Il primo settembre 2021, il giudice Damiana Colla della diciottesima sezione del Tribunale civile di Roma ha depositato la sentenza che stabilisce una verità processuale sulla vicenda della tesi di dottorato della ex Ministro Marianna Madia.
Come molti ricorderanno, la vicenda era nata da un’articolata inchiesta condotta con più articoli da Laura Margottini sulle colonne del Fatto Quotidiano fra il marzo 2017 e il febbraio 2018, nella quale si indagava la possibilità che la Ministra, impegnata ad ultimare il suo dottorato in economia del lavoro presso la l’IMT di Lucca nel 2008, avesse plagiato ampi brani della sua tesi di dottorato, mentre veniva candidata alla Camera dei Deputati da Walter Veltroni, quale capolista del PD in un collegio romano, per poi risultare eletta.
La notizia aveva aperto un acceso dibattito nella comunità scientifica, anche sugli schermi di ROARS, presto estesosi anche in ambito internazionale, sull’onda del clamore provocato da casi simili, che in Germania (ma non in Italia) hanno indotto gli esponenti politici coinvolti a rassegnare le dimissioni (dall’ormai enciclopedico caso Guttenberg, al più recente caso Giffey), senza attendere pronunciamenti giudiziali.
La sentenza riveste indubbi motivi di interesse sul piano giuridico, perché conferma un orientamento giurisprudenziale che negli anni ha contribuito a definire un particolare status per il c.d. giornalismo d’inchiesta, nel quadro del contemperamento fra libertà di stampa e diritti della personalità delle persone che si assumono lese dall’esercizio del diritto di cronaca e di critica che di quella libertà sono espressione costituzionale.
Esemplare, sotto questo profilo, l’inquadramento del problema che la sentenza antepone all’analisi dei fatti di causa:
La diffamazione non può essere fonte di risarcimento dei danni quando il giornalista eserciti legittimamente i diritti di cronaca e di critica giornalistica, entrambi espressione della libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione. Presupposti per il legittimo esercizio del diritto di cronaca sono, come è noto, l’interesse del pubblico alla conoscenza delle notizie diffuse, la correttezza dell’esposizione dei fatti – in ciò propriamente si sostanzia la cd. continenza (formale) –, e infine la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l’oggettiva verità del racconto. Va ribadito che quest’ultimo requisito tollera le inesattezze (anche di carattere tecnico) o le incompletezze che possono ritenersi irrilevanti se riferite a particolari di non decisivo rilievo e privi di valore informativo, a condizione che quindi venga rispettata la verità della notizia nel suo nucleo essenziale.
I medesimi canoni valgono inoltre quando, come nella fattispecie, alla cronaca si aggiungano valutazioni critiche dei fatti stessi eventualmente lesive della reputazione altrui, nel senso che il giudizio critico per rimanere nei limiti della liceità deve trarre spunto dalla realtà oggettiva e quindi da fatti realmente accaduti.
E’ pur vero che, nell’esercizio del diritto di critica è necessario il rispetto del nucleo essenziale di verità del fatto relativamente al quale la critica è svolta (ed in mancanza del quale la critica sarebbe pura congettura e possibile occasione di dileggio e di mistificazione), ma è innegabile altresì che in tal caso l’onere del rispetto della verità sia più attenuato rispetto all’ipotesi di mera cronaca giornalistica, atteso che “la critica esprime un giudizio di valore che, in quanto tale, non può pretendersi rigorosamente obiettivo” (Cass. Pen., n. 43403 del 18.6.2009).
La critica è infatti, per sé stessa, espressione di un’opinione, che come tale non può essere rigorosamente obiettiva e che comunque non ha nulla a che vedere col diritto di cronaca. La critica non può che essere soggettiva e quindi non può che corrispondere al punto di vista di chi la manifesta. Infatti, “Il diritto di critica non è soggetto a un giudizio di verità per l’opinabilità intrinseca ad ogni giudizio individuale, che esprime convincimenti, valori, credenze necessariamente differenti tra individui nei vari gruppi sociali” (Cass. pen., sez. V., 8 maggio 1998, n. 6584).
Tipica espressione del diritto di critica è il giornalismo di inchiesta, il quale, frequentemente, espone in maniera critica quanto appreso, conosciuto e scoperto direttamente dal giornalista nella sua attività di indagine e di ricerca della notizia svolta in maniera autonoma ed indipendente.
