lavoro, fatico a vederle. Sono più i lavori distrutti da élite avide e indifferenti, che i nuovi lavori che qualcuno si potrebbe inventare, al momento.

    • Fatico un po’ a seguire questi ragionamenti.
      E’ dunque meglio mediamente non laurearsi per restare diplomati e avere ancora meno possibilità di lavorare?
      E due: va bene accettare che le politiche del lavoro e industriali scarse continuino ad essere il fattore “pull” di una domanda di laureati sotto la media UE casomai?
      Non ultimo, la laurea non dovrebbe avere valore solo in quanto direttamente spendibile sul mercato, ma dovrebbe valore in sé, come mezzo per aumentare le proprie conoscenze, la propria capacità critica e quindi di scelta.
      I valori democratici e civili si basano in larga parte su questo tipo di capacità.
      E’ un problema che politici e cittadini a quanto pare si pongono ben poco.

    • Sono d’accordo con Lilla; scusate la confusione del commento. Volevo dire, attenti a confondere la propaganda con la il fine reale di svalutare la cultura e le competenze delle persone. Pero’ una cultura la si puo’ avere anche con un diploma: il mio povero nonno, da ragioniere, capiva molte più cose di quelle che capiscono certi laureati (me compreso) e mi aveva avvertito a proposito di fatti futuri e preconizzato molte criticità che si stanno avverando.

      Se tutte le università fossero dei luoghi di pensiero libero e critico e non dei diplomifici/progettifici/uffici marketing/club per giovani di buona famiglia avremmo un mondo più civile senz’altro. Siamo in grado di farlo?

    • Ehilà, grazie a voi! Ormai mi stavo abituando a pomodori e uova marce.
      Ovviamente nessuna offesa per i diplomati. Anch’io ho una nonna diplomata in gambissima di 90 che fa ancora le parole crociate e ne frega parecchi – come ho un figlio ottenne che “tanto c’è il bancomat, che problema c’è” (quello che va al liceo è passato a “tanto basta che ricarichi la paypal”).
      Solo che gli studi universitari si chiamo “higher education” e “studi superiori” perché danno la possibilità di affinare gli strumenti culturali, di approfondire i propri interessi, di esplorare e realizzare le proprie capacità e potenzialità, ecc.
      Se siamo i primi a dubitare di poter realizzare un’istruzione di qualità, gli altri ci crederanno ancora meno.
      .
      Ai figli invece spiego che i soldi non nascono dentro il bancomat o la paypal ma che c’è un serbatoio finito dove si mette un tot di “acqua” ogni mese che però deve servire per tante cose, a partire dalle più importanti. Abbiamo una differenza di vedute sulle “cose più importanti”, ma in quel caso io sono il ministro con il portafoglio.

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