«Atenei, cattedre di padre in figlio. Ma per la parentopoli non paga mai nessuno» scrive Repubblica e il direttore della Nazione rincara la dose: «ha ragione Cantone: la rendita di posizione dei baroni universitari è scandalosa. Non esiste altro settore dell’amministrazione pubblica in cui sia così alto il numero di “figli di”».  Era stato Raffaele Cantone, responsabile dell’ANAC, a denunciare «un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione», ma sono altri, Gelmini in testa, a riesumare la polemica sul dilagare del nepotismo accademico, Sergio Rizzo sul Corriere scrive «Favori agli amici e concorsi truccati – In cattedra finiscono i figli dei prof». Qualcuno si spinge a ricordare che del nepotismo accademico italiano era stata persino fornita una prova scientifica incontrovertibile, basata sull’analisi della frequenze delle omonimie tra i cognomi dei docenti. Perotti e Allesina erano due studiosi che si erano cimentati in questo compito e molti danno credito ai loro risultati. Ma dal punto di vista scientifico le cose sono meno scontate di quanto si creda. Anzi, se si fa un’operazione semplice semplice, come andare a contare il numero di omonimie in eccesso, si scopre che, sul totale dei docenti analizzati da Allesina, le omonimie in eccesso erano pari all’1,36%. Sembrerebbe che, insieme alla spesa per studente “più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia” e all’università italiana che “non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale“, anche le dilaganti “omonimie in cattedra” siano l’una delle tante bufale di cui si è nutrito il dibattito sull’università italiana in questi ultimi anni. L’università di Perotti era davvero “truccata”.

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1. Università corrotta e familistica

Il 23 settembre scorso, Raffele Cantone, responsabile dell’ANAC, l’Agenzia Nazionale Anti-Corruzione, interviene al convegno nazionale dei responsabili amministrativi delle università:

C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione  Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, spesso soprattutto segnalazioni sui concorsi

Cantone entra anche a gamba tesa sulla riforma dell’università che “ha finito per creare più problemi di quanti ne abbia risolti“:

Non voglio entrare nel merito, non ho la struttura né la competenza – ha aggiunto Cantone – ma la riforma Gelmini secondo me ha finito per creare più problemi di quanti ne abbia risolti. Per esempio, ha istituzionalizzato il sospetto: l’idea che non ci possano essere rapporti di parentela all’interno dello stesso dipartimento, il che ha portato a situazioni paradossali». «In una università del Sud è stato istituzionalizzato uno “scambio”: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Credo che questo sia uno scandalo e che lo sia il fatto che si sia stati costretti a fare questa operazione; se tutto avvenisse in trasparenza, la legge che nasce dalla logica del sospetto è una legge sbagliata.

Inutile dire che Mariastella Gelmini non ha apprezzato:

Sono stupita dalle parole di Cantone, non voglio polemizzare, però mi spiace che un uomo come lui pensi che un ministro debba chiudere gli occhi di fronte a tanti  casi di parentopoli e raccomandazione negli atenei. La riforma aveva l’obiettivo di rendere i concorsi meno discrezionali, super partes ed orientati alla meritocrazia. Mi pare che siano risultati effettivamente ottenuti”. La vice capogruppo vicario di Forza Italia alla Camera ha proseguito: “Aver previsto commissioni giudicanti esterne, valutazione da parte degli studenti e valutazione delle produzioni scientifiche da parte del nucleo di valutazione d’ateneo e anvur hanno scardinato i vecchi concorsi vinti, in tanti casi da parenti e amici a discapito di giovani figli di nessuno ma preparati. Sono tanti i libri e i dossier del miur che parlavano delle parentopoli italiana nelle nostre università, proprio all’inizio del mio incarico da ministro.

Il collegamento tra fuga dei cervelli e corruzione, insieme all’esempio di scambio di cattedre per eludere la cosiddetta “norma antiparentopoli” dà lo spunto alla Gelmini per riesumare il tema della parentopoli accademica.

C’è anche chi reagisce come Alessandro Campi, che sul Messaggero interviene con un articolo, le cui solide argomentazioni vanno al di là del titolo perentorio:  “Cantone ha torto. Mancano i concorsi“. Tuttavia, l’intervista del direttore dell’ANAC scatena una vera e propria grandinata, che ha tra i suoi leitmotiv proprio quello della parentopoli accademica dipinta come piaga storica che nemmeno la riforma è riuscita a sradicare. Università, Cantone: «Stretto legame tra corruzione e fuga di cervelli» titola il Corriere che pubblica un articolo di Sergio Rizzo, sferzante ma d’annata.

Non ha dubbi il direttore della Nazione che, rispondendo alla lettera di un lettore, scrive:

ha ragione Cantone: la rendita di posizione dei baroni universitari è scandalosa. Non esiste altro settore dell’amministrazione pubblica in cui sia così alto il numero di «figli di»

Prof universitari. La super-casta

Giuliano Foschini su Repubblica.it non usa mezze misure:

Atenei, cattedre di padre in figlio. Ma per la parentopoli non paga mai nessuno
Le inchieste quasi sempre prescritte. Settemila casi di omonimia su 61mila docenti

Una ricerca di qualche anno fa di un trentenne matematico emiliano, costretto a emigrare negli Stati uniti non per ragioni di studio ma per ragioni di spazio (“tutto occupato dai parenti”), raccontava che tra gli oltre 61mila professori italiani, c’erano settemila casi di omonimia. E che duemila di essi si ripetevano più di due volte. Un’anomalia. Perché, prendendo un elenco a caso di 61mila persone, per la statistica le omonimie avrebbero dovuto essere meno della metà.

Lo strano caso dell’omonimia diffusa viene ripreso anche sulle News di Tiscali.

Ma da dove proviene la convinzione che il dilagare della parentopoli accademica sia un dato acquisito scientificamente? Alcuni citano Roberto Perotti, direttamente o indirettamente (è il caso dell’ex-ministro Gelmini), mentre Giuliano Foschini allude a un articolo di Stefano Allesina uscito nel 2011. Per ricostruire i passaggi attraverso i quali si è consolidata questa convinzione, dobbiamo fare un passo indietro di diversi anni.

PerottiVoila

2. L’università truccata by Perotti

Negli anni precedenti la riforma Gelmini (la l. 240/2010) il dibattito sui mali dell’università  subì un salto di qualità. La novità fu il tentativo di dare una patina di scientificità alle diagnosi di inefficienza e corruttela attraverso l’uso di dati quantitativi. Il pamphlet di Perotti, che può essere considerato sia il punto di arrivo di questa campagna che quello di partenza della riforma, offre una buona sintesi delle tre principali direttrici di questa analisi “oggettiva”.