Invero, secondo la giurisprudenza di legittimità, al “giornalismo d’inchiesta”, recentemente considerato “quale species più rilevante della attività di informazione, connotata (come riconosciuto anche dalla Corte di Strasburgo) dalla ricerca ed acquisizione autonoma, diretta ed attiva, della notizia da parte del professionista”, deve essere “riconosciuta ampia tutela ordinamentale, tale da comportare, in relazione ai limiti regolatori dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica già individuati dalla giurisprudenza di legittimità, una meno rigorosa, e comunque diversa, applicazione della condizione di attendibilità della fonte della notizia; venendo meno, in tal caso, l’esigenza di valutare la veridicità della provenienza della notizia, che non è mediata dalla ricezione “passiva” di informazioni esterne, ma ricercata, appunto, direttamente dal giornalista, il quale, nell’attingerla, deve ispirarsi ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale, quali, tra l’altro, menzionati nella legge 3 febbraio 1963 n. 69 e nella Carta dei doveri del giornalista” (Cass. civ., n. 16236 del 9.7.2010).
Ancora, in relazione al giornalismo di inchiesta, la recente pronuncia della Cassazione penale n. 9337 del 27.2.2013, ha condivisibilmente affermato, in motivazione, che “il giornalismo di denuncia … è tutelato dal principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando indichi motivatamente e argomentatamente un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi normativi per potere essere chiarite … In tale evenienza, escluso il caso in cui il sospetto sia obiettivamente del tutto assurdo, … sempre che sussista anche il requisito dell’interesse pubblico all’oggetto della indagine giornalistica, l’operato dell’autore è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto all’interesse dell’operatore economico su cui il sospetto è destinato eventualmente a ricadere: e ciò perché il risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista, costituito dal diritto della collettività ad essere informata non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla libertà, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto: operativo, evidentemente, alla condizione che, come anticipato, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti”.
Precisa altresì la suprema corte nella sentenza da ultimo richiamata che il sospetto di illeciti (e la sua denuncia, oggetto primario del giornalismo di inchiesta), purché non sia meramente congetturale o calunniatorio, mantiene il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti “essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”.
Sulla base di queste premesse la sentenza ha statuito – con riferimento alla vicenda oggetto della inchiesta giornalistica pubblicata dal Fatto Quotidiano – che:
i quattro articoli del periodo marzo/aprile 2017 in contestazione, i cui contenuti asseritamente lesivi sono riportati nell’atto introduttivo, configurano la sussistenza, ad avviso del decidente, di tutte le condizioni citate per il pieno e legittimo esercizio da parte dei giornalisti del diritto di inchiesta, cronaca e critica, tutelati dall’art. 21 della Costituzione e posti a fondamento della libertà di stampa.
Nello specifico il giudice ha accertato essere espressione di un legittimo esercizio del giornalismo di inchiesta
il primo articolo del 28.3.2017 (dal titolo “Madia, dottorato con 4 mila parole copiate nella tesi”) espressamente presentato e qualificato dallo stesso quotidiano quale “L’inchiesta. Interi blocchi con il <<copia e incolla>>”, laddove nel corpo del brano si dà ampiamente e specificamente conto delle modalità con le quali sono state svolte le indagini e raggiunti i risultati pubblicati, ivi compresi i software utilizzati per gli accertamenti effettuati sul testo della tesi di laurea pubblicata sul sito della Scuola IMT di Alti Studi di Lucca (PlagScan ed iThenticate, i cui dati finali sono stati incrociati per maggiore accuratezza dell’indagine), nonché la tipologia di frasi escluse dal conteggio.
Risulta inoltre dal brano da ultimo menzionato che “In 35 di 94 pagine della tesi (al netto di bibliografia, figure e tabelle) … ci sono passaggi pressoché identici a quelli presenti in altre pubblicazioni. La fonte di quei passaggi non risulta citata … risultano essere circa 4 mila le parole senza chiara attribuzione nei tre capitoli della tesi … passaggi anche di centinaia di parole risultano identici ad altri già apparsi in pubblicazioni scientifiche …In tre sottocapitoli della tesi del ministro, la quantità di passaggi che risultano originariamente presenti in articoli di altri autori non citati dove appaiono nella tesi è rispettivamente del 40%, del 56% e del 79%. E in sette pagine su 95 si va dal 56% all’89% di testo identico a quello di altri autori, senza virgolette né attribuzione della fonte … in una serie di frasi riprese verbatim (senza fonti né virgolette) vengono cambiate solo alcune parole … Le pubblicazioni da cui sono ripresi i passaggi senza attribuzione tra parentesi e senza virgolette sono elencate nella bibliografia della tesi. Ma non sono citate nel punto esatto in cui vi si attinge”.
(…) a fronte di tali dati, il brano menziona analiticamente anche parte delle pubblicazioni e degli scritti riportati senza virgolette e senza citazione nel corpo della tesi, oltre al parere estremamente critico di un esperto indipendente relativamente ai dati emersi dall’utilizzo dei menzionati software (Gerhard Dannemann, direttore del Centro di studi britannici a Berlino).
La giornalista convenuta, dopo aver utilizzato i programmi per il rilievo dei plagi e delle copiature, si è infatti premurata di acquisire il parere di un esperto in materia di plagio nel settore accademico (Gerhard Dannemann, componente del VroniPlag, “il gruppo di accademici che ha analizzato le tesi di dottorato di decine di politici e professori tedeschi”), il cui scambio di e-mail è allegato in atti ed il cui parere è riportato nel brano in esame del 28.3.17.
La documentazione prodotta da parte convenuta – sulla quale grava l’onere della prova – conferma, dunque, il fondamento dell’indagine e la sua finalità di ingenerare il sospetto di illeciti, il quale non risulta meramente congetturale o calunniatorio, quanto piuttosto nella fattispecie munito di carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, per come rilevato dalla sopra citata giurisprudenza di legittimità che si condivide.
per concludere che
Lo studio effettuato dalla giornalista sulla tesi di laurea della Madia risulta accurato e la notizia resa con approfondimento e precisione.
Per il tribunale di Roma
il brano in questione solleva un dubbio, un sospetto, raggiungendo pienamente la sua finalità, tanto che dalla denuncia in esso contenuta – parlamentare della Repubblica e ministro che consegue laurea di dottorato presso un’istituzione accademica pubblica grazie a tesi di laurea parzialmente copiata – sono scaturiti accertamenti e verifiche circa la genuinità della tesi in questione.
In seguito la sentenza passa ad esaminare gli sviluppi istituzionali conosciuti dalla vicenda del plagio Madia, che ROARS a suo tempo non aveva mancato di seguire, dando conto delle mosse adottate dell’IMT di Lucca. La Scuola di Alti Studi, dopo l’imbarazzo iniziale, per fare chiarezza sull’accaduto affidò una ricca consulenza ad una s.r.l. che annoverava Enrico Bucci quale amministratore unico, per svolgere un’analisi sul sospetto plagio, nominando contestualmente anche una commissione composta dai tre saggi Francesco Donato Busnelli, Massimo Egidi e Giovanni Maria Flick chiamati a valutare l’accaduto.
Va ricordato che la commissione, sulla scorta della consulenza redatta da Enrico Bucci, aveva assolto da ogni addebito l’operato della Madia, ritenendo che “in questo contesto, risulta quindi difficile immaginare come una studentessa di dottorato in un’area ove è evidentemente così diffusa la pratica di prendere a prestito lunghi paragrafi da testi precedenti potesse agire diversamente da quanto riscontrato, utilizzando per sua scelta uno standard diverso da quello dei migliori accademici del campo”. Si avallava così l’idea che – tutto sommato – per gli economisti copiare sia uno standard scientificamente tollerato (conclusione, questa, che aveva suscitato un acceso dibattito pubblico, interessato da una breve vicenda giudiziaria conclusasi con l’archiviazione della querela promossa da Enrico Bucci contro Francesco Sylos Labini).
E così, prosegue la sentenza:
La stessa scuola IMT Alti Studi di Lucca, per come risulta dalla documentazione allegata dalla stessa attrice, ha infatti avviato un lungo percorso di verifica al quale hanno preso parte una commissione appositamente formata all’interno della facoltà, un “comitato dei saggi” nominato dal rettore ed una consulenza elaborata dal dott. Bucci (Resis srl), interamente richiamata e condivisa dal predetto comitato nei suoi risultati.