  1. L’uso dei dati OCSE per mostrare che la spesa per studente è ““la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia“ (p. 38). Come spiegato anche da Roars, il dato OCSE pubblicato nel 2007 (già corretto per le diverse durata dei percorsi di studio) diceva altro: l’Italia era 13-esima su 24. Inspiegabilmente, Perotti ignorava il dato OCSE corretto e utilizzava un altro dato, non corretto per la durata degli studi, moltiplicando la sola spesa italiana per un fattore 2,07, con la scusa degli studenti fuoricorso, ignorando la loro significativa presenza nelle altre nazioni, confermata anche dal suo collega Francesco Giavazzi.
  2. L’uso di classifiche internazionali degli atenei e di statistiche bibliometriche per giungere alla conclusione che “l’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale“. Riguardo alle classifiche, anche senza entrare sulla loro mancanza di basi scientifiche, basta rapportare i risultati ai fondi disponibili per vedere che gli atenei italiani ottengono molto con poche risorse, come recentemente mostrato in relazione alla Classifica ARWU 2015: 14 università italiane meglio di Harvard e Stanford come “value for money”. Anche le analisi bibliometriche di Perotti lasciavano a desiderare: evitava di dare credito alle misure accreditate nella letteratura (numero di articoli, di citazioni e le relative produttività pro-capite e per unità di spesa che mostrano invariabilmente le buone prestazioni della ricerca e dell’università italiana) e insisteva invece sul fattore di impatto standardizzato. Da un lato, l’indicatore era inadatto a stilare classifiche tra nazioni (nel 2012 in testa alla classifica mondiale ci sarebbe stato l’Arcipelago Chagos nell’Oceano Indiano). Dall’altro Perotti riportava selettivamente i dati di (King, 2004)  “dimenticandosi” di informare i suoi lettori che il fattore d’impatto normalizzato della ricerca italiana (1,12) era pari a quello francese e di poco inferiore a quello canadese (1,18). Per ironia della sorte, nel dicembre 2013 Nature ha dato la notizia che, secondo il parametro tanto amato da Perotti, l’Italia ha superato gli USA.
  3. L’analisi statistica delle omonimie per dimostrare che il nepotismo accademico non è episodico. Il punto di partenza è semplice: vedere ripetersi più volte alcuni cognomi tra i docenti di un dipartimento o di un ateneo suscita il sospetto di pratiche familistiche, che in alcuni casi sono state anche confermate da inchieste e sentenze giudiziarie. Come capire se il fenomeno non è episodico se non quantificandolo? Tuttavia, riferendosi alla sua Tabella 4 a pag 58, è lo stesso Perotti a riconoscere i limiti del semplice conteggio delle omonimie, “sia perché non tutti i casi di omonimia implicano legami familiari, sia perché la presenza di due parenti nella stessa facoltà può essere perfettamente legittima e giustificata sulla base della produzione scientifica“. La parentopoli accademica è però un boccone troppo ghiotto per rinunciare a darle una veste scientifica e Perotti ci prova insieme R. Durante, G. Labartino e G. Tabellini, scrivendo un working paper dal titolo eloquente Academic Dinasties, il cui titolo coincide con un contrbuto presentato nel 2009 alla Conference of the European Economic Association & Econometric Society tenutasi a Barcellona (fonte: Google Scholar, che non dà link al pdf). Dal 2009 al 2011 lo studio rimane una sorta di work in progress (Google Scholar ne cita altre tre versioni con titoli leggermente variati), ma, da quanto siamo riusciti a ricostruire, non sembra che riesca a venire alla luce in una rivista peer reviewed. Ciò nonostante, la tesi di una parentopoli accademica oggettivamente convalidata da percentuali anomale di omonimie  ottiene presto una grande risonanza presso gli organi di informazione, anche perché il lancio parte già dal 2008:

T. Boeri, L’ateneo al voto tra i parenti, Repubblica (3.10.2008)

T. Boeri e R. Perotti, Omonimie in cattedra, lavoce.info (10.10.08)

Come abbiamo visto, le prime due direttrici tematiche (spesa per studente e quantità/qualità della ricerca) non hanno retto il debunking e sono entrate a buon diritto nell’elenco delle tante leggende che hanno alimentato il dibattito sull’istruzione superiore. Questo non vuol dire che non sopravvivano tra i luoghi comuni diffusi nell’opinione pubblica e persino tra molti giornalisti e politici. Tuttavia, rientrano a buon diritto nella categoria della zombie idea, ovvero “a proposition that has been thoroughly refuted by analysis and evidence, and should be dead — but won’t stay dead because it serves a political purpose, appeals to prejudices, or both” (P. Krugman).

La dimostrazione scientifica del nepotismo accademico, invece, ha continuato a vivere in una specie di limbo, dato che mancava una consacrazione scientifica, ma non era neppure disponibile un debunking. Una delle ragioni del limbo è che i working paper di Perotti, a differenza del successivo articolo peer reviewed di Allesina, non riportano i valori assoluti delle omonimie in eccesso. Una ragione in più per lasciarli nel limbo e concentrare l’attenzione sul lavoro di Allesina che invece fornisce esplicitamente i numeri di omonimie in eccesso, disaggregati per i diversi settori, un’informazione che, come vedremo, è essenziale per giungere ad una valutazione quantitativa del fenomeno.

3. La conferma (scientifica?) del nepotismo all’Università

Siamo nel 2011 e i riflettori dei mezzi di informazione si dirigono di nuovo sulla scienza del nepotismo. Ad accendere la miccia è Stefano Allesina che pubblica su PLOS ONE un articolo intitolato

Measuring Nepotism through Shared Last Names: The Case of Italian Academia

Per farsi un’idea della ricezione da parte dei  mezzi di informazione, basta leggere titolo e paragrafo iniziale di Linkiesta

La classifica (scientifica) del nepotismo all’Università

Dopo le inchieste giornalistiche, le indagini dei pm e i processi, ora arriva la conferma scientifica che i nostri atenei sono inquinati dalla piaga del nepotismo. La prova viene fornita da un approfondito studio statistico, condotto da Stefano Allesina, cervello in fuga dall’Italia ora ricercatore all’università di Chicago, con cui è stata analizzata la ricorrenza dei cognomi nelle università italiane.

L’approccio di Allesina, è concettualmente simile, ma tecnicamente diverso da quello di Perotti e dei suoi coautori, che vengono anche citati nel testo. L’analisi è condotta sul database di tutti i docenti e ricercatori di ruolo dell’università. Sulla base di alcune ipotesi statistiche, Allesina calcola per ognuno dei 28 settori  dell’università italiana il numero di cognomi distinti che ci si dovrebbe attendere se la distribuzione dei soggetti in un settore piuttosto che in un altro:

I took a different approach and tested whether the diversity of last names displayed by the various disciplines is lower than expected at random. Clearly, the results can only suggest, but not prove, which disciplines are likely to be impacted by nepotism

Come Perotti prima di lui, Allesina è ben consapevole che un certo numero di omonimie non sono dovute a parentela, ma sono puramente accidentali e associate alla frequenza dei diversi cognomi, si pensi per esempio ai “Bianchi” o ai “Rossi”. È quindi fondamentale confrontare il numero dei cognomi osservati in un settore (che sarà di norma minore del numero dei docenti) con il numero cosiddetto “atteso”, che mi aspetterei di trovare a causa delle omonimie accidentali. Se le scelte dei figli fossero del tutto indipendenti rispetto a quelle dei padri, il numero dei cognomi osservati sarà talvolta minore e talvolta maggiore di quello atteso, ma raramente sarà molto diverso. L’idea alla base dello studio di Allesina è che un numero di cognomi molto più piccolo di quello atteso segnala la propensione dei figli a seguire le orme dei padri.

Non tutti sono convinti che il modello statistico di Allesina, focalizzato sull’eccesso di omonimie, sia un metodo corretto di misurare il nepotismo. Ferlazzo e Sdoia, sempre su PLOS ONE, hanno applicato lo stesso metodo di Allesina agli accademici britannici, trovando eccessi di omonimie non molto diversi da quelli italiani:

Our results suggest that the analysis of shared names should not be used as a tool to measure the diffusion of nepotism in academia or in any organization. Indeed, social capital factors are likely the most important determinants of the proportion of shared last names in academia, as shown by the strictly similar results from the analysis of last names amongst academics in Italy and the UK. Also, demographic factors play a role as well, as shown by the significantly smaller than expected number of distinct given names of academics in Italy. Our results do not imply that nepotism does not exist in Italian academia, for it surely is. However, the results do show that the analysis of shared last names as it was proposed in [1] is not a valid method to measure how diffuse nepotism is. […] Indeed, it is worth noting that our results strongly suggest that any method to measure nepotism should be carefully validated, for example by comparing different countries.

Measuring Nepotism through Shared Last Names: Are We Really Moving from Opinions to Facts?

Allesina ha replicato così:

I show that the scarcity of last names in the UK disciplines is largely due to field-specific immigration. This is why fields of research in which the presence of immigrant researchers is relevant (such as Computer Science, Pure Mathematics and Applied Mathematics) display more names than expected, while for example low-immigration disciplines such as English Literature or Celtic Studies show a significant scarcity of last names. I also show that the scarcity of first names in Italian disciplines is due to male/female representation.

Senza riuscire a convincere del tutto Ferlazzo e Sdoia, a quanto pare:

It is worth noting that the Allesina argues that a pattern of results in Italy is due to nepotism, while the same pattern in the UK is due to something else. However, it should be specified when a given result can be taken as a sign of nepotism and when the same result should instead be considered as due to demographic factors. The question is: what is the proportion of immigrant researchers, or of women, or of rare names that makes it possible to interpret the results of the analysis as due to nepotism or not? In other words, what are the boundary conditions?

Di tutt’altro tenore la critica ad Allesina da parte di G. Abramo e C.A. D’Angelo, apparsa su Scientometrics nel 2014 con il titolo Relatives in the same university faculty: nepotism or merit? Sia Perotti che Allesina cercano di correlare gli eccessi di omonimie con le performance scientifiche di atenei e dipartimenti. Tuttavia, è ben noto che correlation does not imply causation. Abramo e Ciriaco prendono il toro per le corna e, con l’ausilio del database bibliometrico Web of Science studiano direttamente le performance dei figli. Se il nepotismo (biologico) è davvero quel cancro che dicono, i figli di papà dovrebbero fare peggio degli altri. Ma non è così. Lasciamolo spiegare a loro:

Per provare a dirimere la questione, abbiamo confrontato individualmente la performance di ricerca dei “figli” con quella dei “non figli” dello stesso settore scientifico disciplinare, ruolo d’inquadramento e anzianità. La misura, condotta con tecniche bibliometriche, ha riguardato la produttività di ricerca nel quinquennio 2004-2008 degli accademici delle discipline scientifico-tecnologiche assunti o avanzati di ruolo nei tre anni precedenti. (3)
I risultati rivelano che in media i “figli”, la cui concentrazione è piuttosto omogenea nelle diverse aree disciplinari analizzate, hanno una performance di ricerca che non è significativamente diversa da quella dei colleghi “non figli”. (4) Un approfondimento a livello geografico ha mostrato addirittura che nelle università del Centro Italia i “figli” hanno in media una produttività di ricerca maggiore di quella dei “non figli”, mentre al Nord e al Sud i valori di produttività sono pressoché identici.

Concludiamo la discussione della letteratura osservando un’apparente contraddizione da parte di Abramo e Ciriaco. Da un lato scrivono che “gli alti tassi di omonimia nelle università italiane non possono essere ritenuti casuali“, ma subito dopo osservano che “il numero dei “figli” è in genere relativamente modesto rispetto allo staff dell’intera facoltà per poter immaginare che la performance dei primi possa incidere in modo così rilevante su quella della seconda“. Ma allora, questi benedetti tassi di omonimia sono alti o modesti?

Questa è la domanda decisiva.

4. Molto più piccolo. Ma quanto più piccolo?

Quello che segue è probabilmente il passaggio cruciale dell’articolo di Allesina (il grassetto è nostro):

In 9 sectors I found p-values smaller than 0,05, representing fields with high probability of nepotism. These fields include exactly 32,000 researchers: the majority of Italian academics (52.17%) work in disciplines that display a number of names much smaller than expected.

Per chi non sapesse cos’è un p-value, spieghiamo che Allesina sta riportando l’esito di un test statistico relativo all’ipotesi che il numero di omonimie in ciascun settore sia del tutto casuale. In un mondo ideale in cui le scelte dei figli sono del tutto indipendenti da quelle dei padri, il numero dei cognomi (names per Allesina) è diverso da quello atteso solo a causa di fisiologiche oscillazioni casuali. Il  p-value associato ad un  numero N di cognomi è la probabilità che avrei (in questo mondo ideale) di osservare un numero di cognomi minore o uguale di N. Nella comunità scientifica, si è soliti respingere l’ipotesi di vivere in quel mondo ideale, quando p ≤ 0.05.  Cosa ci sta dicendo Allesina? Ci sta dicendo che per 19 settori su 28 non è in grado di respingere l’ipotesi che le scelte dei figli siano del tutto indipendenti da quelle dei padri. Per 9 settori è invece ragionevolmente sicuro che non siano mondi ideali. Il “much smaller” si riferisce non al valore assoluto del numero N dei nomi, ma al fatto che N sia più piccolo del numero che garantisce p=0.05.