Proprio quest’ultima consulenza, del resto, pur giungendo [ai fini della procedura interna promossa da IMT, n.d.r.] a conclusioni favorevoli all’attrice nell’ambito di una valutazione del suo lavoro come “prassi accettata” e standard nell’area accademica di riferimento e dei lavori di econometria (con un complessivo giudizio di adeguatezza della procedura di valutazione della tesi da parte di IMT rispetto al contesto storico di riferimento, a fronte dell’esistenza di un “nucleo di lavoro sperimentale originale”, nonché di “misure nuove e indipendenti”, riportando “dati numerici nuovi ed elaborazione statistica non precedentemente descritti”), ha confermato l’esistenza di “un grado piuttosto elevato di testo conservato tra la tesi in esame e diversi documenti esterni”, nonché di “interi testi presi <<verbatim>> da altri”; analogamente, il consulente ha confermato il mancato utilizzo delle virgolette per brani tratti da altri lavori scientifici e l’assenza di citazione della fonte utilizzata, talvolta non presente nemmeno in bibliografia, con la conseguente scorretta citazione di testi; ancora, il consulente fa riferimento a “continui riutilizzi di brani di testo con citazioni assenti o distanti dal pezzo ripreso”, spesso “in posizione non appropriata”.
Per la sentenza, la riconducibilità dell’inchiesta di Laura Margottini a un serio ed accurato esercizio del giornalismo d’inchiesta viene confermata anche con riferimento ad altri successivi articoli che di quella inchiesta furono espressione.
Relativamente al brano del 30.3.17 ed alle doglianze specificamente menzionate nell’atto di citazione, si osserva che esso è riferito ad asserite copiature di frasi altrui in pubblicazioni scientifiche della Madia diverse dalla tesi di laurea, con particolare riferimento a quelle effettuate con la “amica ricercatrice” nel 2013 (ndr, Caterina Giannetti), la stessa che risulta autrice del file in formato pdf del lavoro di dottorato dell’attrice.
Ferme le medesime considerazioni valide per il brano precedente circa il giornalismo di inchiesta, risulta dalla documentazione allegata che per gli accertamenti relativi alla pubblicazione nel 2013 dell’articolo sul Cambridge Journal of Economics a firma congiunta con l’amica ricercatrice è stato utilizzato il medesimo sistema informatico e che i relativi risultati sono stati sottoposti al parere di altro esperto indipendente (prof. Ben Martin, “direttore di Research Policy, rivista di riferimento internazionale per l’integrità della ricerca e gli standard accademici in materia di plagio”), anch’esso riportato nell’articolo del 30.3.17, il quale li ha valutati in maniera estremamente negativa affermando “Non avrei mai pubblicato i tre capitoli del suo lavoro sulla mia rivista, Research Policy, per la quantità di plagi che contengono” (auspicando peraltro l’immediata apertura di indagine sul caso da parte dell’istituto), plagi peraltro analiticamente indicati nel brano in contestazione, in termini di fonti utilizzate senza esplicitare le citazioni.
Lamenta inoltre l’attrice che il brano faccia riferimento all’avvenuta creazione del file pdf sul quale risulta elaborato il lavoro di dottorato da parte della medesima collega di studi sopra menzionata.
Anche tale notizia deve essere letta nella medesima prospettiva, ossia quella della più generale inchiesta nella quale è inserita, posto che la circostanza è documentalmente provata da quanto depositato dai convenuti (doc. 40, seconda memoria ex art. 183 cpc), pur se di per sé appare certamente neutra, ma tuttavia idonea ad ingenerare il sospetto che una qualche ingerenza della collega Giannetti vi sia stata nella predisposizione dell’elaborato, nella più ampia prospettiva nella quale è inserita l’intera vicenda oggetto della campagna-stampa, anche alla luce di quanto di seguito evidenziato circa l’esperimento condotto con la collaborazione della medesima collega presso l’università di Tilburg, di cui agli articoli successivi.
La sentenza non omette di analizzare un altro segmento dell’inchiesta del Fatto Quotidiano, relativo al dubbio che la Madia avesse realmente svolto presso l’Università di Tilburg l’esperimento che identificava il cuore della sua tesi, laddove l’inchiesta aveva svolto
affermazioni relative all’esperimento contenuto nella tesi e che ne costituisce il nucleo originale ed essenziale, nella parte in cui anch’esso sarebbe “copiato”, non sarebbe indicato che il modello di analisi della flessibilità del lavoro è mutuato da lavori altrui e comunque l’attrice non si sarebbe recata presso l’università olandese di Tilburg per il suo svolgimento.