Ricapitoliamo: in 9 settori alcuni figli si lasciano influenzare dalle scelte fatte dai padri e, magari, qualcuno di questi viene anche raccomandato (nemmeno tanti, se diamo fede ad Abramo e Ciriaco). Ma quanti sono questi figli d’arte? Allesina non ce lo dice, ma prende il tutto per la parte e va a contare il totale degli accademici che afferiscono ai 9 macrosettori “non ideali”, specificando che sono il 52,17% del totale degli accademici italiani. Ma tra questi, quanti sono i “figli d’arte”? (bravi o meno che siano) Allesina non ce lo dice. Eppure erano numeri che aveva “a portata di clic”.

Allesina_much_smaller

Stranamente, in tutto il dibattito sulle omonimie, a restare in ombra è stata proprio l’informazione più comprensibile all’uomo della strada, ovvero il numero dei “figli d’arte”.

Con rispetto parlando, dimostrare che 9 settori non sono “mondi ideali” è come scoprire l’acqua calda. In un mondo reale, ci aspettiamo che esistano fenomeni di emulazione delle figure genitoriali, tanto più che stiamo parlando di settori relativamente ampi. La vera questione è misurare quanto questi settori si discostano dal modello (irrealistico) di mondo ideale.

Già che ci siamo, prendiamo totalmente sul serio Allesina e la sua stima del numero atteso di cognomi (Ferlazzo e Sdoia ci perdonino). In ciascun settore (anche quelli che sono risultati indistinguibili da “mondi ideali”) etichettiamo come “sospette di nepotismo” tutte le omonimie in eccesso rispetto a quanto atteso. Anzi, facciamo di più: abbandonando ogni garantismo, bolliamole come vergognosi esempi di nepotismo. Altro che figli d’arte. Per noi sono tutti figli di papà raccomandati che hanno vinto un concorso truccato.

Adesso, facciamo finalmente quello che Allesina si era scordato di fare: verifichiamo quante migliaia di raccomandati ha prodotto la parentopoli accademica.

Allesina_percentage

Ebbene, le ominimie in eccesso sono meno di mille.

Arrotondando all’intero, sono 833 pari all’1,36% di un totale di 61.340 docenti e ricercatori.

Nel settore che stava in cima alla classifica dei p-value di Allesina, Ingegneria Industriale, i casi sospetti sono 68, il 2,15% della popolazione. La percentuale più alta di sospetti si trova in Scienze Giuridiche: 177 casi, pari al 3,44%.

Se la procedura di revisione su PLOS ONE fosse stata più attenta, qualche revisore avrebbe chiesto ad Allesina di correggere il suo testo come segue.

Allesina_revisited

Come si concilia questo con “high probability of nepotism” e “number of names much smaller than expected” di cui scrive Allesina? Consapevolmente o meno, Allesina ha equivocato o, quanto meno, indotto i suoi lettori a equivocare tra significatività statistica e significatività pratica, una differenza che  si insegna nei corsi di base di statistica (“A statistically significant result might not be practically significant” si suole dire). Che in 9 settori, il numero di omonimie non sia meramente casuale è un risultato statisticamente significativo (negli altri 19 settori non lo è nemmeno). Ciò, però, non implica che l’entità dello scostamento sia significativa dal punto di vista pratico.

5. Nepotismo accademico e pensiero magico

Persino un forcaiolo assoluto che, non avendo mai letto il lavoro di Abramo e Ciriaco, volesse equiparare ogni omonimia in eccesso a un episodio di nepotismo, dovrebbe ammettere che l’impatto sul sistema non è lontamanente paragonabile al decremeno di circa 12.500 unità di personale strutturato avvenuto negli ultimi sei anni.

Personale_2008_2016

 

Sono gli stessi numeri di Allesina a mostrare che il nepotismo biologico, per quanto deprecabile e da perseguire senza quartiere, non ha  dimensioni – e quindi impatto – tali da spiegare o giustificare il declino imposto all’università italiana attraverso tagli di finanziamento, riduzione di personale e burocrazia oppressiva, tutti fattori che invece spiegano benissimo il calo degli studenti e la fuga all’estero di ricercatori giovani e meno giovani.

Purtroppo, bufale e luoghi comuni vengono ripetute da anni. Non per nulla, posso concludere riportando quello che avevo scritto poco più di un anno fa nel corso dell’ennesima discussione sul tema:

 

Mi rimane l’impressione che, in un periodo difficile, diventi irresistibile la tentazione di ricorrere a “narrazioni magiche” che danno una spiegazione facile da capire e additano una pozione miracolosa per guarire. I giovani bravi non riescono ad intraprendere la carriera accademica? Per qualche ragione, non si riesce a far passare il messaggio che il reclutamento è quasi congelato da più di un lustro, che il turn-over è strozzato e che il finanziamento ha subito un taglio (-18,7% in termini reali dal 2009 al 2013). Più facile, invece, far passare il messaggio che la colpa è dei baroni che riservano tutti i posti ai loro figli e parenti. È un messaggio facile (ci sono dei “cattivi” ben identificati), addita una soluzione (mandateli a casa, tagliate i loro stipendi, chiudete un po’ di università inutili che servono solo a pagare stipendi ai loro famigliari) e non obbliga a fare ragionamenti più difficili sul ruolo della formazione e sulla necessità di fare investimenti adeguati che entrerebbero in concorrenza con sanità, pensioni, disabilità, etc.. Perchè studiare statistiche OCSE su laureati, spesa per università, statistiche bibliometriche sulla produzione scientifica? Dopo tutto, è sufficiente punire i cattivi e, per magia, tutto si risolverà.

 

 

 

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86 Commenti

  1. A questo punto del dibattito mi sento in dovere di intervenire “politicamente” e non soltanto “scientificamente”. E’ occio che il cosiddetto “nepotismo accademico” ESTSTE, e sarebbe sciocco negarlo. Ma è altrettanto sciocco identificarlo con relazioni di parentela (o affinità o coniugio) con mi nostri legislatori populisti hanno creduto di poter fare.
    La relazione che inficia l’obiettività di ogni selezione accademica è la discendenza accademica, non quella fisica. E il condizionamento non è sempre necessariamente determinato dalla malafede, quanto piuttosto (e per mia esperienza quasi sempre) dalla vanità del docente che nella sua veste di ricercatore ritiene che la propria ricerca sia la cosa più importante da fare al mondo e che pertanto il proprio allievo, occupandosi di quella stessa ricerca, sia per definizione la persona giusta da selezionare, dal momento che altri candidati rischierebbero di occuparsi di qualcos’altro.
    Non esiste nessun meccanismo concorsuale che permetta di prevenire questo fenomeno: in Italia ne abbiamo sperimentati almeno una decina nel corso dell’ultimo secolo, e nessuno ha mai funzionato.
    Io credo che le cose non peggiorerebbero se si passasse alla cooptazione pura (come del resto avviene in molti Paesi non tra i più incivili) temperata da un SERIO meccanismo di penalizzazione di chi ha fatto la selezione qualora dopo un periodo definito di tempo una verifica effettuata da una terza parte (possibilmente con criteri non-ANVUR) dimostri che il selezionato non è stato all’altezza del ruolo attribuitogli.
    La piu’ semplice (ma credo abbastanza efficace) delle punizioni potrebbe consistere nell’interdizione perpetua del selettore da ogni futuro procedimento di cooptazione. E comunque gli effetti negativi dovrebbero ricadere sull’intero Dipartimento che gli ha attribuito quel ruolo, con una sorta di periodica VQR (non-ANVUR) specializzata ai neo-reclutati.
    Il meccanismo può sembrare macchinoso, ma costerebbe meno di quello attuale, metterebbe fuori gioco i TAR (scusate se è poco!) e forse, per selezione naturale, migliorerebbe il livello medio della nostra classe docente.
    Poi non disprezzerei troppo il vincolo che una quota parte, possibilmente importante, dei reclutati debba essere “esterna” all’istituzione reclutante. In altri Paesi funziona, sia dove è una prassi formalizzata (Germania) sia dove è consolidata tradizione (USA).
    Non sto proponendo la panacea, lo so benissimo, ma continuare ad arrovellarci su ipotetici meccanismi “preventivi” che non hanno mai funzionato e mai funzioneranno mi sembra veramente tempo perso

    • Caro Paolo,
      la soluzione ha il suo fascino ma fa anche parecchia paura. Basterebbe pensare ai conflitti mainstream-minoranze in certi settori scientifici. Se stiamo parlando di tagliare una coda, non ci vuole nulla. Se stiamo parlando di fare eccellenze in provetta io ormai mi spavento.
      Ciao
      A.

    • Sanzioni a posteriore ? Ma tanto le cose principali uno le fa quando ha il potere e non deve più risponderne, ovvero sta per andare in Pensione.

    • Semplificare tutto? Che ogni università pubblicizzi posti vacanti e tutti possano concorrere con i propri titoli se soddisfano le richieste di quell’Università?
      La legge Gelmini andrebbe rivista completamente: ha creato malesseri, clientelismo, cordate di potere, esasperato quanto di ingiusto vi era già nel sistema. Chi ha il coraggio di bloccare sistemi che vengono criticati da tutti?

    • Corretta l’analisi, anzi, innanzitutto, la presa d’atto dell’esistenza del problema.
      Quest’ultimo aspetto non è affatto banale. Molte delle cose detta da Cantone e dalla pletora di commentatori non mi piacciono, non le condivido, sono completamente errate e, spesso, in malafede.
      Ma certo, ancor più grave, è la negazione del problema che da più parti si ascolta negli ultimi giorni.
      Negazione che, in molti casi, se non è in malafede anch’essa ha profonde origini culturali, su basi ovviamente completamente errate, come descritto da Paolo Rossi.
      La soluzione è altrettanto corretta. Non vi altra soluzione: la responsabilizzazione (e conseguente penalizzazione) è l’unica possibilità
      Possibilità peraltro di cui si discute da molto tempo e che ancora non si riesce ad affrontare in modo diretto, chiaro e serio: le VQR e le conseguenti applicazioni (a partire dalle quote premiali su FFO) sono delle becere aberrazioni del concetto di responsabilizzazione che colpiscono, oltre che in modo concettualmente sbagliato, indiscriminatamente gli Atenei, penalizzando tutti per non penalizzare i responsabili diretti e veri delle errate scelte di reclutamento.
      La responsabilizzazione è un tema discusso da lunghissimo tempo: possiamo, mentre le varie VQR, ASN, ANVUR, ecc ci distruggono, continuare discutere della validità del principio oppure chiedere una applicazione secondo schemi validi, discuterne, certo, migliorarli, ma con la consapevolezza che la strada indicata da Paolo Rossi è l’unica possibile.

  2. Omnia munda mundis
    oppure
    Omnia immunda immundis?
    Due polli li ho mangiati io,
    oppure
    abbiamo mangiato un pollo a testa?
    Possiamo discuterne per ore … e allora come si fa?
    si raccolgono i dati e li si analizzano con competenza e si raggiunge una conclusione.
    Due polli non sono sufficienti per fare una statistica adeguata; una rondine non fa primavera e un’amante che fa carriera e poi molla l’amato non fa statistica.
    … tuttavia, qui non siamo per discutere scientificamente, e allora quale frase migliore per concludere un discorso da bar, se non una bella frase andreottiana: “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina”… meditate gente, meditate

  3. il laboratorio di un ricercatore non è dissimile dalla bottega di un artigiano o di un artista … immaginate Giotto che prende nella sua bottega Picasso … troppo diverso.
    per esempio sembra che gli affreschi della Basilica inferiore di Assisi furono eseguiti da un allievo ignoto di Giotto da alcuni indicato come il “parente di Giotto”, forse si trattava di un certo Stefano Fiorentino.
    Non aveva lo stesso cognome, ma era un “parente” :-)

    • Tanto è solo per fare confusione e distoglierci dai problemi. Thomson padre e figlio hanno dati contributi fondamentali alla fisica. Le Curie madre e figlia hanno vinto entrambe il Nobel.

  4. Negli SU le “anti-nepotism rules” adottate da quasi tutte le università proibiscono l’assunzione in posizioni accademiche con “tenure” di parenti dei professori. Fino agli anni sessanta la proibizione si estendeva ai coniugi. Negli anni sessanta la AAUW (American Association of University Women) fece rilevare che la regola “anti-nepotism” applicata al coniuge nei fatti danneggiava principalmente le donne. Così quasi tutte le università cessarono di applicare la regola al caso dei coniugi (mi sembra che uno dei primi casi fu quello della matematica Alexandra Ionescu Tulcea assunta da Northwestern University dove insegnava il marito). Ci sono buone ragioni anche in Italia per escludere i coniugi dalla regola “antinepotismo”, come in effetti dispone la legge. Ad esempio mentre un figlio o un nipote può cercare lavoro in una città diversa dal padre o zio, questo è più difficile per il coniuge.
    Io penso invece che sia comunque una buona idea che il figlio di un professore vada a studiare in un’università dove non insegnano i suoi genitori, almeno per gli studi che conducono al dottorato. Cercherei anche di incentivare la mobilità dei dottorandi, prevedendo borse di studio (per il dottorato o posizioni post-doc) riservate a chi non si è laureato o addottorato nella stessa università.