Sul punto viene osservato:
Il brano espone in particolare la terza parte della tesi di dottorato dell’attrice, ossia quella contenente un esperimento su persone reali consistente nell’indagare “il legame tra flessibilità nei contratti e disoccupazione”, ritenuto dai giornalisti molto simile ad altro pubblicato nel 2008 da tre studiosi indicati nel brano, con solo “piccole variazioni” apportate dall’attrice ed utilizzo della medesima equazione di calcolo, senza che il modello di esperimento originale – pur menzionato in bibliografia – sia citato nel corpo dell’elaborato e precedentemente all’esperimento (ma solo successivamente ad esso ed in altro paragrafo, con la conseguenza di lasciare intendere al lettore che il modello seguito sia ideato dalla dottoranda e non dalla medesima meramente adattato, con meriti – evidentemente – diversi quanto ad originalità del lavoro).
Ad avviso del giudicante il brano, per la parte appena riportata, appare anch’esso riconducibile al filone di inchiesta citato e comunque è chiara espressione di opinione legittimamente esposta in chiave critica, certamente soggettiva, ma comunque ragionata ed estremamente pacata.
Nemmeno la parte successiva del brano, ovvero quella intitolata “C’è una differenza”, risulta diffamatoria per l’attrice, in quanto scriminata dal diritto di critica ed inchiesta, atteso che le affermazioni in essa contenute ipotizzano, in chiave di denuncia, che la Madia non si sia mai recata presso l’Università olandese di Tilburg, considerato che gli accertamenti svolti presso il medesimo ateneo avrebbero dato esito negativo.
Invero, dalla documentazione allegata al fascicolo di parte convenuta – onerata della prova del carattere non meramente congetturale e calunniatorio della denuncia – emerge la bontà delle indagini svolte con esito negativo circa la formalizzazione della presenza della Madia a Tilburg, a differenza di quanto è dalle stesse emerso per la collega Giannetti (cfr., doc. 2 e 3 comparsa di costituzione, con rifermento al fitto scambio di e-mails con l’università stessa; anche la commissione formata all’interno dell’IMT a seguito dell’inchiesta oggetto dell’odierno procedimento, nel ricostruire il percorso dottorale svolto dall’attrice nella relazione del 3.5.2017 omette ogni menzione al riguardo).
L’indagine autonomamente svolta dagli autori del brano nella ricerca della fonte dimostra dunque che della presenza dell’attrice a Tilburg non vi è traccia ufficiale, per come legittimamente esposto nell’articolo in contestazione, circostanza che non esclude, di per sé, che la Madia vi si sia recata informalmente, ipotesi che non occorre in questa sede accertare (ragione per la quale non è stata ammessa la prova testimoniale dalla medesima richiesta, come da ordinanza riservata del 16.10.2019, che deve in questa sede essere interamente richiamata quanto all’irrilevanza della prova).
Non spetta certo al tribunale indagare sull’effettiva presenza della Madia a Tilburg, una volta accertato che i giornalisti convenuti hanno legittimamente e seriamente svolto il loro lavoro di critica ed indagine sull’argomento, ingenerando il fondato sospetto (anche sulla considerazione che nel 2008 l’attrice “ha fatto campagna elettorale ed è stata eletta deputato del Pd”) della sua assenza dal detto ateneo, ma senza fornire alcuna verità sull’argomento.
Da ultimo, anche l’articolo del 7.4.2017 deve essere ricondotto al legittimo esercizio del diritto di critica tipico del giornalismo di inchiesta.
Il brano, anch’esso a firma di Laura Margottini, secondo le specifiche contestazioni di cui all’atto introduttivo, riprende ed approfondisce il tema dell’esperimento di economia comportamentale asseritamente condotto dalla Madia presso l’ateneo olandese, definito “il cuore del lavoro di dottorato”, ancora nell’ambito dell’ormai avviata inchiesta giornalistica (espressamente definita tale anche in questo brano) e con le medesime finalità, tipiche del giornalismo di inchiesta, tanto da avere determinato, per come è testualmente esposto, l’avvio di una istruttoria sul caso da parte dello stesso IMT di Lucca riferito al quotidiano dal suo direttore (poi tradottasi nelle relazioni allegate dall’attrice ai nn. 4.1, 4.2 e 4.3, rispettivamente della commissione istruttoria interna IMT del 3.5.17, Resis dell’11.10.17 e Comitato dei Saggi del 25.10.17).