    • Secondo me quell’articolo della 240 è incostituzionale. Discrimina i cittadini che non possono accedere ad un concorso. Esiste ancora perchè nessuno si è preso la briga di ricorrere alla Corte Costituzionale. Ma perchè se io nasco a Perugia e in tutta la regione c’è un solo dipartimento di fisica devo vivere fuori dalla mia regione perchè mio cugino è un matematico lì dentro? Fra l’altro è l’articolo più aggirabile dell’universo. Basta fare gli “scambisti” fra colleghi, come quelli di cui sopra; o far entrare amici, amiche, figli di amici e figle di amiche, amiche e amici particolari ecc. Ma comunque, stiamo sempre a parlare di niente. Nella mia Università del Sud, nelle cui università, secondo Allesina, si aggirano le famigle malavitose, perliamo dello zero virgola qualcosa in percentuale. Poi alcuni di questi sono pure bravi. Quello che mettono in pratica Allesina, braccesi, e tutti gli altri che lamentano favoritismi può essere definito uno “spostamento”: si concentra l’attenzione su ciò che è più socialmente accettato, cioè non far passare i parenti. In realtà sanno bene che per gran parte delle volte si tratta di allievi e a questo punto la cosa si fa più complessa. Anche in queste pagine le posizioni sono ambivalenti. Ma se loro si concentrassero solo sugli allievi non otterrebbero lo stesso effetto (Cantone, Corriere, ecc.).

    • «Basta fare gli “scambisti” fra colleghi». Andiamoci piano con le metafore: visti i livelli medi di comprensione testuale e la passione per le storie pruriginose, qui parte un’altra grandinata di articoli sulle perversioni degli universitari, “venute a galla nel blog Roars, specializzato nelle questioni accademiche e solitamente ben informato”. Poi salta fuori qualche collega che si inventa un “proxy” dello scambismo tra accademici e dimostra che, con p-level < 0.001, la percentuale di coppie scambiste tra accademici è dell'1.36% maggiore di quella che si avrebbe con permutazioni casuali dei nomi scaricati dal Cerca Università del MIUR. Non oso pensare ai titoli su Corriere e Repubblica.

  5. A mio parere, la differenza tra significativita’ statistica e pratica non e’ usata in modo corretto nell’articolo di De Nicolao.

    Assumiamo che la percentuale di omonimie eccedenti sia l’1%. Sappiamo dall’analisi di Allesina che questo 1% e’ statisticamente significativo (cioe’ non e’ significativamente piu’ grande delle fluttuazioni che ci aspetteremmo casualmente).

    La domanda e’ quindi se l’1% e’ praticamente significativo. La risposta a questa domanda e’ dipendente dal contesto e come tale e’ oggetto della discussione politica e non statistica. Se l’1% dei fisici non sapesse fare un integrale, sarebbe praticamente significativo? Forse no. Se l’1% dei medici avesse comprato il titolo e non avesse le qualifiche per esercitare la professione, sarebbe praticamente significativo? Forse si. Se l’1% degli abitanti fossero pericolosi terroristi, sarebbe praticamente significativo?

    Se l’1% di omonimie e’ praticamente significativo, dipende da quanto percepiamo il fenomeno come grave. Il 50% sarebbe grave? il 25%? Il 5%?

    Credo che l’oggetto della discussione dovrebbe essere l’esistenza di differenze tra settori e universita’. Perche’ ci sono meno omonimie a fisica che a medicina? Perche’ in alcune universita’ ci sono livelli di omonimie molto piu’ alte (per esempio la “frequency of
    share-name pairs” di Catania e’ il doppio di quella di Palermo o quella di Modena e’ il doppio di quella di Bologna, confrontando universita’ pubbliche della stessa regione)?

    • Se l’1% di omonimie e’ praticamente significativo, dipende da quanto percepiamo il fenomeno come grave
      _____________________
      Appunto. Questo 1,36% comprende anche casi di figli d’arte bravi come e più dei padri. Le analisi bibliometriche di Abramo e Ciriaco, citate nel testo, ci dicono che le performance di questi figli d’arte non sono peggiori di quelle dei colleghi e che al Centro sono persino migliori. Fenomeno piccolo in valore assoluto e per di più non associato a performance mediamente peggiori. Non arrampichiamoci sugli specchi, prego.
      Apprezzo comunque il generoso tentativo di difendere il proprio capolaboratorio.

    • Mi permetto di intervenire in questa discussione. A mio parere è necessario mantenere distinti livelli, indicatori, e costrutti. L’osservazione di De Nicolao era che se pure tutto l’eccesso di omonimie in alcuni settori fosse spiegato da fenomeni di nepotismo, l’eccesso (1.89% secondo Allesina) di omonimie sarebbe a fini pratici poco rilevante. Ovviamente si tratta di un’opinione basata su un ragionamento per assurdo (tutto l’eccesso di omonimie è dovuto al nepotismo) all’interno di una argomentazione. Discutere però su quanto dovrebbe grande il fenomeno del nepotismo per avere rilevanza pratica, o argomentare che quell’1.89% sia una sottostima perché non comprende relazioni familiari diverse da quelle padre/figli o fratelli, implica uscire dal ragionamento per assurdo e accettare per vero che l’eccesso di omonime sia dovuto al nepotismo. Non ci sono evidenze empiriche che questa associazione esista, dal momento che nel Regno Unito il quadro delle omonimie nell’accademia è lo stesso che in Italia (assumendo naturalmente che nell’accademia britannica il nepotismo sia trascurabile). Dal momento che possiamo solo parlare di omonimie e non di nepotismo, ha poco senso chiedersi sul serio se il fenomeno dell’eccesso di omonimie sia rilevante dal punto di vista pratico oppure no (per definizione non avrebbe una rilevanza pratica, dal momento che si tratta solo della distribuzione dei cognomi, neanche se fosse del 50%). Identicamente, discutere se si tratti di una sottostima oppure no implica assumere che l’eccesso di cognomi sia dovuto al nepotismo, cosa però non dimostrata. Ad esempio, se solo lo 0.5% fosse dovuto al nepotismo “paterno” allora l’1.89% sarebbe una sovrastima, non una sottostima. Questo semplicemente non lo sappiamo.
      In effetti la stima sulla diffusione del nepotismo basata sulla distribuzione dei cognomi è un ottimo esempio di confirmation bias (ho una mia ipotesi, trovo dei dati empirici coerenti con quell’ipotesi, evito di testare ipotesi alternative e concludo che la mia ipotesi è vera: fallacia del ragionamento induttivo), e se si vuole di verificazionismo (e in realtà uso davvero l’articolo di Allesina nei miei corsi come esempio di entrambi). Il fatto che errori logico/metodologici di questo genere siano abbastanza diffusi anche nella letteratura scientifica è uno dei problemi della ricerca scientifica più interessanti, a mio parere.

    • Almeno come fenomeno sociologico, non e’ interessante che universita’ nella stessa regione abbiano livelli molto diversi di omonimi? E che la stessa cosa valga per settori molto diversi?

      “Le analisi bibliometriche di Abramo e Ciriaco, citate nel testo, ci dicono che le performance di questi figli d’arte non sono peggiori di quelle dei colleghi e che al Centro sono persino migliori.”

      Dicono anche che dipende dai settori.
      http://link.springer.com/article/10.1007/s11192-014-1273-z
      Ed e’ interessante che in alcuni settori (e.g. fisica o earth sciences) la performance dei figli sia minore di quella dei non figli (per esempio, numero di professori senza pubblicazione).

      “Questo 1,36% comprende anche casi di figli d’arte bravi come e più dei padri.”
      Ma non comprende figli della madre, cugini, nipoti, etc etc

      “Apprezzo comunque il generoso tentativo di difendere il proprio capolaboratorio”
      Almeno non e’ mio padre :)

      Considerazione personale. Credo che sia molto stupido usare l’articolo di Allesina per giustificare tagli alla risorsa o un certo atteggiamento culturale nei confronti della ricerca. E credo che su questo siamo d’accordo.
      La cosa che a me pare piu’ interessante, anche se attesa, e’ che emergono differenze tra settori e tra universita’. Queste differenze hanno un significato (quale e’ una domanda da porsi) e non sono una conseguenza della mancanza di risorse (e, come detto sopra, non la giustificano).
      Quindi, perche’ esistono queste differenze (tra universita’, tra settori)? Da cosa sono dovute?

    • Ma di nuovo, anche per le differenze, bisogna porsi la questione della “practical significance”. E se un fenomeno è di per sé labile, andarne a studiare i fattori che lo influenzano non è che abbia molta più “practical significance”. Sono cose ben chiare a chi fa ricerca biofarmacologica (seria). Un po’ meno in campo economico, se devo giudicare da quello che leggo in giro. Che i figli seguano più facilmente le orme dei padri nelle aree accademiche legate alla professione (medici, avvocati, ingegneri) non sorprende nessuno, anche senza esperimenti Montecarlo. Ma anche se ci limitiamo ai 9 settori “statisticamente significativi”, la percentuale di omonimie in eccesso rimane il 2,3%.
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      jg: “Credo che sia molto stupido usare l’articolo di Allesina per giustificare tagli alla risorsa o un certo atteggiamento culturale nei confronti della ricerca.”
      ____________________
      Attenzione a non dare dello stupido al proprio capo-laboratorio che già nell’abstract scrive:
      ____________________
      “Using these techniques policy makers can target cuts and funding in order to promote fair practices.”

    • E’ giustissima l’osservazione di Ferlazzo, cioè che non è dimostrato che le ominimie in eccesso siano casi di nepotismo e che quindi quell’1,89% e che quindi dichiarare che sia una sottostima non è possibile.
      Al limite è possibile, appunto, ragionare “per assurdo”, o anche dire che *nel caso fosse vero* (assurdo perché si tratterebbe di una coincidenza con probabilità bassissima), *al massimo* il fenomeno sarebbe di quella entità. Quindi, anche *nel caso peggiore* ci troveremmo comunque davanti a un fenomeno che non ha la rilevanza che si vuol far credere.
      Sempre ragionando *nella peggiore delle ipotesi*, se aggiungiamo 1/3 dovuto alle madri (via le amanti e sulle mogli sospendiamo il giudizio), il fenomeno resta poco rilevante. Se le madri sono mogli poi, i figli sono in comune ad esempio (oltre che assurda sarebbe ancora una sovrastima).
      .
      Sulle differenze statistiche riguardanti le omonimie (di questo si può parlare con sicurezza, non di accertati casi di nepotismo), occorre naturalmente valutare in quale modo si discostino dalle normali oscillazioni statistiche di un fenomeno del genere. Banale esempio: certi cognomi sono più diffusi in determinate regioni e in maniera più rilevante numericamente, piuttosto che in altre.

    • … io porto lo stesso cognome di un famosissimo cattedratico, ma non sono parente ed ho fatto carriera a sua insaputa :-)
      tutti pensavano fossi parente e mi trattavano con “rispetto” … quindi le omonimie sono sempre deleterie ;-)

    • :-) :-)
      Io invece sono figlia d’arte, quindi avevo un’omonimia nepotistica, anzi avrei avuto. Mio padre era stimato prof universitario di fisica, ma si è ammalato ed è morto quando ho finito il primo anno di università.
      Era un uomo tutto di un pezzo e di esami di fisica ne ho fatti due, uno con lui e uno con il mio prof ufficiale di fisica. Indovinare quale fu il più tosto :-)
      Siccome ho studiato nella stessa università, ottima e vicino a casa, ricordo che un compagno di corso mi disse: “Tu ti saresti dovuta iscrivere in un’altra università”. Non risposi, non era neanche antipatico (anche se quella non fu una battuta), siamo diventati amici. Poi mi sono laureata col massimo dei voti in tutte le materie e più della metà di lodi, mentre lui al terzo anno ha mollato. Avrei potuto dirgli: “Tu non ti saresti dovuto iscrivere per niente” :-)
      Ovviamente non l’ho fatto. In fin dei conti un vantaggio l’avevo, è vero, e cioè l’aria che respiravo dentro casa.
      Purtroppo non posso aumentare le percentuali delle omonimie significative e me ne dolgo. In fin dei conti, già all’epoca mi importava poco delle dicerie e invecchiando ancora meno.

    • @Lilla, per aumentare le percentuali delle omonimie significative avresti dovuto essere un uomo (adesso la lergge è cambiata .. forse) e a quel punto saresti stata meno simpatica … almeno a me :-)