Lo stesso articolo riporta espressamente l’esito degli accertamenti svolti dalla giornalista presso la portavoce dell’Università di Tilburg (Tineke Bennema, la cui corrispondenza via mail è allegata in atti al fascicolo di parte convenuta, n. 3), la quale in risposta alle informazioni richieste scrive: “non troviamo nessuna presentazione o seminario dal titolo …”, affermazione sulla quale nel brano in esame è scritto che né il tutor, né il supervisore della tesi hanno voluto rilasciare dichiarazioni. Prosegue poi la citazione delle risposte negative della portavoce, dalle quali scaturisce la domanda (retorica) della Margottini (“Chi ha condotto quindi quell’esperimento che dovrebbe spiegare come funziona la Flexicurity nel mercato del lavoro …?”), ragionevolmente volta a fondare il sospetto ed a denunciare illeciti, per come tipico della tipologia di giornalismo della quale il brano costituisce espressione (tanto che la giornalista continua “Sulla base delle informazioni finora raccolte dal Fatto, o l’esperimento di Tilburg di cui si parla nel capitolo 3 non è mai stato condotto o è stato eseguito da Caterina Giannetti”).
In conclusione la sentenza, dopo aver riscontrato la legittimità dell’investigazione condotta su ciascuno dei fatti al centro dell’inchiesta, ritorna sulle sue premesse in punto di diritto, per osservare che
occorre tenere conto del fatto che i brani esaminati, in quanto frutto di inchiesta giornalistica, trovano la loro finalità proprio nella denuncia di sospetti di illeciti meritevoli di approfondimento – nella specie affatto calunniosi o meramente congetturali in base alle fonti indipendenti citate e consultate, ma piuttosto approfonditamente motivati ed argomentati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti – portati a conoscenza della collettività dei lettori per stimolare un dibattito costruttivo su temi sociali di particolare rilievo e sollecitare una presa di coscienza collettiva, se del caso anche aprendo filoni di indagine da parte degli organi a ciò espressamente deputati, come effettivamente avvenuto nel corso dei mesi successivi alla loro pubblicazione, secondo la documentazione depositata da entrambe le parti.
In tale prospettiva, dunque, il sospetto di illeciti, alle condizioni sopra dette e nella specie esistenti, risulta del tutto “autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”, sempre che sussista anche il requisito dell’interesse pubblico all’oggetto della indagine giornalistica, nella specie evidente ed innegabile, tanto sotto il profilo di interesse economico e sociale, quanto sotto quello politico, profilo comunque non oggetto di doglianza nell’atto introduttivo.
Alle condizioni esposte, allora, l’operato dei giornalisti autori dell’inchiesta è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto all’interesse della persona cui l’inchiesta si riferisce, attrice nell’odierno giudizio e sulla quale il predetto sospetto è ricaduto.
A ciò si aggiunga, da ultimo, che non risultano affatto utilizzate (né invero sono oggetto di doglianza nell’atto introduttivo) espressioni esorbitanti dal concetto di continenza formale, tenuto conto del contesto indubbiamente critico del quale l’inchiesta in esame risulta espressione. Per quanto riguarda il requisito della continenza, infatti, va ricordato che “Il diritto di critica giornalistica può essere esercitato anche in modo “graffiante”, ma con il parametro della proporzione tra l’importanza del fatto e la necessità della sua esposizione anche in chiave critica ed i contenuti espressivi con i quali la critica è esercitata. Pertanto, la critica non deve trascendere in attacchi e aggressioni personali diretti a colpire, sul piano individuale, la figura morale del soggetto criticato” (tra le tante, v. Cass. civ., Sez. 3, 20 ottobre 2006, n. 22527).
Ne è conseguita la totale reiezione della domanda risarcitoria promossa da Marianna Madia, che adesso, in esito alla soccombenza sancita dalla pronuncia, dovrà rifondere ai convenuti i due terzi delle spese sostenute per difendersi in giudizio, pari a più di 6000 euro.
In calce il testo integrale della sentenza del Tribunale di Roma depositata il 1 settembre 2021.
Ma veramente i tre ‘saggi Francesco Donato Busnelli, Massimo Egidi e Giovanni Maria Flick, chiamati a valutare l’accaduto, hanno potuto scrivere:
“in questo contesto, risulta quindi difficile immaginare come una studentessa di dottorato in un’area ove è evidentemente così diffusa la pratica di prendere a prestito lunghi paragrafi da testi precedenti potesse agire diversamente da quanto riscontrato, utilizzando per sua scelta uno standard diverso da quello dei migliori accademici del campo”?
Incredibile!