  6. Anche Marco Bella (Professore a Roma Sapienza) interviene sulla questione della “practical significance”. Anche se Bella ha la cortesia di citare Roars, è giusto riconoscere che aveva individuato la falla dell’articolo di Allesina in modo indipendente e simultaneo rispetto a me. Dopo aver scoperto che lavoravamo sullo stesso argomento, avevamo concordato una pubblicazione simultanea, ma per motivi editoriali il FQ ha ritardato di qualche giorno la pubblicazione del post di Bella.
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    “Allesina riscontra che in ben 9 settori, (rappresentanti la maggioranza numerica dei docenti, 32.000) il p-value è inferiore al 5%, indice che ci sono “troppi” cognomi identici. Ad esempio, a Legge ci sono 5144 docenti con 4031 cognomi diversi (omonimie effettive), mentre in un simile campione casuale le omonimie accettabili dovrebbero essere massimo 4207 (p-value <0.1%), con circa 176 (4207-4031) “casi sospetti”. In questi 9 settori sarebbe quindi dimostrato il nepotismo accademico. In realtà, i dati provano invece che è un fenomeno limitato. Se sommiamo tutti i “possibili nepoti” ne otteniamo 738, che su 32.000 docenti rappresentano un misero 2.3% del totale.”
    http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/27/universita-la-causa-della-fuga-dei-cervelli-sono-i-tagli-non-il-nepotismo/3058284/
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  7. Fino a pochi giorni fa, l’articolo di S. Allesina su PLOS ONE era considerato la prova scientifica del nepotismo accademico italiano. Sulla scia del debunking di Roars e di Marco Bella, che hanno mostrato come fossero gli stessi numeri dell’articolo a dire il contrario, il rettore dell’Università Sapienza di Roma, Eugenio Gaudio, si prende il lusso di citare proprio i dati di Allesina a riprova del ridotto peso % dei casi di potenziale nepotismo: «per quanto riguarda il nepotismo, uno studio dell’università di Chicago dice che negli atenei italiani i casi di nepotismo rappresentano il 2,3% del totale, al massimo il 5%, una percentuale bassa rispetto a tutti gli altri settori»

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    Integazione dell’1 ottobre 2016: È interessante notare che il Rettore della Sapienza cita fedelmente le percentuali (2,3% e 5%) riportate sul Fatto Quotidiano dal suo collega Marco Bella:
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    “In questi 9 settori sarebbe quindi dimostrato il nepotismo accademico. In realtà, i dati provano invece che è un fenomeno limitato. Se sommiamo tutti i “possibili nepoti” ne otteniamo 738, che su 32.000 docenti rappresentano un misero 2.3% del totale. Volendo includere anche coniugi e amanti (che non hanno lo stesso cognome) a quanto si potrebbe arrivare? Forse al 5%? La conclusione è che il nepotismo accademico è un fenomeno marginale nell’accademia italiana.”
    http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/27/universita-la-causa-della-fuga-dei-cervelli-sono-i-tagli-non-il-nepotismo/3058284/
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    La percentuale (2,3%) è più alta dell’1,36% globale riportato nel mio post, perché Bella sta al gioco di Allesina e prova a vedere cosa succede se si considerano solo i nove settori che, in base al p-value, sarebbero certificati come “nepotisti”. Mostrando che, anche in quel caso, si tratta di un “misero 2.3% del totale”.

  8. Per quel poco che può valere il mio pensiero, grazie Nicolao meravigliao, la riforma costituzionale dice il corriere si può fare perchè non ci sono più pericoli di autoritarismo, sono degli idioti..i pregiudizi sono oggi egemoni: la casta, la corruzione, parentopoli universitaria etc. etc.. L’unica protagonista di autentico pluralismo Unipubblica, è sotto la tenda ad ossigeno e stanno riducendo il flusso. La cultura del sospetto è quella che Cantone dice di osteggiare, ma la sta aumentando. Nelle Università veniamo controllati, verificati, vessati in continuazione dagli apparati..Che senso ha che un ricercatore vada a congressi se poi deve perdere il sonno per le pezze giustificative, o per il costume di rimborsarlo almeno dopo 9 mesi (giuro 9 mesi).. Lo sfacelo della democrazia (con una stampa 70° al mondo per libertà) ha una doppia faccia, terribile, in Italia: l’incredibile autorevolezza della banda Bocconi, e la mitologia scientista attribuita alla medicina: Sulla prima non mi dilungo (la penso come Silos Labini). Sulla seconda sono sconcertato da nascere di un nuove pensiero religioso: vedasi l’ostrecismo nei confronti del film sugli effetti dei vaccini. Dall’oscurantismo cattolico a quello medico scientista…mamma li turki..
    Un ringraziamento anche al grandissimo Casagli acuto e ironico “moralista” del 3° millennio. Evviva roars

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      Sulla seconda sono sconcertato da nascere di un nuove pensiero religioso: vedasi l’ostrecismo nei confronti del film sugli effetti dei vaccini. Dall’oscurantismo cattolico a quello medico scientista…mamma li turki..
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      Ma stiamo scherzando davvero? Il regista del “documentario” è uno che si è inventato di sana pianta la presunta correlazione “autismo-vaccino trivalente”, con uno studio falso pubblicato su Lancet. Guarda caso, il signore in questione aveva appenda brevettato i tre vaccini singoli, che a suo dire non avrebbero dovuto dare problemi. A causa di queste fandonie, la copertura vaccinale in UK è calata drasticamente, e una malattia come il morbillo è tornata a provocare vittime, perché è bene ricordarlo che può causare delle gravi encefalopatie e in un caso su 2000 è mortale.

      Le balle raccontate dagli antivax, per scrivere qualche libro, per raccogliere un po’ di soldi durante le “conferenze” e offrire “consulenze” da parte di medici conniventi a centinaia di euro, hanno causato diverse morti.

      Il “documentario” che sarebbe meglio chiamare “marketing sanitario sulla pelle delle famiglie in difficoltà”, se uno ha davvero voglia se lo può guardare su youtube a casa propria, non in una sede istituzionale come il Senato.

      Ci sono le solite balle antivax: CDC che sta coprendo tutto, la presunta epidemia di autismo, il complottismo, genitori disperati ai quali viene fatto dire di tutto, etc etc.

  9. Il nepotismo/familismo in Italia e’ un problema antico e diffuso, l’Universita’ ne e’ interessata come tutto il resto. Mi pare anche che la semplice osservazione fatta dal Prof. Figa’-Talamanca sia molto pertinente (anche se e’ poi impossibile stratificare l’analisi per bravi e pessimi). Piuttosto, qualcuno dovrebbe fare lo stesso esercizio per il giornalismo, stampato e televisivo, dove a occhio direi ci sarebbe di che riflettere. Curioso, forse statisticamente significativo, sui giornali non leggo mai niente in questo senso.

  10. Le bufale hanno le gambe lunghe
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    Caro Severgnini, l’università italiana è strangolata dal nepotismo e dalla conseguente mediocrità di molti dipartimenti. Mogli, figli e parenti occupano posti pubblici come se fossero loro, in barba a tutte le chiacchiere su meritocrazia e trasparenza, ribadendo se ce ne fosse ancora bisogno che la pratica dei concorsi è la beffa che permette a chi può di fare quello che vuole, senza assumersi responsabilità. In questi giorni leggo diversi articoli sull’argomento. Ma veramente non lo sapevamo prima?
    Tommaso Fochi , tommaso.f@tin.it
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    http://italians.corriere.it/2016/10/10/luniversita-italiana-strangolata-dal-nepotismo/

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